13 gennaio 2014

La Grande Bellezza, una recensione tardiva

Neanche a farlo apposta, ho visto La Grande Bellezza solo sabato scorso, su dvd e con tutti i comfort che una visione casalinga può dare: niente luci e lucette di cellulari/tablet, nessun ginocchio piazzato sul proprio schienale, assenza totale di commenti inutili se non quelli miei e di mia moglie.
Ergo, non credo sia una garanzia di visione di un film; se non altro perché - nel bene o nel male - quando si sta al cinema si partecipa a un rito collettivo, e in un certo senso si è anche protagonisti inconsapevoli delle percezioni altrui. Ho visto al cinema film rivelatisi poi orribili, ma che l'involontaria alchimia degli spettatori presenti aveva trasformato in un capolavoro assoluto... ma è anche capitato il contrario, per carità.
Fatto sta che il film di Sorrentino è lento, inutilmente lento. Attenzione, non ho scritto "lungo", anche se di fatto lo è; dico che si percepisce una certa lentezza perché se il regista (anche autore del soggetto e coautore della sceneggiatura) ha deciso di seguire la strada dell'assenza di trama, si è rivolto più all'autoreferenzialità del suo saper fare eccellenti inquadrature senza badare ai tempi narrativi. Insomma, per lavorare sull'assenza di trama devi saper percepire la ritmica del potenziale metronomo narrativo che hai deciso di dissimulare. Era uno dei pregi di Fellini (che comunque non amo), cui peraltro rimanda esplicitamente la fattezza dell'insieme di questo film.
In estrema sintesi: giocare troppo con la propria bravura, senza un minimo di umiltà, può minare seriamente le basi di un film come questo.
E, infatti, il film funziona per i primi 50 minuti esatti (provate a cronometrare), ma poi si incarta su se stesso, continuando a muoversi sulla stessa identica partitura per i restanti 80 minuti (avete letto bene: il film supera le due ore). Un disco rotto, insomma.
Al che lo spettatore è disperatamente costretto a rifugiarsi sull'efficacia di alcuni dialoghi, oppure su certe sublimi inquadrature, oppure sulla scelta musicale (di assoluta perfezione).
Insomma, mancando la trama, mancando parabole narrative, disperdendo il patrimonio recitativo di Servillo (che quindi gioca a rimpiattino col suo gigionismo), Sorrentino ripete lo stesso identico errore di Is This Must Be The Place: immenso talento, ottime idee, grande controllo degli strumenti... ma totale assenza di sapienza e di autocritica.
Io non credo che sia colpa solo di Sorrentino, ma del sistema cinematografico italiano di questi ultimi trent'anni. 
Lentamente, è sparita l'idea del produttore puro, quello cioè capace di dire "taglia", di dire "no", di lavorare anche sulla sceneggiatura oltre che sui costi. Oggi, il produttore lavora solo sulla ricerca dei fondi per finanziare un progetto, non avendo voce in capitolo; semmai nel capitolato.
L'altro grande fallimento nostrano sta nella critica cinematografica: marchettona, ammiccante, familista e contaminata dal fatto che i giornalisti degli uffici stampa possono essere anche critici cinematografici più o meno free-lance (e viceversa), generando di fatto un ambiente chiuso dove non conviene essere troppo professionali, altrimenti si perdono occasioni lavorative (già esigue, va detto).
E Roma come ne esce? Esteticamente, bene; moralmente, lo schifo che potete immaginare. Certo, Sorrentino si lascia andare a un implicito "siamo tutti responsabili" come anche a un esplicito "non si potrà mai cambiare nulla"... ma fa parte dell'autoassoluzionismo che purtroppo mina alla base il nostro modernismo.
Scene da salvare: l'intervista alla pseudoartista che parla di "vibrazioni" senza saperle raccontare; il salottiero j'accuse contro la borghesissima e ipocrita pseudo femminista di sinistra che si vanta di meriti che non ha e dimostra di non aver praticato.
Per finire, una domanda: possibile che non riusciamo a gareggiare per gli Oscar se non con film che sguazzano sui nostri difetti?

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