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03 maggio 2012

la bellezza di aver fatto parte del #JazzDay

Devo ringraziare SuperEnzo Pietropaoli se il 30 aprile scorso con mia moglie sono stato tra i 600 spettatori privilegiati che hanno assistito al concerto ufficiale italiano per il primo International Jazz Day organizzato e voluto dall'UNESCO.
Il suo mettermi da parte due preziosissimi biglietti (galleria; fila 5, posti 21 e 23) è stata una perla nella perla. Raramente dimentico questi gesti, che per molti sono piccole cose, ma che per me significano molto.
Io credo nel jazz da quand'ho iniziato ad ascoltare la musica, perché è un genere musicale che suggerisce infinite strade e infiniti linguaggi, tutti affascinanti e dignitosi, e che permette a donne e uomini diversi e di diverse culture di incontrarsi e magari anche di inventare linguaggi nuovi, senza dover rendere conto a chicchessia, senza doversi sforzare di capire il linguaggio dell'altro, perché in quel momento è l'incontro che crea linguaggi, ed esplorazioni, e tante piccole e grandi cose che posso essere descritte con un silenzio, con uno sguardo o con lunghe chiacchierate in compagnia di una buona birra.
Ascoltare Danilo Rea, Enzo Pietropaoli e Jeff Ballard omaggiare e salutare e vivere insieme a noi il jazz, è stata un'esperienza veramente intensa. 
Tra i brani eseguiti segnalo Close to you, Barcarolle (Tom Waits sarebbe stato d'accordo), I got rhythm (nella versione più sincopata), Bye bye blackbird (eseguita con rara superbia), Intermezzo dalla "Cavalleria rusticana" (un po' piaciona, ma solo noi italiani sappiamo suonarla in qualsiasi modo), Nero a metà (già, proprio Pino Daniele), e un delicato omaggio a Lucio Dalla con il suo 4-3-1943
Naturalmente non sono mancati anche i soliti ammiccamenti ai Bitols, su cui - lo sapete - esprimerei sempre e solo riserve (su loro, non su come li hanno suonati i nostri).
Ho una grandissima stima per SuperEnzo perché è un bassista di rara puntualità, accorto e mai molesto, audace ma mai sbruffone, sempre pronto a farsi da parte e sempre attento ai cambi dell'improvvisazione altrui. Quando gli ho detto che lo considero tra i primi dieci bassisti nella storia del jazz, mi ha consigliato di rivolgermi ad uno psichiatra: fatto sta che proprio questa sua prova così celebrativa, consiglierebbe a qualsiasi psichiatra di darmi ragione o cambiare mestiere.
Danilo Rea si è esibito alla grande, limitando certi suoi abbellimenti troppo di mestiere. Certo, il paragone con altri grandi viene spontaneo. L'unico appunto che gli ho sempre fatto è di non fermarsi un attimo per esplorare nuove incognite. Per dirne una: pochi mesi fa, Keith Jarrett ha detto che solo da poco tempo ha iniziato a usare la sua mano sinistra (sic!): per quanto possa sembrare una provocazione, diventa invece una lezione per tutti. Danilo ha rispettato il patto con gli ascoltatori durante questo concerto: però voglio vederlo alla prossima.
Last but not least, tanto di cappello a Ballard: dal suo carnet ho constatato che ha avuto pochissimo tempo per provare con i nostri. Eppure sembrava conoscerli da sempre: disicplinato, puntuale, ironico, attento, preciso, nitido. Mai una sbavatura (persino nel solluccheroso interim di Mascagni).
Insomma, un'esperienza incredibile, che le istituzioni (tutte!) e la Rai hanno ignorato, se non nello speciale web fatto dal sottoscritto (accuratamente attribuito ad altri), e lo speciale di Rai3 trasmesso in seconda serata e sin troppo bollanicentrico. Ma è la solita vecchia storia, no?
Evviva il jazz, però: sempre e comunque.  

07 marzo 2012

lettera aperta a Severgnini

Gentile Severgnini,
a distanza di molto tempo provo a riaprire una dura polemica che ci ha visti l’uno contro l’altro armati.
Ricorda? Io - seppure eterosessuale - trovavo speciose le sue argomentazioni contro il matrimonio tra gay. Le sue giustificazioni, insomma, superavano il ridicolo.
E quando la attaccai come ben meritava (al contrario dei componenti i salotti metaforici che lei frequenta, e che hanno fatto finta di niente), lei rispose:
che tutti i liberal americani la pensavano come lei (che poi non è vero, e lei lo sa bene… e poi: se si buttano dalla finestra, li segue?),
che la maggioranza degli italiani la pensava come lei (che non è certificato di qualità... ne sa qualcosa chi ha vissuto durante il ventennio),
che il matrimonio tra gay è contronatura (evidentemente non ha letto testi sull’argomento)
che io volevo addirittura tapparle la bocca (cosa impossibile, perché non m’interessa nulla farle notare la sua pochezza, perlomeno in questi ambiti; io sto difendendo un diritto, punto e basta).
Insomma, dopo tanti incisi e parentesi (che lei aborra, si sa), la domanda sorge spontanea: ha cambiato idea?
È diventato un uomo adulto e maturo?
Ha capito cosa sia veramente la democrazia?
Sa cosa è un diritto inalienabile?
Si rende conto che la sua è un’arroganza bella e buona?
Cosa si prova ad essere così "cattivi" da argomentare tanto per argomentare contro un desiderio sacrosanto di altri esseri umani?
Dopo il caso di Dalla, ha capito cosa significa impedire a una persona di poter condividere chiaramente e pubblicamente il suo amore per un’altra persona, e chissenefrega del sesso?
Insomma, Severgnini, ha il coraggio di ammettere che è stato un omofobo, all’acqua di rose (come suggerisce la sua dialettica parapacata), ma pur sempre un omofobo?
Un caro saluto,
Alessandro

ps se le faccio ancora così paura, tranquillo: troppi italiani insistono a pensarla come lei

02 marzo 2012

Che mondo sarà se ha bisogno di chiamare Superman (#Dalla)

Insieme a quella di "Avventura" (Salty Dog dei Procol Harum), la sigla di "Eroi del fumetto" fa parte della mia generazione, e anche di quelle precedenti immagino: una timida ed educativa Rai sfidava la cultura anticomics tipicamente cattocomunista, proponendo un contenitore che ci fece conoscere gli eroi di Schultz, Asterix, quelli della Marvel e della DC Comics.
Potrei dire che insieme a "Carosello" appartiene a quei rari momenti magici della mia infanzia dove potevo sognare ad occhi aperti, imbambolandomi davanti allo schermo in bianco e nero.
Già: terribile questa storia che i ricordi dei ragazzi degli anni '80 sono a colori; i nostri in bianco e nero...
Ovviamente a quei tempi non potevo certo sapere che l'autore/cantante fosse Lucio Dalla, lo stesso che mi ammaliò con alcune perle indimenticabili, e che poi caratterizzava i miei lunedì cinematograficotelevisivi con una delle più belle sigle mai ascoltate negli anni a venire.
Del resto, chi mi conosce sa che mai ho sopportato la musica italiana: troppo intenta a seguire le parole e poco incline a rispettare la musica, la melodia, gli arrangiamenti.
Insieme a Lucio Battisti (quando si dice il nome, eh?), Lucio Dalla ha letteralmente regalato alla tradizione italica un modo diverso di raccontare storie, stando sempre molto attento alla confezione dell'opera, a tutte quelle parti che ad un primo ascolto non si notano, ma che invece rendono quel brano eccezionale.
A Lucio Dalla mi sento di attribuire un elemento che raramente ho trovato tra gli autori italiani (persino Battisti ne era privo): la leggerezza. Una sontuosa e calviniana leggerezza.
Il difetto nostro è che spesso cantiamo dietro ai nostri beniamini senza renderci conto dell'esatto significato delle parole. Lette in prosa, certe cose di Dalla sono disarmanti, terribili, dolorose, "di denuncia" direbbe qualche fighetto. Eppure, tale era l'arguzia con cui le argomentava musicalmente, che sembrava di cantare un'ode alla luce anziché ai piccoli e grandi drammi della vita.
Un'ultima considerazione: Lucio Dalla è mia sorella, la maggiore delle tre. Una persona delicata e forte che tanto avrebbe meritato dalla vita, e che spesso ha subito torti e angherie ben superiori alle sue (presunte) colpe. Appena ho saputo che Dalla era morto, ho pensato a lei. E il bello è che mi sono dispiaciuto più per lei, per quel suo passato che se ne andava, per quelle mille volte che ha condiviso la sua solitudine con questa bellissima canzone.


So long, Lucio, so long.