Dopo il marito che abbandona la moglie a morte certa, vi propongo un’altra scena che mi ha lasciato l’amaro in bocca, questa volta da un telefilm (o serie televisiva, come si usa dire adesso).
Private Practice (2007 - 2013) è un medical drama nato dalla costola di Grey’s Anatomy (2005 - in corso), ma senza la capacità di mantenere a lungo l’attenzione del pubblico, nonostante i pattern narrativi siano pressoché identici. Uno dei motivi sta nella sua formula di base: sette dottori chiusi in quattro mura marroni, che a rotazione scherzano, amoreggiano, curano, sbagliano, urlano, piangono, litigano, fanno pace… claustrofobia assicurata, insomma. A questi, aggiungiamo storie collaterali che aprono e chiudono dentro quelle mura marroni, dialoghi di plastica, empatia dei personaggi pari a quella di un bradipo, fotografia da kodak instamatic anni ‘70, trame e sceneggiature che neanche il mio gatto, musiche in stile Beautiful del Prenestino.
Il 12esimo episodio della seconda stagione si distingue per un caso medico di rara cattiveria. Un tipo vedovo ha una malattia congenita che ha trasmesso anche ai due piccoli figli. La cosa cinica è che tra i due, la bambina morirà sicuramente entro breve, e non potrà trascorrere gli ultimi mesi di vita accanto al papà e al fratello, altrimenti moriranno sicuramente anche loro.
Ergo, il padre ha di fronte un bivio: o si preoccupa di stabilizzare la sua condizione e quella del figlioletto, per poi aiutarlo a crescere con una certa sicurezza e con un papà accanto; oppure lo lascia solo, magari in adozione, accompagnando invece la bambina al suo destino, per poi morire poco dopo anche lui.
Ora, io non so come definire una mente che si inventa una trama simile, ma anche in questo caso mi sono posto la domanda dell’altra volta: io, cosa avrei fatto?
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Saluti,
Alessandro