26 novembre 2013

Monk, la biografia necessaria

Se il jazz fosse un solido, sarebbe una tavola; non particolarmente complessa, né vistosa. Ci penserebbero i musicisti a darle i toni e i colori appropriati, magari temporanei, sicuramente estemporanei, comunque intrisi di fugaci bellezze anche per l'ascoltatore più esperto.
Miles Davis starebbe fermo al centro. Non si muoverebbe di un millimetro. Per lui la tavola non esiste. I suoi suoni andrebbero solo in alto, arrampicandosi all'infinito.
Quando la gente cammina - o sta ferma - non si guarda mai intorno; Miles Davis, invece, ha sempre avuto la rara genialità di non curarsi dell'ambiente, ma di esplorarne il non visibile, il non immaginabile.
Keith Jarrett penserebbe solo a se stesso: suonerebbe guardando uno specchio che riflette uno specchio che riflette uno specchio che riflette uno specchio che riflette uno specchio... passerebbe ere e ore alla ricerca del suo io, convinto che sia così incommensurabile da non essere quantificabile se non dal suo pianismo.
Chick Corea correrebbe sopra questa tavola, come un eterno bambino, spensierato e un po' saccente, inseguito da Bollani, a loro volta osservati con sorniona pazienza da Mingus e dai due Evans (Gil e Bill), gli eterni maturi di una genìa di monumenti insormontabili...
La lista è lunga, infinita: ogni musicista jazz avrebbe il suo spazio e il suo modo di interpretarlo.
E poi ci sarebbe Monk. 
Dico "sarebbe", perché Monk si metterebbe lì, con incosciente leggerezza, a raccontare gli spigoli. Ogni solido ha uno o più spigoli, anche una sfera se vogliamo. La tavola del jazz ne ha quanti ne volete: ognuno dei quali, però, già sperimentato da Monk. 
Anzi, Monk aveva il coraggio di camminare un po' di qua e un po' di là i confini di questa eterna tavola. Sapeva, cioè, che era impossibile raccontare l'oltre di questa tavola: ma era altrettanto consapevole che poteva mettersi di spalle all'ignoto e osservare attentamente ogni singolo spigolo, minuzie di angoli e controangoli, per poi raccontarli a noi avidi ascoltatori tramite un'unica e perfetta capacità di risolvere ogni possibile enigma.
Monk suonava rispettando l'essenza tribale del pianoforte, così ritmico nella sua natura da essere invece usato forzatamente come strumento melodico, forse orchestrale, ma mai nella sua essenza più ancestrale. Il pianoforte ha sempre cercato Monk, e quando poi l'ha trovato si è seduto soddisfatto da una parte, ormai sazio. 
Esiste un prima e un dopo 'Round Midnight, ma niente che riesca a sfiorarlo. Esiste un prima e un dopo le musiche di Monk, e poi ci sono solo quelle di Monk; questo libro è la sua storia, questo libro è la biografia di quegli angoli.


Nessun commento: