Velletri, estate 1988. Con quei pochi soldi che avevo, potevo giusto permettermi un paese a pochi chilometri da casa, in un appartamento scrauso, sotto un fornaio che mi svegliava ogni notte alle 4:00 per servire mezzo paese. 15 giorni di licenza, perché anche chi svolgeva Servizio Civile ne aveva diritto.
Il paese era quasi privo di turisti, di gente estranea a quel costante viva vai che neutralizza la provincia nell'eterno presente delle ritualità quotidiane, dove tutti si conoscono e si sopportano e magari si supportano.
Conoscevo poco di jazz, pochissimo. Forse perché in quel periodo navigavo dentro il progressive, forse perché le mie scoperte musicali erano occasionali, tutt'altro che incentivate da fratelli o amici o parenti. Ma forse è stata un fortuna, perché almeno ho potuto meravigliarmi di ogni scoperta sonora sempre con candore, con innocente entusiasmo e anche con un pizzico di sana ingenuità.
Per trattenere quel poco di estranei che bazzicavano da quelle parti, era stato organizzato una sorta di festival del cinema all'aperto nel cui cartellone figuravano un paio di film musicali e niente più. Lo schermo era un telone dozzinale tenuto da quattro corde improvvisate, piazzato sulla parete di un palazzo illuminato alla volemosebene. La platea era una rampa di scale di marmo che davano su un palazzo vetusto, tra i pochi sopravvissuti ai palazzinari foraggiati dagli allora imperanti DC o PCI.
Eravamo tre-spettatori-tre, più un ubriaco spalmato sotto lo pseudoschermo. Faceva freddo, perlomeno per i vestiti estivi che facevano finta di coprirci: tirava quella dolce brezza laziale che trasporta odori e profumi e un po' di umidità campagnola. Silenzio, se non il proiettore che brontolava come un diesel parcheggiato sotto casa.
Parte un rullante, leggero e misurato, entra un pianoforte contrappuntato nitidamente da un contrabbasso vellutato, ecco una voce che rincorre una melodia complessa, complicata, ma che all'orecchio sembra una dolce sinfonia, un racconto di uomini di notte, che fumano con passione sigarette fatte a mano e sorseggiano alcol dozzinale come fosse nettare degli dèi. Senti il profumo di donne affaticate dal destino, che abbracciano le spalle nodose di uomini di fortuna. La polvere in penombra galleggia tra pensieri e parole piene di dignità.
E poi arriva l'assolo di Herbie Hancock, che gira intorno alle crome quadrate di Monk e alla metronomica precisione di Bach, passando per Evans, Bley, Debussy e una negritudine colma di storie africane e di riscatti in sottovoce.
Il film è bellissimo, dolente e sornione, una dichiarazione d'amore per il jazz e per gli uomini che l'hanno suonato, per la cultura che l'ha generato, per il coraggio che ci vuole a mettersi sempre in dubbio, a esplorare note nuove, a vivere dentro la passione fino a uccidersi lentamente e consapevolmente.
Mi ero innamorato all'istante del jazz, di Parigi, del regista, di Monk, di tutto quello che questo immenso capolavoro conteneva in sé o indicava con tremante amore.
Il film era "'Round Midnight", uscito due anni prima.
Il regista era Bertrand Tavernier, morto ieri a 79 anni.
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26 marzo 2021
12 aprile 2016
le possibilità di Herbie Hancock
Le autobiografie sono oggetti deliziosi, divertenti, spesso intriganti; però corrono il rischio di non essere credibili.
Troppo facile suonarsela con disinvoltura, senza che uno spirito critico o almeno competente sappia rintuzzare imprecisioni o vanità.
Però Herbie Hancock è così simpatico, empatico e umilmente geniale, che non mi sono minimamente preoccupato di verificare nulla delle storie contenute nella sua pregevole autobiografia.
In questo suo libro, insomma, si ha la conferma esatta del suo pianismo: sempre attento alle novità, mai ripetitivo, con una cifra e uno stile duttili ma non furbi, che tendono spontaneamente a mettersi costantemente in discussione.
E stiamo parlando di un pianista che ha anche intrapreso strade ipercommerciali, mettendo in difficoltà anche i più tolleranti tra i suoi estimatori.
Eppure, e alla fine, da Herbie Hancock accetti qualunque cosa.
Sicuramente, non è un libro storico, né tantomeno tecnico; in più, c'è un apparente tentativo di riappacificazione con chiunque abbia collaborato con lui (il mondo del jazz, si sa, vive anche di conflitti).
Però, e alla fine, è un libro che merita di essere acquistato.
Troppo facile suonarsela con disinvoltura, senza che uno spirito critico o almeno competente sappia rintuzzare imprecisioni o vanità.
Però Herbie Hancock è così simpatico, empatico e umilmente geniale, che non mi sono minimamente preoccupato di verificare nulla delle storie contenute nella sua pregevole autobiografia.
In questo suo libro, insomma, si ha la conferma esatta del suo pianismo: sempre attento alle novità, mai ripetitivo, con una cifra e uno stile duttili ma non furbi, che tendono spontaneamente a mettersi costantemente in discussione.
E stiamo parlando di un pianista che ha anche intrapreso strade ipercommerciali, mettendo in difficoltà anche i più tolleranti tra i suoi estimatori.
Eppure, e alla fine, da Herbie Hancock accetti qualunque cosa.
Sicuramente, non è un libro storico, né tantomeno tecnico; in più, c'è un apparente tentativo di riappacificazione con chiunque abbia collaborato con lui (il mondo del jazz, si sa, vive anche di conflitti).
Però, e alla fine, è un libro che merita di essere acquistato.
29 dicembre 2013
Christian McBride a #UJW21 (recensione da #Orvieto, #jazz)
Prendete l'Hancock di Cantaloupe Island e il Gary Burton della migliore ECM, e avrete il concerto di Christian McBride che ha aperto l'edizione numero 21 di Umbria Jazz Winter.
Buona parte dei brani proposti proviene dal suo ultimo lavoro People Music, con l'aggiunta di una ellingtoniana Sophisticated Lady, suonata dal buon pianista Peter Martin con un voicing simil monkiano.
Nel loro insieme gli Inside Straight funzionano a meraviglia, con il batterismo di Carl Allen che demolisce il metronomo con un afflato ritmico di rara bellezza.
McBride conferma il suo stato di grazia, superando - e di molto - i tecnicismi alla Clarke, suonando il contrabbasso con stile caldo e coraggioso.
Limitato, invece, l'impegno mentale del sassofono di Steve Wilson, forse perché coinvolto in troppi progetti nello stesso Festival.
A sua parziale colpa va detto, però, che anche il vibrafonista Warren Wolf lo è (anzi, ieri è stato impegnato in tre set pressoché consecutivi), ma che comunque ha detto la sua con maggiore impegno.
C'è di più: è stata proprio la sua Gang Gang - molto Modern Jazz Quartet, va detto - ad aver regalato le emozioni più intense.
Insomma, come inizio di Festival ci siamo. È mancato forse il guizzo, ma c'è ancora tempo...
Buona parte dei brani proposti proviene dal suo ultimo lavoro People Music, con l'aggiunta di una ellingtoniana Sophisticated Lady, suonata dal buon pianista Peter Martin con un voicing simil monkiano.
Nel loro insieme gli Inside Straight funzionano a meraviglia, con il batterismo di Carl Allen che demolisce il metronomo con un afflato ritmico di rara bellezza.
McBride conferma il suo stato di grazia, superando - e di molto - i tecnicismi alla Clarke, suonando il contrabbasso con stile caldo e coraggioso.
Limitato, invece, l'impegno mentale del sassofono di Steve Wilson, forse perché coinvolto in troppi progetti nello stesso Festival.
A sua parziale colpa va detto, però, che anche il vibrafonista Warren Wolf lo è (anzi, ieri è stato impegnato in tre set pressoché consecutivi), ma che comunque ha detto la sua con maggiore impegno.
C'è di più: è stata proprio la sua Gang Gang - molto Modern Jazz Quartet, va detto - ad aver regalato le emozioni più intense.
Insomma, come inizio di Festival ci siamo. È mancato forse il guizzo, ma c'è ancora tempo...
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