C’è ancora domani è un film naif. In un contesto “normale” avrebbe ottenuto un successo standard e una moderata attenzione da parte dei media: in questo momento complicato per l’Italia, invece, è diventato il simbolo di una riscossa autoriale e sociale che, spiace dirlo, è esagerato.
Il punto debole più evidente è la sceneggiatura: una sequenza di quadri narrativi collegati senza criterio, con rari momenti surreali, altri didascalici, altri montati in maniera illogica.
Quelli surreali potevano funzionare e diventare una chiave narrativa, ma perdono di forza sia per la modestia attoriale sia per un’evidente disomogeneità con la sintassi filmica nel suo insieme. Peccato, perché la “danza della violenza” è un’idea meravigliosa.
I momenti didascalici (sicuramente necessari) cercano di aggrapparsi al neorealismo italiano migliore, ma sono fiacchi perché mal recitati (la costante di questo film: attori poco convinti).
L’idea di alternare i formati della pellicola, poi, avrebbe un suo senso se collegabile a dei leit-motiv; ma se alcuni momenti in 4/3 puntano all’oblio dei bei ricordi che furono, quello con lo schiaffone li contraddice. Schiaffone che peraltro apre il film, e che posto così non significa nulla.
Tra i momenti non-surreali, quello che proprio fa esclamare “embè!” è l’esplosione del bar (andateci nella vita reale, perché fanno gelati strepitosi!): improbabile, insensata, proposta con una sintassi ordinaria anziché surreale. Considerato la trama, andava sceneggiata in ben altra maniera. Così com’è, invece, sembra un rimedio frettoloso.
La fotografia in b/n, poi, segue almeno tre linguaggi: a volte è evocativa, a volte è narrativa, a volte è onirica; ma senza ratio. Anche qui, colpa della sceneggiatura.
Sceneggiatura che si dimostra debole anche nel montaggio, visto che ogni transizione viene rappresentata meccanicamente, senza sorprendere, senza accompagnare, senza incrociare i quadri (se non con dei totali ingenui).
L’unica idea vincente è il parallelo finale: tutti pensiamo a una fuga programmata con Marchioni, mentre invece Cortellesi vuole andare “solo” a votare.
La musica, invece, è convincente: Marchitelli propone autori e canzoni modernissimi, apparentemente stridenti con il contesto storico; ma, proprio per questo, funzionano benissimo.
Insopportabile, invece, l’epiogo, quando la canzone di Silvestri entra nella trama, sminuendo la necessaria e sacrosanta retorica del momento: è uno stratagemma alla Moretti che non ho mai amato.
A mio avviso, a questo film è mancato un produttore, uno che sapesse dire i giusti “no”, valorizzando con forza, invece, le parti nobili di un prodotto che alla fine appare confuso e poco al di sopra della sufficienza. Purtroppo, in Italia quella del produttore capace è un figura che manca da molto tempo, così come mancano autori e registi veramente bravi e coraggiosi.
Per essere un’opera prima, brava la Cortellesi, perlomeno per il tentativo. Ma non parliamo di miracolo né di capolavoro, per favore. Oltretutto, l’accusa di aver semplificato un tema forte e radicato quale la violenza maschile (non solo fisica) diventa più consistente proprio perché il linguaggio filmico nel suo complesso non funziona: è ingenuo, didascalico e friabile.
A latere, con quasi 5 milioni e mezzo di biglietti staccati, viene da chiedersi: ma dov’è ‘sta gente? Chi vota? Voglio dire che con questa desertificazione dell’etica, della morale, meraviglia una fame civica così apparentemente diffusa.
Post scriptum La premier non ha partecipato alla proiezione in Senato: eppure, i diritti di cui parla il film sono anche i suoi e dei componenti il suo partito, e sono frutto del sangue versato dalle donne e dagli uomini di PCI, DC, PRI, PLI, PSI… antifascisti, ricordiamolo
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Saluti,
Alessandro