Sono quei momenti in cui ti arrampichi nella libreria della tua Memoria e tiri giù di tutto, ingolfando i tuoi ricordi fino a riempirti gli occhi di lacrime piene di languore e di tristezza e di tutte quelle immagini così solari e perdute che non potranno mai raccontare per intero cosa siano stati quegli anni.
ZoffScireaGentileCollovatiBergomiCabriniOrialiTardelliContiRossiGraziani, come un mantra, con tutte le poche variazioni sul tema, Caùsio compreso, con quell'accento buttato a casaccio.
Brontoliamo spesso sulle differenze generazionali, spesso a torto o con quei toni di superba commiserazione per il giovane che ci capita a tiro. Ma bisogna anche ammettere che il divario generazionale tra noi e le generazioni successive è un solco profondo e inesorabile: i modelli sono totalmente diversi; anzi, quasi di mondi che neanche si potrebbero mai toccare. Modelli, Mondi e la misura del tempo.
Ecco, il Tempo.
Byron diceva che quelle del tempo sono "ali arbitrarie", ma a chi ama il calcio frega nulla di questo spocchioso poeta inglese. Quello che è vero è che i tempi in cui noi vivevamo il Tempo erano veramente a misura di persona.
Mercoledì di Coppe, domenica 90esimo minuto, agosto c'era il mercato e i nuovi arrivi, persino i giornali avevano meno fretta per raccontare cosa accadeva. Le partite non erano un tanto al chilo e le interviste - per quanto sempre uguali - sembravano uscite da un doposcuola artigianale.
I giocatori per primi erano responsabili dei toni che usavano e del modo di giocare, perché sapevano che venivano emulati, imitati, ricalcati, ripetuti. Ma non certo per la pettinatura o per la topona fotografata accanto a macchine stellari (per carità, c'erano anche quelle), ma perché erano come noi. Letteralmente.
Quei giocatori avevano facce che avresti incontrato all'alba dentro la metropolitana, o quelle degli avventori del bar cappuccinoecornetto, o quelli che sfiori dal giornalaio scambiando giusto un saluto educato.
Paolo Rossi non era il riscatto di una generazione: era quella generazione. Lo sappiamo, il riscatto è intriso anche di fiele e rancori, mentre nel caso di Paolo Rossi era "solo" l'uomo qualunque che dimostrava di potercela fare con i propri mezzi, autentici, veri, onesti, puliti.
E solo certi giornalisti potevano ricordare il suo coinvolgimento nello scandalo delle scommesse, quando è stranoto e ormai dimostrato che non aveva fatto proprio nulla; giornalisti che però perdonano a Maradona cose decisamente riprovevoli e altrettanto documentate.
Ma il punto è che quei ragazzi del 1982 ci donarono il senso vero della gioia, quella ancora autentica e spontanea, tutt'altro che prefabbricata o studiata a tavolino, con un Presidente della Repubblica sanguigno e coerente, che tanto onore e lustro diede a una Nazione martoriata da anni bui e violenti.
Paolo Rossi sei tu che leggi, genitore o figlia o figlio in quegli anni, oppure il mio io bambino, che il giorno dopo festeggiava 16 anni.
Paolo Rossi è quel bambino secchetto e anonimo che conquista la vetta del mondo e che si ostina a restare dolce e umile, lentamente assediato da un'èra in cui gli eroi non emozionano più e lasciano dietro di loro solo byte e sponsor.
Al cinema, i cavalieri sono eroi senza macchia e senza paura, non temono freddo, ferite o sconfitte. Finisce sempre bene e senza remore o timori.
Nella realtà, invece, i cavalieri del 1982 erano in carne ed ossa, con quei nomi stampati a fuoco tra i singulti e la commozione: ZoffScireaGentileCollovatiBergomiCabriniOrialiTardelliContiRossiGraziani
Visualizzazione post con etichetta Calciatori. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Calciatori. Mostra tutti i post
10 dicembre 2020
13 novembre 2014
Parlando di calcio con Le Roi, Michel Platini
Come (ex) appassionato di calcio, juventino peraltro, sono stato molto fortunato: ho vissuto le gesta calcistiche di Michel Platini all'età giusta, quando mito e passione si fondono senza soluzione di continuità.
Non riesco a dimenticare il dramma di Heysel (e neanche lui, da quel che ho letto), ma non posso neanche dimenticare un lustro epico di calcio assoluto, guarnito da comportamenti sportivi di raro nitore.
E quindi mi sono accostato a questo libro con estrema cautela, spaventato com'ero di rovinare la festa al bimbo che ero.
E, invece, è un gran bel libro, proprio perché (o forse perché) non accarezza minimamente l'autobiografia più stretta, ma invece racconta la bellezza del calcio, con un giusto equilibrio tra pragmatismo e passione, modernismo e rispetto per la tradizione.
Insomma, chi è limitato perché ci vede un taccuinaccio di appunti stropicciati di uno juventino, si perde la rara opportunità di conoscere la Storia del Calcio, e quel modo di leggerlo e interpretarlo che oggi - diciamolo - manca alle nuove leve.
Un calcio che ama "il gesto", il singolo momento, la passione per arrivare a "quel" gesto e la forza di saper affrontare anche il fallimento di un gol che non arriva.
E poi le tredici regole, gli schemi, il fuorigioco, la mentalità vincente e il rapporto con i compagni prima e con i manager dopo.
Platini, poi, suggerisce una sua visione delle competizioni future decisamente idealista, ma pur sempre attenta alla nostalgia.
Seguite questo libro così prezioso, troverete parole e concetti che vi sorprenderanno.
Non riesco a dimenticare il dramma di Heysel (e neanche lui, da quel che ho letto), ma non posso neanche dimenticare un lustro epico di calcio assoluto, guarnito da comportamenti sportivi di raro nitore.
E quindi mi sono accostato a questo libro con estrema cautela, spaventato com'ero di rovinare la festa al bimbo che ero.
E, invece, è un gran bel libro, proprio perché (o forse perché) non accarezza minimamente l'autobiografia più stretta, ma invece racconta la bellezza del calcio, con un giusto equilibrio tra pragmatismo e passione, modernismo e rispetto per la tradizione.
Insomma, chi è limitato perché ci vede un taccuinaccio di appunti stropicciati di uno juventino, si perde la rara opportunità di conoscere la Storia del Calcio, e quel modo di leggerlo e interpretarlo che oggi - diciamolo - manca alle nuove leve.
Un calcio che ama "il gesto", il singolo momento, la passione per arrivare a "quel" gesto e la forza di saper affrontare anche il fallimento di un gol che non arriva.
E poi le tredici regole, gli schemi, il fuorigioco, la mentalità vincente e il rapporto con i compagni prima e con i manager dopo.
Platini, poi, suggerisce una sua visione delle competizioni future decisamente idealista, ma pur sempre attenta alla nostalgia.
Seguite questo libro così prezioso, troverete parole e concetti che vi sorprenderanno.
28 settembre 2014
passeggiando nel libro di Zoff
Nulla a che vedere con la (lunga) quasiautobiografia di Agassi, altrettanto evocativa e ricca di bei/brutti momenti; quello di Zoff è più un viaggio sparso nei ricordi, così densi di Storia e di Epica da lasciare spesso esterrefatti per quantità e qualità.
Elimino subito dal catalogo delle belle cose tre pecche. La prima è un errore storico: alla Lazio di Chinaglia vengono attribuiti vari scudetti, mentre in realtà ne vinse solo uno. Seconda pecca: fermatevi alla pagina 151, perché l’ultimo capitolo stride con l’eleganza di tutto il libro. Terza pecca: Zoff fu infangato pesantemente da Berlusconi; possibile che abbia voluto scrivere proprio per la sua Mondadori?
Per me Zoff è stata una figura esemplare. Nonostante sia stato silente e poco spettacolare, ha sempre rappresentato la figura che avrei voluto essere e che per indole e biografia non sono mai riuscito nemmeno a rappresentarmi. Un uomo ricco di sentimenti e di contraddizioni che però non ha mai palesato, mantenendo un comportamento più british che italiano. E, a proposito di british, ricordo quella volta che incappai in un servizio proprio della BBC in cui spiegavano quanto sia stato importante il suo modo di interpretare il ruolo e quanto efficace sia stato il suo modo di proteggere gli angoli ciechi, quelli che ucciderebbero qualsiasi portiere nel giro di pochi tiri.
Quando lo vedevi in campo, ti sentivi protetto, sicuro, e sapevi sin da subito che potevi seguire la partita direttamente in attacco, tanto era la capacità di Zoff di difendere la porta.
Grande fu l’intuito di Bearzot di nominarlo capitano al di là degli obblighi anagrafici. E grande fu il loro modo di intendere il gioco del calcio. Del resto, le due Italie più belle e più cardiopalmose sono state quella di Spagna e quella degli Europei del golden gol.
Ci sono pagine in questo libro dove capisci che hai assistito a una lezione di morale solo dopo aver posato il libro: Zoff, cioè, è capace di “predicare” grandi verità e precisi doveri senza mai scendere nella boria, nella supponenza, nell’arroganza di chi ha sicuramente più esperienza.
Soprattutto, c’è un senso dell’autentico e del genuino… lo so, sono due termini abusati e quasi irritanti. Ma qui si riprendono il giusto spazio, e vale la pena di riassaporarli per un po’.
Insomma, acquistate questo suo libro… anche se non siete juventini.
24 luglio 2013
la sensibilità
Tutti sono sensibili.
Anche chi consideriamo una bestia.
Perché la sensibilità è un attitudine neutra. Prendiamo come esempio la pellicola fotografica, che appunto è "sensibile": può impressionare il sorriso di un bambino o una bomba atomica.
Stabilita questa ovvietà, c'è però un passo successivo da fare, che forse è addirittura banale: esiste una misura della sensibilità che può essere soggettiva (io piango per Il paziente inglese, tu per l'inno della tua squadra; eguale dignità, quindi), ma esiste anche un valore assoluto della sensibilità (che più o meno forzatamente deve essere condiviso).
Sensibilità come valore è fare silenzio in chiesa, anche se non si crede.
Sensibilità come valore è non rubare il posto di un disabile.
Sensibilità come valore è riconoscere il diritto di chi ci sta di fronte, e rispettarlo indipendentemente dal nostro tornaconto e dalla sua condizione.
Ma siamo ancora nel banale, lo so e me ne scuso.
Ebbene, se durante un gioco di qualsivoglia tipo, ci lasciamo andare, sta alla nostra sensibilità stabilire i limiti dei nostri eccessi o sta alla sensibilità come valore assoluto?
Ecco, io credo, sono convinto, che in questo caso queste due interpretazioni debbano coincidere na-tu-ral-men-te, senza tante chiacchiere.
E credo anche che chi viola questa sensibilità come valore debba essere punito e messo in condizioni di non avere gli stessi diritti di chi, invece, questa sensibilità come valore ce l'ha.
Per dire: usare una condizione sessuale come insulto; usare una scelta religiosa come insulto; usare una provenienza geografica come insulto... non sono scelte sensibili, né tantomeno ascrivibili a una qualsivoglia forma di sensibilità.
Ebbene, la notte scorsa a Testaccio è accaduta qualcosa di molto grave: se ci fosse stato ancora Alemanno come sindaco, Repubblica - e i giornali che menano moralismi a go-go - si sarebbero fatti in quattro per esprimere sdegno e condanna. E, invece, la cosa è letteralmente passata inosservata, avallando di fatto la non sensibilità dei 500 teppisti che hanno lanciato bombe carta e imbrattato le mura pubbliche con scritte indegne e bestiali.
E di tutte quelle porcate che ho visto compiere dalla teppaglia, quella che mi fa ancora soffrire è quell'aver usato come fosse un insulto il cognome di un poliziotto ucciso dalla teppaglia catanese.
Filippo Raciti fu ucciso nel 2007 a lavandinate in faccia (ripeto: lavandinate in faccia), mentre cercava di sedare una megarissa a ridosso dello stadio del Catania.
Immaginate la scena.
Immaginate queste bestie che sghignazzano mentre vedono un loro amico colpire a morte questo ragazzo.
Immaginate la moglie e i famigliari di Filippo Raciti che a loro volta immaginano questa terribile scena.
E poi guardate questa scritta.
Cosa suggerisce la sensibilità? La vostra, eh!
Anche chi consideriamo una bestia.
Perché la sensibilità è un attitudine neutra. Prendiamo come esempio la pellicola fotografica, che appunto è "sensibile": può impressionare il sorriso di un bambino o una bomba atomica.
Stabilita questa ovvietà, c'è però un passo successivo da fare, che forse è addirittura banale: esiste una misura della sensibilità che può essere soggettiva (io piango per Il paziente inglese, tu per l'inno della tua squadra; eguale dignità, quindi), ma esiste anche un valore assoluto della sensibilità (che più o meno forzatamente deve essere condiviso).
Sensibilità come valore è fare silenzio in chiesa, anche se non si crede.
Sensibilità come valore è non rubare il posto di un disabile.
Sensibilità come valore è riconoscere il diritto di chi ci sta di fronte, e rispettarlo indipendentemente dal nostro tornaconto e dalla sua condizione.
Ma siamo ancora nel banale, lo so e me ne scuso.
Ebbene, se durante un gioco di qualsivoglia tipo, ci lasciamo andare, sta alla nostra sensibilità stabilire i limiti dei nostri eccessi o sta alla sensibilità come valore assoluto?
Ecco, io credo, sono convinto, che in questo caso queste due interpretazioni debbano coincidere na-tu-ral-men-te, senza tante chiacchiere.
E credo anche che chi viola questa sensibilità come valore debba essere punito e messo in condizioni di non avere gli stessi diritti di chi, invece, questa sensibilità come valore ce l'ha.
Per dire: usare una condizione sessuale come insulto; usare una scelta religiosa come insulto; usare una provenienza geografica come insulto... non sono scelte sensibili, né tantomeno ascrivibili a una qualsivoglia forma di sensibilità.
Ebbene, la notte scorsa a Testaccio è accaduta qualcosa di molto grave: se ci fosse stato ancora Alemanno come sindaco, Repubblica - e i giornali che menano moralismi a go-go - si sarebbero fatti in quattro per esprimere sdegno e condanna. E, invece, la cosa è letteralmente passata inosservata, avallando di fatto la non sensibilità dei 500 teppisti che hanno lanciato bombe carta e imbrattato le mura pubbliche con scritte indegne e bestiali.
E di tutte quelle porcate che ho visto compiere dalla teppaglia, quella che mi fa ancora soffrire è quell'aver usato come fosse un insulto il cognome di un poliziotto ucciso dalla teppaglia catanese.
Filippo Raciti fu ucciso nel 2007 a lavandinate in faccia (ripeto: lavandinate in faccia), mentre cercava di sedare una megarissa a ridosso dello stadio del Catania.
Immaginate la scena.
Immaginate queste bestie che sghignazzano mentre vedono un loro amico colpire a morte questo ragazzo.
Immaginate la moglie e i famigliari di Filippo Raciti che a loro volta immaginano questa terribile scena.
E poi guardate questa scritta.
Cosa suggerisce la sensibilità? La vostra, eh!
23 luglio 2013
l'ennesimo sgarbo alla città di Roma
Ieri sera, verso le 22:00 e qualcosa, si è consumato a Testaccio l'ennesima manifestazione sgarbata e incivile da parte di un nutrito gruppo di teppisti travestiti da tifosi.
Con la scusa di festeggiare non so quale ricorrenza della squadra di calcio della Roma, simpatici figuri hanno lanciato bombe carta, insultando le opposte tifoserie con urla antisemite, omofobiche, razziste (soprattutto, contro albanesi) e ributtanti allusioni all'agente Raciti, ucciso nel 2007 durante scontri con teppaglia del Catania.
Curioso che il tutto sia stato consentito a due-isolati-due dalla residenza privata del nostro premier.
Curioso che nessun giornale ne abbia ancora parlato, nonostante il fuggi fuggi generale di turisti e passanti di fronte al lancio continuo di bombe carta.
Curioso che la cosa passerà sotto silenzio come passano continuamente schifezze come questa.
Le foto testimoniano il giorno dopo. Dubito che la società sportiva farà qualche dichiarazione, se non aggiungendo che si è trattato di una minoranza. Dubito che la società sportiva cercherà almeno di ripulire le mura dell'intero Rione, alcune ripulite da pochissimo con spese dedotte dalle nostre tasse.
Con la scusa di festeggiare non so quale ricorrenza della squadra di calcio della Roma, simpatici figuri hanno lanciato bombe carta, insultando le opposte tifoserie con urla antisemite, omofobiche, razziste (soprattutto, contro albanesi) e ributtanti allusioni all'agente Raciti, ucciso nel 2007 durante scontri con teppaglia del Catania.
Curioso che il tutto sia stato consentito a due-isolati-due dalla residenza privata del nostro premier.
Curioso che nessun giornale ne abbia ancora parlato, nonostante il fuggi fuggi generale di turisti e passanti di fronte al lancio continuo di bombe carta.
Curioso che la cosa passerà sotto silenzio come passano continuamente schifezze come questa.
Le foto testimoniano il giorno dopo. Dubito che la società sportiva farà qualche dichiarazione, se non aggiungendo che si è trattato di una minoranza. Dubito che la società sportiva cercherà almeno di ripulire le mura dell'intero Rione, alcune ripulite da pochissimo con spese dedotte dalle nostre tasse.
11 febbraio 2013
il sonno del web genera mostri
Guardate quest'immagine: è lo stamp di un commento finito nella bacheca di Delio Rossi, allenatore della Sampdoria, ma soprattutto ex allenatore della Lazio.
13 giugno 2012
#Cassano e Grey's Anatomy
Un bel giorno - nel 2007, litigando con uno dei superprotagonisti, definì "faggot" ("frocio", insomma) un altro collega. Che lo fosse o no, poco importa. Fatto sta che un tecnico che passava lì per caso, sentì l'impulso di segnalare immediatamente a chi di dovere l'uso di quell'epiteto.
L'emittente cambiò addirittura le sorti dell'intera serie pur di cacciare via Washington, perdendo - va detto - un ottimo personaggio, forte sul piano narrativo e anche morale.
Certo, il tipo ha chiesto poi scusa, e la punizione è stata così pesante forse e anche per una sorta di velato razzismo dei dirigenti della ABC - visto che Washington è nero ("abbronzato", direbbe qualcuno).
Però il parallelo con Cassano ci sta tutto: oltretutto il nostro calciatore ha sparato la sua omofobia (perché tale è) in televisione, con indosso la divisa del nostro paese, in pubblico, senza filtri; peraltro tristemente contornato da crasse risate dei presenti e dal successivo gioco al distinguo di "Stadio Europa".
05 dicembre 2011
il mio #Socrates, in bianco e nero
Televisione in bianco/nero, mentre nel paese fa già capolino il colore (PCI ed MSI contrari), che se vedi l'Olanda giocare, già sono veloci per conto loro; col colore, poi, diventa tutta una strisciata di arancione che pennella lo schermo.
Italia-Brasile. Con l'attitudine alla sofferenza e alla sconfitta, già mi aspetto una strage di gol.
Segna Rossi, ancora freddo di inno nazionale. Non te lo aspetti, e non ci credi. Ora ci massacrano, penso.
E, infatti, lui - Socrates, "il dottore" - un pennellone lungo lungo lungo anche se mortificato dalla prospettiva schiacciata delle riprese, anche se ti auguri che inciampi, anche se Zoff parerà pure i moscerini; gli prende l'angolo che è impossibile, senza neanche pensarci (perché i brasiliani non pensano; calciando esprimono il pensiero; hanno le sinapsi tonde e con gli scarpini, 'sti maledetti).
Mi alzo, e spengo la tivvù. Per me la partita finisce là: non ne voglio più sapere di soffrire dietro una squadra che non vince mai e che soffre sempre.
Poi qualcosa mi dice "ariaccendi, scemo... ariaccendi!".
Il resto è storia, si sa.
Però, se dovessi dire cosa ricordo di quella partita, e che porto nel cuore come un confetto di nostalgie senza senso, è quel mio gesto di alzarmi e spegnere il pulsante sull'eco di Martellini che commentava il replay. D'Italia-Brasile non ricordo l'esultanza isterica e antisportiva di Falcão, né il gol ingiustamente annullato ad Antognoni: ma quel mio gesto così infantile e disperato, perché Socrates mi aveva rotto il giocattolo... poi però la partita l'ho vista tutta, e fino in fondo, correndo dopo a perdifiato per tutta Fori Imperiali a ridere come uno scemo per quella vittoria così impossibile.
So long, Socrates, so long.
21 dicembre 2010
ciao Enzo
Ci ha lasciati Enzo Bearzot... (Zoff, Gentile Cabrini, Oriali, Collovati, Bergomi, Tardelli Conti, Graziani, Rossi, Altobelli, Causio...)
06 luglio 2010
06 marzo 2010
Antognoni - Brasile 4 a 2
Per uno juventino come me, parlare bene di un fiorentino è quasi una bestemmia, ma Giancarlo Antognoni merita una doverosa eccezione. Tra gli ultimi numeri 10 della Nazionale che io ricordi è stato quello più sobrio, elegante, mai fuori tono e sempre pronto a farsi leader senza tanti fronzoli o autocelebrazioni.
A differenza di altri suoi colleghi, utilizzava il suo individualismo solo per la squadra. Lui era la squadra, e la squadra era lui. Non ricordo una sola azione in cui non avesse già capito cosa stava accadendo intorno a lui. E che abbia avuto dei problemi con Agroppi è una nota di merito che aggiunge valore al suo modo di intendere il calcio.
Non ha vinto tanto, ma ha dato tantissimo sia al suo ruolo che al calcio più in generale.
Di lui ricordo due cose: il terrificante scontro con Silvano Martina, allora portiere del Genoa; il gol ingiustamente e marchianamente annullato contro il Brasile (guardate con quale compostezza reagisce contro il miope guardalinee), durante il Campionato del Mondo del 1982, alla cui finale vincente dovrà rinunciare per un tagliaccio orribile sul piede destro occorso durante un banale contrasto.
È un gran peccato che Della Valle non abbia mai pensato a un qualcosa di concreto per consegnare il suo nome alla Storia.
A differenza di altri suoi colleghi, utilizzava il suo individualismo solo per la squadra. Lui era la squadra, e la squadra era lui. Non ricordo una sola azione in cui non avesse già capito cosa stava accadendo intorno a lui. E che abbia avuto dei problemi con Agroppi è una nota di merito che aggiunge valore al suo modo di intendere il calcio.
Non ha vinto tanto, ma ha dato tantissimo sia al suo ruolo che al calcio più in generale.
Di lui ricordo due cose: il terrificante scontro con Silvano Martina, allora portiere del Genoa; il gol ingiustamente e marchianamente annullato contro il Brasile (guardate con quale compostezza reagisce contro il miope guardalinee), durante il Campionato del Mondo del 1982, alla cui finale vincente dovrà rinunciare per un tagliaccio orribile sul piede destro occorso durante un banale contrasto.
È un gran peccato che Della Valle non abbia mai pensato a un qualcosa di concreto per consegnare il suo nome alla Storia.
27 febbraio 2010
Falcão, ovvero come spostare una difesa
Di tutti i "nemici" che la Juventus abbia mai avuto, il migliore resta lui: Paulo Roberto Falcão, l'ottavo re di Roma.
Ma l'azione che meglio lo potrebbe rappresentare alle generazioni future è con la casacca della sua nazionale in Italia-Brasile 3-2, quando poi insieme a Pertini vincemmo in Spagna un'insperata Coppa del Mondo. Lui è sulla destra, a pochi metri dalla nostra area di rigore, con un cenno del bacino finta sull'estrema destra, e poi con straordinaria eleganza si sposta a sinistra per convergere al centro, la difesa si apre come un melone, e lui scocca un tiro di quelli che ancora oggi Zoff se lo sogna la notte, pareggiando temporaneamente una partita che ci regalerà altre mille emozioni.
Altre azioni nobili potrete seguirle nei contributi video che allego.
Sul piano personale, invece, quello che ricordo ancora nitidamente era la figura di una persona straordinariamente elegante, che sembrava non faticare mai, che stava sempre al punto giusto nel momento giusto, che non sprecava il suo irripetibile talento per mero individualismo, che aveva capito quanto fosse nodale il suo ruolo nella Roma di Liedholm e Viola... e che forse proprio per questo alla fine del ciclo si lasciò andare all'ingordigia, pretendendo un ingaggio troppo elevato per quegli standard. Forse sapeva che il ginocchio non l'avrebbe più fatto giocare come un tempo, forse - e finalmente - si stava dimostrando un terrestre come tutti noi.
E del resto che avesse un cuore e qualche timore lo dimostrò durante la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, quando cioè si rifiutò di tirare uno dei rigori (finale che a me costò una bella rimandatura in Storia, visto che il giorno dopo mi presentai in classe vestito di biancorosso, con pedante disappunto della baffuta suora laica professoressa).
Erano veramente altri tempi, e le polemiche del dopo partita erano pantomime cecione e quasi recitate che non lasciavano certo intravedere il commercialismo e le violenze che avrebbero poi affondato il calcio italico.
Ma l'azione che meglio lo potrebbe rappresentare alle generazioni future è con la casacca della sua nazionale in Italia-Brasile 3-2, quando poi insieme a Pertini vincemmo in Spagna un'insperata Coppa del Mondo. Lui è sulla destra, a pochi metri dalla nostra area di rigore, con un cenno del bacino finta sull'estrema destra, e poi con straordinaria eleganza si sposta a sinistra per convergere al centro, la difesa si apre come un melone, e lui scocca un tiro di quelli che ancora oggi Zoff se lo sogna la notte, pareggiando temporaneamente una partita che ci regalerà altre mille emozioni.
Altre azioni nobili potrete seguirle nei contributi video che allego.
Sul piano personale, invece, quello che ricordo ancora nitidamente era la figura di una persona straordinariamente elegante, che sembrava non faticare mai, che stava sempre al punto giusto nel momento giusto, che non sprecava il suo irripetibile talento per mero individualismo, che aveva capito quanto fosse nodale il suo ruolo nella Roma di Liedholm e Viola... e che forse proprio per questo alla fine del ciclo si lasciò andare all'ingordigia, pretendendo un ingaggio troppo elevato per quegli standard. Forse sapeva che il ginocchio non l'avrebbe più fatto giocare come un tempo, forse - e finalmente - si stava dimostrando un terrestre come tutti noi.
E del resto che avesse un cuore e qualche timore lo dimostrò durante la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, quando cioè si rifiutò di tirare uno dei rigori (finale che a me costò una bella rimandatura in Storia, visto che il giorno dopo mi presentai in classe vestito di biancorosso, con pedante disappunto della baffuta suora laica professoressa).
Erano veramente altri tempi, e le polemiche del dopo partita erano pantomime cecione e quasi recitate che non lasciavano certo intravedere il commercialismo e le violenze che avrebbero poi affondato il calcio italico.
20 febbraio 2010
Gaetano Scirea, che non è solo una curva
Assieme a Zoff rappresentò l'anima civile, riflessiva, etica, di un modo di giocare il calcio che condizionò totalmente la storia della Juventus e della Nazionale.
A differenza di quasi tutti i giocatori silenti che la mia mente ricordi, Scirea non era oscuro, ma profondamente sereno e quindi rasserenante. Il suo era un silenzio quasi esoterico, laicamente esoterico. I miei occhi da bambino lo individuavano subito, e lo seguivano quasi incantati delle sue gesta difensive, perché la sua era la presenza giusta, opportuna, raffinata ma mai indulgente, precisa ma mai spaccona.
Non ho mai capito perché la Juve non abbia ritirato il numero 6 dalle sue maglie.
13 febbraio 2010
oDino, Dino Zoff
Lo incontrai tre anni fa in Prati, qui a Roma. In realtà non volevo assolutamente disturbarlo, ma una cara amica di mia moglie voleva regalare un suo autografo al figlio... e mandò in avanscoperta il sottoscritto.
Incredibile: è un uomo alto - si sa, con un carattere fiero che lo rende ancor più imponente; eppure, paradossalmente, la sua civiltà e la sua umanità quasi lo ridimensionano. È come se il dio del pallone per manifestarsi a noi miseri mortali avesse scelto la dissimulazione, la compostezza, la misura.
Stringendomi la mano si è portato via metà della mia colonna vertebrale. Gli ho ricordato un suo "libbbricino" intitolato Dino Zoff racconta, che qualche trasloco m'ha portato via, e lui giustamente e umilmente fece notare che non era nulla.
Ha abbozzato un'impercettibile gratificazione (forse più rimbalzata dalla mimica facciale della signora che lo accompagnava) quando gli ho detto che per me è sempre stato un esempio, quasi un padre spirituale, e anche uno sportivo di quelli che dovremmo coccolare a vita, e raccontare ai giovani, e ai futuri nipoti dei giovani.
Dino Zoff ha vinto tutto, o quasi: in fondo è meglio per la sua storia che non abbia mai impugnato la Coppa dei Campioni dell'Heysel: quell'ottone insanguinato avrebbe macchiato la sua natura così limpida.
06 febbraio 2010
il re insegna la sportività
Una delle partite più intense nella storia della Juventus migliore: è l'8 dicembre 1985, e a Tokyo si disputa la finale tra la vincitrice della Coppa Campioni europea e quella omologa sudamericana.
Juventus contro Argentinos Juniors.
Vinceremo noi, ma solo ai rigori, anche perché a Platini annulleranno un gol regolarissimo, e lui da gran signore reagisce così:
Juventus contro Argentinos Juniors.
Vinceremo noi, ma solo ai rigori, anche perché a Platini annulleranno un gol regolarissimo, e lui da gran signore reagisce così:
23 gennaio 2010
forza Juve... quella del 1983
Una domenica di qualche lustro fa - il 6 marzo 1983 - ero incollato alla radio: la Roma e la Juventus si stavano scontrando per lo scudetto, e purtroppo lo avrebbe poi vinto la prima.
Ma quella partita ebbe esiti ben diversi, e sembrava il preludio per una straordinaria rimonta juventina. Fino a dieci minuti dalla fine, La Roma era in vantaggio per un gol segnato al 62' dal magistrale Falcão (un grande anche lui).
Raramente alla radio gli speaker si interrompevano tra loro per cose futili, al di fuori cioè di una segnatura, un rigore o un fatto veramente eclatante. E ogni volta che da Roma Ameri interrompeva Ciotti, mi ritrovavo il cuore in gola, pronto a subire l'onta di un vantaggio giallorosso o la gioa per un gol di quella grandissima Juve che purtroppo non esiste più.
All'83' Ameri interrompe Ciotti per... una punizione: Michel Platini sta per battere una delle sue punizioni. Capite? Stravolge una scaletta radiofonica solo per raccontare in diretta una punizione, i cui esiti non sarebbero stati per forza positivi.
Le Roi tira e segna, con un'eleganza e una precisione che ricordo ancora oggi. Pochi minuti dopo segnerà Brio (poi morso da un cane poliziotto a fine partita), grazie a una generosa punizione data a Gentile (il suo conseguente litigio con Conti minò la loro amicizia).
Vincemmo 2 a 1, e io scontai gli ennesimi insulti a scuola. Un romano juventino è quasi un vezzo, specie se - come me - vive a Testaccio, il cuore della Roma e di Roma.
Oggi c'è uno Juventus - Roma distante anni luce dalla bellezza di quegli anni. Questo calcio non mi diverte più, non mi piace, e lo seguo con distrazione solo per fare lo scemo cor macellaro o co' er librarolo.
A questa "classica" del calcio moderno vorrei dedicare questa antica intervista a Michel Platini: fu scritta il giorno che si ritirò dalle scene. Troppo presto per un campione, troppo tardi per un re.
Ma quella partita ebbe esiti ben diversi, e sembrava il preludio per una straordinaria rimonta juventina. Fino a dieci minuti dalla fine, La Roma era in vantaggio per un gol segnato al 62' dal magistrale Falcão (un grande anche lui).
Raramente alla radio gli speaker si interrompevano tra loro per cose futili, al di fuori cioè di una segnatura, un rigore o un fatto veramente eclatante. E ogni volta che da Roma Ameri interrompeva Ciotti, mi ritrovavo il cuore in gola, pronto a subire l'onta di un vantaggio giallorosso o la gioa per un gol di quella grandissima Juve che purtroppo non esiste più.
All'83' Ameri interrompe Ciotti per... una punizione: Michel Platini sta per battere una delle sue punizioni. Capite? Stravolge una scaletta radiofonica solo per raccontare in diretta una punizione, i cui esiti non sarebbero stati per forza positivi.
Le Roi tira e segna, con un'eleganza e una precisione che ricordo ancora oggi. Pochi minuti dopo segnerà Brio (poi morso da un cane poliziotto a fine partita), grazie a una generosa punizione data a Gentile (il suo conseguente litigio con Conti minò la loro amicizia).
Vincemmo 2 a 1, e io scontai gli ennesimi insulti a scuola. Un romano juventino è quasi un vezzo, specie se - come me - vive a Testaccio, il cuore della Roma e di Roma.
Oggi c'è uno Juventus - Roma distante anni luce dalla bellezza di quegli anni. Questo calcio non mi diverte più, non mi piace, e lo seguo con distrazione solo per fare lo scemo cor macellaro o co' er librarolo.
A questa "classica" del calcio moderno vorrei dedicare questa antica intervista a Michel Platini: fu scritta il giorno che si ritirò dalle scene. Troppo presto per un campione, troppo tardi per un re.
02 settembre 2009
le belle persone:
Dino Zoff e Gaetano Scirea
Zoff e vent'anni senza Scirea
"Mi manca il suo silenzio"
(da Repubblica - 1 settembre 2009 pagina 54)

"Mi manca il suo silenzio"
(da Repubblica - 1 settembre 2009 pagina 54)
Zoff, sono già vent' anni. «Tornavamo da Verona in pullman, la Juve aveva vinto 4-1, il casellante disse che era successo qualcosa a Scirea, io risposi è impossibile, a quest' ora sarà già a casa che dorme». Invece era morto su una strada polacca. «Allenavo la Juve, Gaetano era il mio vice. Era andato a vedere i nostri avversari di Coppa, lui non era convinto che fosse necessario, nemmeno io lo ero, ma Boniperti aveva insistito ed era giusto così. Il destino è invisibile». Chi era Gaetano Scirea? Cos' era? «Un uomo. Era il suo stile. Non la forma, lo stile. Era serenità, chiarezza e pulizia. Era convincente anche quando si arrabbiava così di rado, non perdeva mai il controllo. Una persona sempre misurata e tranquilla. Diceva solo cose autentiche, ponderate». Ricorda quando lo conobbe? «Arrivava dall' Atalanta, un ragazzone taciturno, buonissimo. All' inizio mi sembrava troppo perfetto per essere vero: a volte i timidi appaiono meglio di quello che sono, vale anche per me. Invece era così sincero e puro, senza sovrastrutture. Aveva il pudore delle parole, così raro sempre e di più adesso, in mezzo a questo boato». In campo, inarrivabile. «Perché era sempre lui, era la sua continuazione. Dicono che in partita ti trasformi: fesserie, in partita sei tu e basta. E conta l' istinto, lì non esiste il freno dell' intelligenza, viene fuori il profondo. E il profondo di Scirea era Scirea». Mai un' espulsione, eppure giocava in difesa. «Gli bastavano la classe e la pulizia del gioco. Mai visto uno così elegante, con la testa così alta. E la purezza del tocco era purezza morale. Questi sono uomini importanti, che magari non segnano un' epoca perché non gridano. Ma quanta ricchezza». Eravate sempre insieme: chissà che silenzi. «Invece parlavamo tanto, anche se per capirci non c' era bisogno di dire cose. Ci assomigliavamo, però lui era incomparabilmente migliore di me: io non sono così buono, né accomodante. Dividevamo la stanza d' albergo nella Juve e in nazionale, leggevamo, giocavamo a carte, robe semplici. Tra noi c' era una goliardia da ragazzini. Gaetano non era un musone, amava gli scherzi, ci stava, anche se era così delicato». Come visse il tumultuoso mundial ' 82? «La nostra camera la chiamavano "la Svizzera", era stato Tardelli a inventare il nome perché cercava rifugio da noi nelle sue notti insonni». Gaetano voleva fare l' allenatore: ci sarebbe riuscito? «Sì, perché era intelligente e convincente. In campo, un leader senza bisogno di urlare e sapeva farsi seguire. Aveva carattere, si era diplomato alle magistrali giocando e studiando anche di notte. Al calcio italiano è molto mancato uno come lui: forse, per carattere non avrebbe avuto troppe prime pagine ma non sarebbe cambiato, non l' avrebbero mai cambiato. Neppure in questo ambiente, dove fa notizia solo il rumore». Cosa accadde, dopo la vittoria di Madrid? «Ero rimasto allo stadio più degli altri per le interviste e tornai in albergo non con le guardie del corpo, come succede oggi, ma sul furgoncino del magazziniere. Gaetano mi aspettava. Mangiammo un boccone, bevemmo un bicchiere, ci sembrava sciocco festeggiare in modo clamoroso: mica si poteva andare a ballare, sarebbe stato come sporcare il momento. Tornammo in camera e ci sdraiammo sul letto, sfiniti da troppa felicità. Però la degustammo fino all' ultima goccia, niente come lo sport sa dare gioie pazzesche che durano un attimo, e bisogna farlo durare nel cuore. Eravamo estasiati da quella gioia, inebetiti». Cosa ricorda della sera in cui morì? «Rientrando da Verona, eravamo andati a cena dalle parti di Ponte sull' Oglio. I cellulari non esistevano. Arrivatia Torino, il casellante ci disse quella cosa, non volevo crederci. Il pullman raggiunse lo stadio, dove avevamo lasciato le auto. Era pieno di giornalisti. Diedi un calcio fortissimo alla fiancata». Dino Zoff, lei pensa spesso al suo amico? «Gaetano torna sempre. Lo penso a ogni esagerazione di qualcuno, a ogni urlo senza senso. L' esasperazione dei toni mi fa sentire ancora più profondamente il vuoto della perdita. Gaetano mi manca nel caos delle parole inutili, dei valori assurdi, delle menate, in questo frastuono di cose vecchie col vestito nuovo, come canta Guccini. Mi manca tanto il suo silenzio». - MAURIZIO CROSETTI
01 luglio 2009
heysel
Ieri RaiStoria riproponeva un ottimo documento sulla Strage dell'Heysel, quando cioè morirono tra gli spalti in una ressa infernale 39 persone prima della finale tra il Liverpool e la mia Juventus (che incidentalmente vinse con un rigore inesistente).
È una macchia dolorosa, difficile da cancellare, che personalmente mi allontanò brutalmente dal calcio. Ma soprattutto avrebbe dovuto insegnarci tante cose... dal Moggigate alle spese per Christiano Ronaldo, il mondo del calcio non mi sembra migliorato.
In studio c'era Marco Tardelli, noto anche per averci regalato l'urlo più famoso della storia (dopo quello di Munch... e forse dopo quello cinematografico di Donald Sutherland in Terrore Dallo Spazio Profondo).
Le immagini erano strazianti: dolore, caos, morte, polizia disorganizzata, dirigenti cinici e incompetenti, calciatori sconvolti ma incapaci di imporsi... forse fu giusto disputare la partita, ma che almeno poi fosse stato cosiderato vacante il trofeo.
Ma la scena che veramente segnò la fine di ogni parvenza di sportività e di umanità furono i festeggiamenti juventini a fine partita.
In studio Tardelli ha avuto la civile correttezza di chiedere scusa. La Dirigenza Juventina ancora no.
È una macchia dolorosa, difficile da cancellare, che personalmente mi allontanò brutalmente dal calcio. Ma soprattutto avrebbe dovuto insegnarci tante cose... dal Moggigate alle spese per Christiano Ronaldo, il mondo del calcio non mi sembra migliorato.
In studio c'era Marco Tardelli, noto anche per averci regalato l'urlo più famoso della storia (dopo quello di Munch... e forse dopo quello cinematografico di Donald Sutherland in Terrore Dallo Spazio Profondo).
Le immagini erano strazianti: dolore, caos, morte, polizia disorganizzata, dirigenti cinici e incompetenti, calciatori sconvolti ma incapaci di imporsi... forse fu giusto disputare la partita, ma che almeno poi fosse stato cosiderato vacante il trofeo.
Ma la scena che veramente segnò la fine di ogni parvenza di sportività e di umanità furono i festeggiamenti juventini a fine partita.
In studio Tardelli ha avuto la civile correttezza di chiedere scusa. La Dirigenza Juventina ancora no.
Iscriviti a:
Post (Atom)