Complice un'iniziativa editoriale conveniente, ho acquistato la penultima fatica di Peter Gabriel. Più ombre che luci, e anche un po' di noia.
Va detto che sono abbastanza aperto alle autorivisitazioni, e non credo che l'aggiunta di un ensemble di archi debba per forza mortificare un brano pop, rock o d'avanguardia. Anzi, Scratch My Back proponeva dei momenti veramente intriganti, in cui letteralmente certi brani venivano riscoperti, o addirittura scoperti del tutto.
Credo che operazioni del genere, specie se non si è pressati da motivi economici o da obbligate scadenze contrattuali, possano servire all'artista per raccontare le parti nascoste di brani già noti. Complice il fatto oggettivo, cioè, che il proprio pubblico conosce già certe linee melodiche, ci si può giocare sopra, lavorando anche di destabilizzazioni, di riempire i vuoti lasciati in precedenza e di svuotare invece i momenti precedentemente troppo densi.
Qui, invece, siamo all'approssimazione pura. Ma non quella deliziosa del rock nostalgico: semplicemente c'è poco rischio, molta omogeneità, addirittura momenti che potrebbero decollare (cfr In Your Eyes) e che invece si schiantano nell'angolino comodo dell'ammiccante e del già sentito. E poi, diamine!, le voci femminili sono veramente brutte, ma brutte brutte brutte. E, per restare nell'ambito dell'arrangiamento, si sente la mancanza del basso compulsivo di Tony Levin e delle savaneggianti ritmiche di Manu Katché. Se mi vuoi far dimenticare gli arrangiamenti originali, tutto questa furbizia è un male: non mi devi costringere al "meglio prima"; altrimenti, che operazione è?
A un personaggio come Peter Gabriel si vuole bene sempre, anche quando svacca. Però, dopo quest'operazione, per un po' di tempo non gli rivolgerò la parola. Speriamo che non si offenda.
Credo che operazioni del genere, specie se non si è pressati da motivi economici o da obbligate scadenze contrattuali, possano servire all'artista per raccontare le parti nascoste di brani già noti. Complice il fatto oggettivo, cioè, che il proprio pubblico conosce già certe linee melodiche, ci si può giocare sopra, lavorando anche di destabilizzazioni, di riempire i vuoti lasciati in precedenza e di svuotare invece i momenti precedentemente troppo densi.
Qui, invece, siamo all'approssimazione pura. Ma non quella deliziosa del rock nostalgico: semplicemente c'è poco rischio, molta omogeneità, addirittura momenti che potrebbero decollare (cfr In Your Eyes) e che invece si schiantano nell'angolino comodo dell'ammiccante e del già sentito. E poi, diamine!, le voci femminili sono veramente brutte, ma brutte brutte brutte. E, per restare nell'ambito dell'arrangiamento, si sente la mancanza del basso compulsivo di Tony Levin e delle savaneggianti ritmiche di Manu Katché. Se mi vuoi far dimenticare gli arrangiamenti originali, tutto questa furbizia è un male: non mi devi costringere al "meglio prima"; altrimenti, che operazione è?
A un personaggio come Peter Gabriel si vuole bene sempre, anche quando svacca. Però, dopo quest'operazione, per un po' di tempo non gli rivolgerò la parola. Speriamo che non si offenda.
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Saluti,
Alessandro