14 marzo 2012

Hugo Cabret c'est moi (#hugocabret)

Odio i film con i bambini. Con tutto il cuore e l’anima. Ho capito che ero cresciuto, quand’ho rifiutato di andare a vedere i disney con protagonisti dei bambini…
Ma amo Scorsese. Con tutto il cuore e l’anima. Ho capito che sono cresciuto, quand’ho sentito dentro di me il “dovere morale” di andare a vedere il suo Hugo Cabret… un capolavoro.
Una delle più belle e intense dichiarazioni d’amore per il cinema.
Attenzione: non per la storia del cinema, ma per quello che il cinema rappresenta, per quello che il cinema è, per la sua magia, per quella terribile fitta al cuore che mi prende quando si riaccendono le luci in sala per dirmi che devo tornare alla realtà… forse è per questo che quando me ne devo andare dalla sala, mi vergogno di incrociare gli altrui sguardi; è stato così intimo quel mio viaggio, che mi vergogno a farmi vedere così scoperto, così vulnerabile.
E Hugo Cabret mi ha strappato continue commozioni, umettandomi gli occhi di tutte quelle sensazioni che ho provato da quanto per la prima volta vidi in una proiezione privata King Kong, o quando - mentre Turone segnava in fuorigioco - vivevo le magie di 007. E gli occhi giovani e innocenti e curiosi del bimbo protagonista, sono i miei; non certo di quel celeste devastante e miracolato, ma sempre i miei occhi sono.
Scorsese azzecca tutto, dal prodigioso piano-sequenza iniziale alle citazioni trasversali (il treno che deraglia nel sogno è cosa realmente accaduta), alla musica paraglassiana e fortemente legata a una Francia preVichy che sa tanto di Casablanca, di Truffaut, di Camus, di belle epoque, di Rilke e Salomé che passeggiano incrociando magicamente Hemingway o Picasso, di quelle cose che credi sopravvivano al tempo, ma che il tempo rende indelebili solo nel fumo della Memoria.
Scorsese si arrampica dentro la nostra misericordia di occidentali persi e ci regala un filo di turbamento, ricordandoci che l’ultima delle grandi arti è fatta solo dei nostri sogni.
E non poteva che farlo con l’immagine solida e impalpabile di Méliès, l’ultimo degli sperimentatori, il primo e unico che aveva capito quanto il cinema fosse fatto di nulla, di nulla come l’acqua però, di cui non senti il gusto, ma che ti è indispensabile per vivere (o sopravvivere).

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