10 luglio 2013

oltre il discorso di Marchionne

Non essendo un competente in materia, ho letto il discorso di Marchionne con spirito curioso e documentativo (in questo link trovate il pdf integrale, in calce al commento del giornalista).
Purtroppo al pubblico è arrivato un segmento decontestualizzato invece di un riassunto delle nutrite e corpose 18 pagine (lette con attenzione e poca retorica nell'arco di quasi 30 minuti). Il che è una colpa tipicamente giornalistica, considerato che ai mass media documenti così importanti vengono consegnati prima (o a ridosso) di un evento, garantendo quindi il tempo di approfondire al meglio ogni singolo punto.
È vero che Marchionne non è il massimo dell'affabilità; è altrettanto vero che è un uomo di potere, e che questo potere lo sa esercitare con forza e originalità. 
Ma è anche vero che i successi elencati sono impressionanti, e un buon giornalista avrebbe dovuto/potuto verificarli con dovizia di particolari, restituendoli al pubblico per quello che sono veramente, dando quindi al pubblico uno sfondo documentativo di fatti e notizie concrete.
Invece, noi comuni mortali abbiamo ricevuto solo commenti e indignazioni - prendendo quindi subito le parti a favore o contro - ma senza sapere in realtà qual era il nodo della questione, e quali erano i punti veri o falsi della prolusione di Marchionne. 
Ho isolato questo passaggio a beneficio di chi vuole andare oltre le polemiche:
L’ingegnere Materazzo ricordava, poco fa, che a inaugurare questo stabilimento, nel 1981, c’era l’Avvocato Agnelli con l’allora presidente Pertini.
In quell’occasione, l’Avvocato parlò dell’impegno della Fiat nel Mezzogiorno, ma parlò anche di economia, di democrazia e di libertà.
Disse che “l’economia di mercato è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per il rafforzamento della democrazia.
Ma perché il libero mercato viva, è necessario che ci si concentri sulla produzione di ricchezza prima che sulla sua distribuzione.
Se la priorità della produzione non viene rispettata, un paese non va inevitabilmente allo sfascio: però, col tempo, degrada.
La convivenza tra i cittadini finisce per degenerare, perché il loro benessere dipende sempre più dalla distribuzione politica delle risorse e sempre meno dalla qualità e dagli sforzi necessari per produrle
”.
Oggi quelle parole suonano quasi profetiche e non potrebbero essere più vere.
Per anni l’Italia ha vissuto al di sopra delle sue possibilità, concentrata a distribuire ricchezze che diventavano sempre più scarse.
E gli italiani si sono ritrovati con le tasche vuote.
L’unico modo che abbiamo oggi per risalire la china, per invertire un ciclo economico avvitato su se stesso, è tornare a produrre.
Dobbiamo concentrarci sulle iniziative industriali, favorirne se possibile di nuove, perché è l’unica strada per tornare a generare quella ricchezza che dà ossigeno al Paese.
Quando l’Avvocato, sempre 32 anni fa, disse che la libertà ha anche una dimensione economica, intendeva esattamente questo.
Se le forze politiche e sociali non fanno tutto il possibile per rispettare il primato della produzione, la libertà conquistata dai nostri padri e dai nostri nonni si asciuga. Si trasforma in rissa tra fazioni e gruppi sociali per spartire le briciole.
Se la leggiamo senza pregiudizi, a me sembra un'interpretazione moderna e realistica del Primo Articolo della Costituzione Italiana. Certo, è dalla prospettiva di un capitalista, ma i punti nodali della sua disamina sono forti, strutturati e di difficile confutazione.
A qualcuno verrà in mente la Fiom e la recente sentenza a suo favore. Leggiamo cosa dice Marchionne:
Ma in tutto questo stiamo incontrando molte più difficoltà di quanto non avremmo immaginato, che mettono a serio rischio ogni passo successivo.
Anche la pronuncia della Corte Costituzionale, arrivata la scorsa settimana, aggiunge elementi di incertezza.
Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza e le leggeremo con attenzione.
Mi limito, però, ad osservare che con questa decisione la Consulta ha ribaltato l’indirizzo che aveva espresso in numerose altre occasioni, sullo stesso tema, durante gli ultimi 17 anni nei quali è in vigore la presente forma dell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori.
La Fiat non fa e non ha fatto altro che applicare la legge, in modo rigoroso.
La Fiom è stata esclusa dalla possibilità di nominare rappresentanti sindacali in base a quella legge.
Una legge che dice chiaramente che i rappresentanti sindacali possono essere nominati solo dalle organizzazioni firmatarie del contratto e da quelle organizzazioni che ne accettano le condizioni.
Peraltro, si tratta di un principio giuridico che viene riconosciuto in tutti i Paesi civili del mondo: puoi beneficiare di un contratto se ti assumi le responsabilità presenti in quel contratto.
Per ironia della sorte, la modifica dell’articolo 19 introdotta nel 1996 è stata voluta proprio dalla Fiom, che ha appoggiato un referendum popolare promosso da Rifondazione Comunista e dai Cobas.
Pare che oggi non se lo ricordi più nessuno.
Tra tutti quelli che hanno commentato la sentenza della Consulta, non ho mai sentito dire che la Fiat ha applicato, con coerenza, una legge che adesso alla Fiom non piace più.
Anzi, hanno messo noi sotto accusa, dicendo che abbiamo violato la Costituzione, mentre abbiamo solo rispettato una norma in vigore da 17 anni e voluta da chi ora la contesta.
Ora, io che non sono giornalista, mi aspetterei che un giornalista mi dica veramente come stanno le cose, e se sono vere le "accuse" di Marchionne: non ho trovato un mass media che abbia confutato o confermato il passaggio sopra citato.
E veniamo alla frase che ha generato polemiche a non finire (alcune, forse troppe, strumentali e opportuniste). Ho segnato in grassetto un passaggio che commenterò brevemente in calce.
Abbiamo sottoscritto un nuovo contratto di lavoro, concordato con la maggior parte dei sindacati e approvato dai nostri lavoratori.
Mi rendo conto che quando si introduce un cambiamento non ci si può aspettare un consenso unanime.
Ma non si fanno gli interessi dei lavoratori difendendo un sistema di relazioni industriali che non è in grado di garantire che gli accordi stipulati vengano effettivamente applicati.
Condivido che i diritti di tutti, a prescindere dalla categoria sociale di appartenenza, costituiscono la base di una comunità civile.
Ma oggi viviamo in un’epoca in cui parla sempre e solo di diritti.
Il diritto al posto fisso, al salario garantito, al lavoro sotto casa; il diritto a urlare e a sfilare; il diritto a pretendere.
Lasciatemi dire che i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati.

Se però continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo.
Perché questa “evoluzione della specie” crea una generazione molto più debole di quella precedente, senza il coraggio di lottare, ma con la speranza che qualcun altro faccia qualcosa.
Una specie di attendismo che è perverso ed è involutivo.
Per questo credo che dobbiamo tornare ad un sano senso del dovere, consapevoli che per avere bisogna anche dare.
Bisogna riscoprire il senso e la dignità dell’impegno, il valore del contributo che ognuno può dare al processo di costruzione, dell'oggi e soprattutto del domani
.
Malgrado stiamo operando in un contesto economico negativo, non vogliamo mettere in discussione gli investimenti annunciati.
Ma non possiamo accettare che comportamenti violenti, di boicottaggio del nostro impegno, vengano considerati “esercizio di diritti” anche da autorevoli Istituzioni.
Non è giusto nei confronti dell’azienda, ma soprattutto non è giusto nei confronti di tutti quei lavoratori che stanno lottando per togliersi dalle secche della recessione.
Un Paese dove ogni certezza viene messa in dubbio, dove gli accordi si firmano ma poi si possono anche non rispettare, dove una norma può essere letta in un modo ma anche nel suo contrario, dove la volontà di una maggioranza è negata da un’esigua minoranza… Tutto questo è un caso tristemente unico al mondo ed è un deterrente per chiunque voglia venire ad investire in Italia.
Qui in Rai la situazione è decisamente diversa, né migliore né peggiore; comunque drammatica. Il comportamento di alcuni sindacati, però, è analogo a quello denuciato da Marchionne, con l'aggravante che la Fiat gli operai se li sceglie; in Rai, una parte dei colleghi è imposta da meccanismi contorti che nulla hanno a che vedere con titoli e meriti. E una parte del nostro sindacato vede questi meccanismi, li conosce, ogni tanto si indigna, ma alla fine li lascia sussistere.
Addirittura, anche se il lavoratore sbaglia, se manca di riguardo ai colleghi o ai superiori, se non fa il suo dovere, se usa i propri diritti come clava per non adempiere ai propri doveri... una parte del sindacato lascia fare, confondendo quindi i diritti delle brave persone con gli errori di quelle nocive.
Eppure tutto questo non si può denunciare, non si può neanche pensare. Anzi, io ho il lusso di poterlo fare perché ho pochi lettori e non ho una posizione sociale roboante o seducente.
Il problema, tipicamente italiano, è che tutto questo porta a un mancanza di credibilità che coinvolge tutti. E quindi quest'assenza di etica e questa incoerenza prestano inevitabilmente il fianco al Marchionne di passaggio; un uomo, cioè, che con la sua cultura e determinazione sa essere più convincente di chi avrebbe il ruolo di rappresentare i diritti (e i doveri!) dei lavoratori.
Ma il punto è un altro: questo ragionare con realismo, miscelando sapientemente la realtà con la dignità del lavoratore (come fa Marchionne nell'ultimo paragrafo citato), può di fatto aprire le porte anche ai profittatori, a chi abuserebbe di momenti difficili e delicati per imporre una strategia che annienta chiunque, anche i diritti delle brave persone. 
È uno scotto da pagare?
Credo proprio di no. Però, e allora, bisogna anche cambiare mentalità, difendendo non il diritto al lavoro ma il diritto del lavoratore, da entrambe le parti della medaglia. Chissà se i sindacati saranno disposti a capirlo.

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