Ne approfitto allora per raccontarvi una scena del sequel, perché pone un interrogativo potente.
28 settimane dopo (2007) inizia con tre famiglie rinchiuse in un cottage tipicamente inglese, con le finestre sbarrate e oscurate, e la paura asfissiante di fare una brutta fine. Là fuori, infatti, c’è la rabbia: basta un minimo rumore per attirare le persone infette, violentissime, affamate, feroci e crudeli.
Il tempo di accogliere un bimbo fuggito da chissà dove, che uno dei mostri sfonda la porta d’ingresso, portando con sé altri mostri. Subito le famiglie si sparpagliano in disordine, annientate dal panico, ma senza speranza: ognuno viene sopraffatto con una rapidità - e un’estetica filmica - che lascia lo spettatore senza fiato.
Resistono solo una coppia e il bimbo. Il marito fugge nel fienile, passa in un bagno e finisce in una stanza da letto; la moglie e il trovatello, invece, sono riusciti ad arrivare in quella stessa stanza da letto, ma dall’entrata principale. Tra l’uomo e la donna si intromette un infetto, seguito da molti altri. L’uomo potrebbe provare a salvare almeno la donna, ma sicuramente morirebbe… e allora scappa, abbandonando l’amata moglie e il piccolo al loro destino: una scena terribile che fa veramente male, in cui Robert Carlyle dimostra eccellenti qualità recitative, rendendo palpabile la battaglia interiore tra la viltà dimostrata e lo spirito di sopravvivenza.
Per quanto sia una scena breve, utile per introdurre un elemento fondamentale per il prosieguo della trama, io l’ho vissuta e la vivo da una prospettiva realistica, ponendomi sempre la stessa domanda: io, cosa avrei fatto?
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Saluti,
Alessandro