16 marzo 2010

Invictus



Oltre la notte che mi copre, nera
come nero il pozzo da cima a fondo,
per l’anima mia inviolata e altera
ringrazio ogni dio che esista al mondo
Nella selvaggia morsa degli eventi
io non ho disperato o barcollato.
Sotto la sorte e i suoi percuotimenti,
nel sangue, il capo Io non ho chinato
Oltre quest’inferno di pianto e d’ira
non v’è che delle tenebre l’Orrore.
Se pure contro me il tempo cospira
mi trova e troverà senza timore
L’impervia uscita non mi fa impressione,
né la spietata pena che mi sfida,
del mio destino io sono il padrone:
dell’anima mia io sono la guida
Un film che ti alzi in piedi affaticato, provato, con un dolore intrigante che percorre le ossa e la coscienza. Perché questo è il film che riesce a far capire quanto spirito e corpo debbano sempre camminare insieme, tenendosi per mano, magari ogni tanto litigando, per poter affrontare meglio la vita, nei momenti bui, nei momenti felici, ma soprattutto nei momenti del dubbio. E quando sei un nero che per secoli hai subito le ignominie dell’uomo bianco, è difficile ricordarti di essere uomo e saper convivere serenamente con il tuo ex nemico.
Eppure Nelson Mandela è questo. Eppure Clint Eastwood è questo. Eppure Invictus è una straordinaria lezione su moltissime cose, per tutti noi.
Ho trovato infantile questo criticismo all’italiana che ha voluto trovarci pecche stilistiche, o una retorica esagerata o cose simili. In realtà i tromboni dell’appuntino ad ogni costo sono invidiosi degli anglosassoni: per noi italiani la retorica è cosa tronfia pesante, ridicola, asfissiante e dedicata a qualcosa di temporaneo e individualistico; per gli anglosassoni, invece, la retorica è una missione, è un’aspirazione, è un’attitudine, è essere come il capitano della squadra sudafricana e saper guidare i suoi verso l’assoluto, perfettamente consapevole che all’inizio in molti aderiranno per inerzia; ma è proprio in questo modo che i meno convinti si rendono conto che ogni mondo è possibile… praticandolo.
E il rugby è l’allegoria perfetta per tutto questo.
Un film straordinario che ti resta appiccicato addosso come un profumo suadente. Un film nobile che sa raccontare le cose esaltanti in maniera soffusa o le banalità quotidiane con humor quasi serioso.
Dispiace solo uscire dalla sala e rendersi conto che in Italia tre personaggi simili (Eastwood, Freeman/Mandela e Damon/Pienaar) siano impossibili da trovare, per un difetto culturale di fondo che proprio non vogliamo scardinarci. Guardate il film e fatevi questa banalissima domanda terra terra: quando mai in ufficio ho avuto un “capo” capace di rendersi conto dei propri limiti? Quando mai qualcuno si è preoccupato di sapere cosa fossi in realtà? Quando mai un leader italiano ha saputo guidare il paese andando oltre le convenzioni, le ipocrisie, comprendendo le ragioni delle minoranze e quietando l’entusiasmo della maggioranza? 
Invictus andrebbe proiettato nelle scuole, per insegnare ai ragazzi che è possibile essere persone per bene, che è possibile coltivare gli ideali, che è possibile costruire qualcosa di concreto anche grazie all’enfasi, allo spirito di squadra, all’onesto rispettare le regole, alla coerenza tra il nostro dire e il nostro fare…

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro Ale
ho particolarmente apprezzato il tuo commento al film "Invictus".
Sono uscito dalla sala con la sensazione di aver condiviso dei valori che mi appartengono, e che vorrei veder applicati nella vita di tutti i giorni.
Mi viene da pensare ad un aggettivo per qualificare la situazione politica e sociale italiana: banale.
Banale, piccola, senza sussulti, senza passioni, senza visione. Senza speranza, aggiungerei. Nessuno ha più l'orgoglio di essere il capitano della propria vita perché nessuno è più in condizione di poter credere al cambiamento. Ci si trascina sui piedi.
Ti saluto caramente e grazie per i tuoi spunti di riflessione.
Andrea Troiano