17 ottobre 2012

i fumatori della Diaz

Ho frequentato Daniele Vicari solo durante l'occupazione universitaria della cosiddetta "Pantera" (inizi del 1990): siamo stati fianco a fianco per due mesi, discutendo di politica e di cose concrete come mai avevo fatto in vita mia. Posizioni opposte, spesso dure, con il risultato che io sembravo il moderato e lui l'estremista.
Poi ci siamo persi di vista, come spesso càpita. Sicuramente non è un fighetto: conosco le sue umilissime origini e il suo impegno a riuscire in qualche cosa, cercando sempre di essere coerente (anche se, ad essere pignoli, ha accettato i compromessi di Domenico Procacci con i distributori berlusconiani).
Non gli ho mai perdonato, però, il contributo che ha dato alla stesura del Partigiani, pessimo progetto che restituiva un'idea direi veltroniana dei partigiani, e che quindi non rendeva il giusto onore storico ad una formazione di giovanissimi che ha dato un minimo di onorabilità ad un'Italia altrimenti cenciosa e furbetta, quale solo ha saputo essere quella fascista (e oggi verrebbe da dire berlusconiana).
Fatto sta che ho trovato il suo Diaz un film eccellente, sia sotto il punto di vista meramente tecnico, che sotto quello - ben più arduo - estetico (e quindi di denuncia).
I film di denuncia, sia sa, sono molto rischiosi (perlomeno qui in Italia): soffrono dell'autoreferenzialità dell'autore, della sua prospettiva (o fintamente oggettiva o presuntuosamente moralisticheggiante), della recitazione, della musica (sempre 'sti violini tinellosi tra le palle!).
Diaz, sorprendentemente direi, supera tutti questi rischi, in maniera veramente adulta, quasi esemplare. La denuncia c'è, ma non è dottrinale; l'aneddotica c'è, ma mai buonista; le frecciatine ci sono, e parecchie, ben mirate e ben raccontate (al movimento, alle istituzioni, ai giornalisti - mitica un'allusione a Repubblica che toglie il fiato).
Insomma, Vicari ha messo dentro la Storia del Cinema, e dentro la Storia dell'Europa, un film che dovrebbe diventare punto di riferimento sia per raccontare cosa è veramente accaduto, sia sul come raccontare certi accadimenti. 
Esteticamente, poi, trovo addirittura audace il ritornare indietro certi momenti già narrati - gli espertoni direbbero "in maniera ellittica" - per stabiliri la loro esatta collocazione dentro la storia della Storia. 
Infine, si vede che la sceneggiatura si basa su testimonianze e documenti. Sia perché conosco bene il Libro Bianco su Genova, sia perché Vicari non indugia mai sulla finzione fine a se stessa, o sulla morbosità: fa vedere quello che accade, e restituisce le prove allo spettatore. Sarà solo lui a restituire il significato giusto alle sequenze che ha visto. E forse è per questo che non c'è nessuna allusione alla pessima figura che fece Ciampi, allora Presidente della Repubblica (ma non sono nella testa del Vicari, e quindi resta qualche dubbio su questa dimenticanza).
L'appunto bonario che mi sento di fargli, memore anche di un suo amore/odio dichiarato per un certo cinema americano, è su certe caratterizzazioni necessarie: quelli del movimento non fumano mai; i black block, i poliziotti e quelli delle istituzioni, sì. Chissà perché. 
 

update le affettuose puntualizzazioni di Daniele Vicari

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