13 gennaio 2010

californication

Lui per me è sempre stato Fox Mulder, non ci stanno caz... ops, santi che tengano. Scusate ma già mi sto esprimendo in stile Hank.
E adesso Hank chi è?
Il personaggio che l'ex agente dell'FBI interpreta alla grande, con spessore, coraggio e arguta intelligenza.
Insomma David Duchovny (americano doc, e anche metà ebreo e metà scozzese: "è dura per me comprare qualsiasi cosa") supera se stesso, supera i mille preconcetti che giustamente gli avevamo appioppato sulla sua scarsa recitativitudine, e tira giù dallo scaffale una serie veramente bella, di quelle che restano bene appiccicate nella memoria (la casa produttrice, anch'essa coraggiosissima, è la stessa di Dexter).
A metà tra un leggero Charles Bukowski (da cui ha "rubato" il noto nome di un suo alter ego) e uno shlemiel a tutto tondo, Hank è uno scrittore in piena crisi, ancora perdutamente e infantilmente innamorato della sua ex compagna (da cui ha avuto una figlia deliziosa), dedito pervicacemente al sesso e all'alcol (da cui, e invece, continua a ricevere solo matasse imbrogliate e situazioni senza uscita).
Storie per nulla banali, sottotrame azzeccate, scelte musicali, di montaggio e fotografiche di altissimo livello, una produzione che segue strade nuove senza sradicare quelle vecchie, idee tutt'altro che ovvie e situazioni con spessore e umanità che a volte lasciano di stucco per la loro essenza così complessa e composita. E nonostante il contesto e i momenti hard riesce persino a non essere volgare; il che è difficile, complicato e narrativamente limitante (soprattutto nella sostanza).
E il nostro Duchovny ha più delle solite due espressioni che aveva nel bellissimo X Files. Veramente sorprendente.
Così come sorprende il fatto che la serie fosse nata come "esperimento" quasi underground (la prima stagione finisce e basta), ma che poi ha avuto un successo così folgorante da meritarsi ben tre stagioni all'attivo (e forse una quarta... chissà).

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