Pare fatto apposta - anche se non lo è - che proprio a ridosso del Giorno del Ricordo, Rai3 abbia proposto Generation War, una miniserie su cinque giovani tedeschi che passano attraverso le atrocità della Seconda Guerra Mondiale uscendone trasformati, e in un certo senso vincenti.
Perché la battuta sul Giorno del Ricordo? Perché la coscienza civile dei paesi che hanno una Storia recente fatta di sangue, di sopraffazione e di dolore - cioè Italia e Germania - sembra vivacchiare nel saper attendere, con la speranza che il Tempo dissolva la Verità, con la certezza che il popolo non sappia, non voglia sapere, non ascolti, non voglia ascoltare.
E se il Giorno del Ricordo è una speculazione storica escogitata da italiani per coprire le atrocità di altri italiani che ebbero come conseguenza anche le Foibe (Alessandra Kersevan insegna), mi meraviglio che i tedeschi abbiano edificato un'opera così scomposta e ricca di indulgenze, di contraddizioni e di sottilissime dimenticanze.
Ora: per quanto un film non possa - e non debba - sintetizzare qualcosa in maniera perfetta e soddisfacente; per quanto bisogna accostarsi alle opere senza aspettarsi quel che si pretende venga rigorosamente narrato; per quanto la Storia sia fatta di duttile Verità e di macroscopici machiavellismi... ridurre la responsabilità tedesca nel modo narrato da Generation War fa veramente male. Insomma, anche i rigorosi tedeschi hanno dimenticato Kant per entrare dentro la stanza crucca della più comoda mistificazione.
Partiamo dagli aspetti tecnici, che potrebbero restare solo tali, ma che forse sono anche figli di un lapsus mentale. La musica, rabberciatamente debitrice del secondo movimento del Concerto Imperatore di Beethoven, lavora di nostalgia, di languore, di pathos preconfezionato e sempre molto puntuale e azzeccato.
La fotografia è sempre identica a se stessa, senza quell'elegante accortezza di saper presentare lo svolgersi del tempo con viraggi differenziati. In più, genera nello spettatore una costante sensazione a metà tra il ricordo doloroso e la (presunta) ricostruzione storica, supportata da una voce fuori campo sempre sul punto di assolvere i peccati dei cinque, e quindi dei tedeschi.
I protagonisti sembrano vittime del sistema, costretti a fare quello che fanno solo dal perfido Hitler e non da un consenso popolare che superò di gran lunga quello del Fascismo (una lettura di Daniel Goldhagen non farebbe male a nessuno).
La Shoah viene spostata in un angolino, in maniera irritante e imbarazzante.
Addirittura, i partigiani polacchi sono trattati alla stessa stregua degli aguzzini nazisti... su questo va fatta una doppia distinzione. La prima: i nazisti costruirono i lager soprattutto in Polonia, perché non volevano urtare la sensibilità della popolazione tedesca (che comunque sapeva, altroché), e perché contavano sul silenzio di una fetta consistente dei polacchi, notoriamente poco inclini all'ebraismo. Ma se poi andiamo nel Giardino dei Giusti, scopriamo che di eroi polacchi che hanno lottato per gli ebrei, ce ne sono. Ergo, la reductio filmica è grossolana e fuorviante.
Secondo motivo: è vero che noi abbiamo Pansa qui in Italia che si sollazza infangando i nostri partigiani; è anche vero che più in generale alcuni partigiani non erano stinchi di santo... ma lasciarsi andare a una furbata mistificatrice ne passa.
È poi evidente, quasi eclatante direi, come una parte delle sequenze sia debitrice dell'ottimo Le benevole di Jonathan Littell. Solo che Littell non assolve, documenta, racconta, e soprattutto non gioca a rimpiattino con le responsabilità del popolo tedesco. In più, il suo cronachismo così asciutto, lineare, ricco di sfumature mai ostentate ma ben evidenti, consente al lettore di fare una viaggio nel dolore e nella miseria senza uscirne né vivo (metaforicamente parlando), né tantomeno conciliante.
Se, insomma, gli autori volevano raccontare una serie di storie tedesche incrociate, potevano evitare sia di alludere troppo a certe vergogne che di scivolare nell'aneddotica spiccia.
I personaggi, poi, sono la fine di ogni possibile dibattito, se non altro perché tutti abbastanza prevedibili; comunque paradigmatici di una sorta di assoluzione collettiva.
L'ebreo innamorato della futura cantante famosa, sembra uscito da un filmetto minore di Allen, sempre pronto a mostrare un'espressione a metà tra l'inespressivo e l'imbambolato. Questo aver presentato un ebreo tra non ebrei, ricorda un po' certi film americani politically correct in cui bisogna per forza circondare l'eroe del film di neri, ebrei e omosessuali. A casa mia si chiama "uso strumentale".
Il nazista nudo e puro, invece, presenta rimorsi di coscienza pressoché immediatamente, come se la sua breve carriera da ufficiale (è del 1921) non sia stata invece cosparsa anche da adunate a Norimberga e da festeggiamenti convinti dell'eterno Terzo Reich. Dovrebbe addirittura proteggere il fratello, mentre alla fine è capace solo di disertare senza emendarsi in maniera almeno dignitosa.
Il fratello, invece, esordisce come intellettuale dichiaratamente contrario alla guerra (ma quando mai, perlomeno in maniera così smaccata), si trasforma in robot cinico, ritorna umano, in tempo per far prima scappare l'amico ebreo e quindi salvando da morte certa un plotone del Volkssturm, immolandosi come l'Elias di Platoon.
L'infermiera, prima denuncia platealmente un'ebrea, poi, di fronte all'incalzare della sicura sconfitta, salva il destino di alcuni soldati procrastinando il loro ritorno in battaglia. Viene salvata da stupro sicuro proprio dall'ebrea che aveva denunciato (ebrea che nel frattempo comanda una pattuglia di regolari sovietici!). Comunque, se la cava.
Sulla cantante quasi-ex-fidanzata dell'ebreo, viene intortata una trama strampalata. Va a letto che un tipo della Gestapo per ottenere un salvacondotto per il quasi-fidanzato; e quindi non "pecca", perché il suo gesto è altruistico. Però, seguendo rigorosamente la cronologia del film, in realtà va prima a letto col tipo per diventare famosa; poi, visto che c'è, usa le sue grazie per ottenere il salvacondotto. Fin qui, fatti suoi (e chissenefrega, insomma). Certo è che si presenta stolida e superficiale quando è costretta ad assistere i feriti tedeschi reduci dall'assedio di Stalingrado. Poi, appena rientrata a Berlino, si presenta redenta e disillusa proferendo una provocazione disfattista davanti ad alcuni ufficiali. L'omone della Gestapo la fa prima rinchiudere e quindi fucilare.
Per concludere, perché il titolo originale è stato modificato nel più asettico "La generazione della guerra"? “Unsere Mütter, unsere Väter” (“Le nostre madri e i nostri padri”), è sottile e allusivo, e dovrebbe suscitare argomentazioni e indignazioni ben più profonde di un semplice "vietato ai minori".
In effetti, il direttore di Rai3 Andrea Vianello ha sbagliato (in buonafede, per carità): una pellicola simile andava accompagnata da un'introduzione storica, e conclusa con un dibattito serio tra esperti competenti. Se avete tempo da perdere, iniziate da qui e qui.
A latere, appena ho twittato le mie riserve sul film, un tipo ha replicato: "Perché parli di sottile revisionismo? Un po' di indulgenza effettivamente c'è. Cmq l'ho trovato ben fatto e storicamente accurato". In effetti, se dovessi fare un film sui tedeschi vissuti durante la Seconda Guerra Mondiale, eviterei di parlare dei morti: quasi sei milioni di ebrei, oltre duecentomila tra rom e sinti, oltre duecentomila disabili, ventimila omosessuali, quasi un milione di dissidenti politici...
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Saluti,
Alessandro