21 febbraio 2012

keith richards, life

Credo che il folletto dei Rolling Stones appartenga a quella rara categoria di persone che ti stanno simpatiche comunque, qualsiasi cosa facciano. E questo nonostante Johnny Depp abbia provato a demolirlo con un personaggio prima azzeccato, e dopo, un (bel) po' stucchevole.
Questa autobiografia è notevole, per almeno due motivi. Il primo è squisitamente personale: Richards si dimostra umile, intelligente, per nulla disinibito, incredibilmente capace di parlare delle droghe con un approccio tutt'altro che moralisticheggiante, ma nel contempo di condanna assoluta. 
Eppoi è quasi educativo vederlo alle prese con numerosi mostri sacri e riuscire a dire la sua senza scomporsi più di tanto (e vivaddio non si lascia trascinare dalla solita solfa di reverenza beatlesiana).
Il secondo motivo è musicale, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello storico. Richards, cioè, indica e suggerisce un'incredibile quantità di dettagli musicali, utili sia al neofita che all'appassionato, non tralasciando anche l'aspetto storico, raccontando cioè un'Inghilterra e una Storia della Musica che raramente avevo letto con così tanta minuzia di particolari.
Rispetto, insomma, alle precedenti biografie stonesiane siamo di fronte a una persona consapevole del personaggio che è, di quello che faceva, di quello che stava accadendo.
Eppoi, alla fine, è un libro divertente, molto divertente. Le mille vite vissute, le incredibili peripezie che lo hanno visto più volte faccia a faccia con la morte (solo la storia del camion militare con tanto di missile, vale l'acquisto), il giudizio severo (e affettuoso) contro i due Brian Jones e Mick Jagger, l'amore per il blues, la capacità di innamorarsi... e poi, nota commovente, il dolore per la perdita del figlio.
Se questa Italia non fosse bacchettona e ipocrita, lo consiglierei alle scuole: la seduzione delle droghe viene meno, e una certa indipendenza mentale diventerebbe invece esemplare.

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