Secondo uno studio uscito poco più di un mese fa, a partire dal 2000, il livello di contenuti
Fanno da apparente contraltare le serie televisive, dove in alcuni casi si raggiungono picchi quasi-hard: Bridgerton, Games of Thrones, Peaky Blinders, American Horror Story, per citare quelle di maggiore successo. Se ci fate caso, sono titoli ambientati soprattutto in altre epoche o surreali.
Se e quando accadono scene di sesso in serie contestuali, invece,
interviene la rigida logica del politically
correct, ma con un approccio ipocrita: le scene esplicite (comunque
edulcorate) valgono solo per personaggi eterosessuali; di quelle tra LGBT+,
invece, viene rappresentato o il “prima” o il “dopo”, e decisamente sottotono (Grey’s Anatomy insegna).
Personalmente, ho sempre creduto nell’inutilità delle scene sessuali, sia nei
film che nelle serie: non le capisco, mi annoiano, il 99% delle volte servono
solo ad allungare il brodo.
C’è, però, un caso in cui il sesso è necessario, perché protagonista di
una narrazione: nella serie Sex
and the City (1998-2004). Sei stagioni tiratissime, in cui
si parla/vive la sessualità in tutte le sue possibili declinazioni, dalla sola
prospettiva delle donne, senza pruderie
o provocazioni o ridondanze gratuite, ma soprattutto alla portata
di tutte (al di là, quindi, della benestante classe sociale delle
protagoniste), come se fosse implicita un’ideale immedesimazione con la vita
reale delle spettatrici. Una serie credibile, con un linguaggio in-credibile,
che ha rappresentato l’acme di una narrazione che non ha saputo più andare
oltre né tantomeno vantare validi epigoni.
Provate a immaginare una cosa del genere, oggi, con la stessa forza dirompente, propositiva e ricca di opportunità per un dibattito serio e un confronto costruttivo…
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Saluti,
Alessandro