17 settembre 2008

Richard Wright

La morte di Richard Wright fa male, così come fece molto male quella di George Harrison (e lo sapete che non sopporto i Bitols): due persone compassate, naturalmente eleganti, sia nei modi che nel suonare, con quell'innato senso del saper rendere sferiche melodie spigolose, e misteriose le partiture altrimenti banali.
Circondato da autentici serial killer della tastiera (Keith Emerson, Keith Tippet, Mike Garson, Richard Wakeman, David Stewart...), il nostro sapeva dire e dare le note giuste al momento giusto, senza mai scomporsi più di tanto, sia quando raffinava pezzi veramente esemplari (Us And Them o The Great Gig In The Sky), o quando costruiva suoni totali, di quelli che puoi fare mille volte, ma che non saranno mai come li pennellava lui (Echoes o Shine On, anche se le ultimissime note ricordavano troppo il Bolero di Ravel).
Mi sfugge perché nessuno lo abbia celebrato anche per quel micidiale capolavoro (suddiviso in tre splendide parti) dedicato al mito di Sisifo e contenuto in Ummagumma, doppio LP ricco di sperimentazioni notevoli (alcune leggendarie, come The Narrow Way).
Certo è che con la sua morte (dopo quella ormai lontana di Ian Stewart, il quinto Stone) si chiude definitivamente un modo di essere pianoforte che molto avrebbe da insegnare ai musicisti di oggi.

Appena ho letto della sua morte su un misero take del televideo, mi son venute in mente le parole di Breathe (reprise).
So long, Richard, so long.

Home, home again
I like to be here when i can
When i come home cold and tired
It's good to warm my bones beside the fire
Far away across the field
The tollling of the iron bell
Calls the faithful to their knees
To hear the softly spoken magic spells

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