Fair Play (2023) è un film strano: presi singolarmente gli elementi che lo compongono non funzionano; ma la loro somma, invece, segna la mente dello spettatore a distanza di tempo.
Interpretato da due attori sottotono (lei, l’avete vista su Bridgerton; lui, su Solo), con una fotografia didascalica, una regia sommessa e una musica che dimentichi dopo un minuto, ha una trama prevedibile e senza ritmo: “un disastro”, penserete.
Eppure, la storia di una donna in carriera che riesce a sfondare, con un fidanzato che invece non sa accettare quei successi, colpisce proprio perché è tutto così banale e finto e mal raccontato, che il guizzo finale (veramente alla fine: dura cinque secondi, neanche) sembra “solo” un rimedio narrativo per salvare il film.
Poi, però, dopo accade qualcosa dentro la mente dello spettatore, qualcosa che lavora inesorabilmente e con dissimulata caparbietà, che riempie gli spazi delle giornate, che pone dei dubbi e falsa tutte le risposte, che rende esattamente l’angoscia della donna, la sua difficoltà di realizzarsi, la pochezza del maschio “ferito” (da cosa? vallo a capire).
Insomma, io vi consiglio di vederlo perché sono convinto che lavorerà nella vostra anima così come ha scavato nella mia
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Saluti,
Alessandro