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31 dicembre 2014

Jon Batiste / Davell Crawford duo a #UJW22

Poteva essere uno scontro tra titani, o un pittoresco scazzo tra bulletti, oppure uno scambio di irriverenti cortesie: invece è venuto fuori un concertino insolente e noioso.
Onestamente, mi sfugge perché certi musicisti si comportino così: il pubblico va rispettato; se poi è pagante, vanno pure onorati i soldi guadagnati. Specie in un contesto come Umbria Jazz Winter, che notoriamente è sempre sul baratro dell'eterna chiusura: in ambiti sacri come questo, o si onora il jazz o si sta a casa.
Se un responsabile morale va cercato a forza, credo sia stato più Crawford: addirittura per il primo quarto d'ora ha insistito sempre sullo stesso accordo senza mai cercare un minimo cenno d'intesa perlomeno professionale.
Insomma, le premesse al fulmicotone della serata precedente si sono spente nel giro di pochi mi minore cianfrusagliati a casaccio.
Un concerto dimenticabile, insomma, con pochissimi guizzi, tanta noia  e molta delusione.
In questa incredibile edizione di Umbria Jazz Winter doveva esserci un momento negativo per esorcizzare la sfiga: c'è stato, peccato; andiamo oltre.

30 dicembre 2014

Davell Crawford a #UJW22

Davell Crawford è un iradiddio sceso sulla Terra per dimostrarci che la musica ha un'anima infinita. Pensate che ha prolungato così tanto il divertentissimo concerto da costringere gli organizzatori a salire sul palco per portarlo via a forza, letteralmente.
Ieri notte, insomma, tra le pareti sornione del Teatro Mancinelli di Orvieto (persino tra gli spettatori più distratti) sono tornati i neri dei campi, le ombre dei primi bluesmen, le anime dei coristi delle chiese periferiche dell'America più nera, il riscatto dei bimbi di colore costretti a scimmiottare gli adulti troppo presto.
Un concerto vivo e pulsante che doveva rispondere a tono con quello precedente - altrettanto mirabolante - di Batiste, e che ha (di)mostrato quanto le radici del jazz siano più vaste ed eterogenee di quanto la vulgata pretenda di stabilire. Una performance che ci ha inchiodato un sorriso ebete sul faccione infreddolito, divertito e soggiogato da tanto colore.
Commoventi ed espliciti omaggi a Miles Davis, Fats Domino e Ray Charles, con languorosi picchi di nostalgia dalla New Orleans orgogliosamente risorta dalla profonda ferita da Katrina, e altri momenti in cui sembrava di stare dentro un locale sudafricano gestito da neri del sud, residenti però a Miami.
Da sottolineare il superfunky bassismo di Mark Brooks, il batterismo giamaicano di Desmond Williams, le bravissime coriste supertonde ma agilissime.

Jon Batiste and "Stay Human" a #UJW22

L'avevo scritto un paio di anni fa che Batiste era un grande, ben prima che diventasse noto a un pubblico più ampio; il concerto di ieri sera è stato più di una conferma, accidenti!
Un gruppo di primissima qualità, una scelta dei brani a tutto tondo, arrangiamenti audaci, moderni e stimolanti che restano appiccicati nel cuore e nella memoria.
E poi, che padronanza scenica: il gruppo ha letteralmente occupato il palcoscenico in lungo e in largo come fosse un immenso fuoco famigliare attorno al quale raccontare storie e sensazioni.
Grande entrata di gruppo con brani tradizionali della New Orleans più antica, poi una lunga e mirabolante St. James Infirmary di rara dolcezza, quindi i Beatles (!), poi I Can't Give You Anything but Love, poi altro, molto altro.
Micidiale Joe Saylor, batterista minuto ma dal batterismo muscolare e nel contempo raffinato. Col suo sguardo irriverente ha addirittura declamato nello stupefatto silenzio generale una delle più belle poesie di Byron, "She walks in beauty".
Ottimo Barry Stephenson, contrabbassista mainstream molto agile e attento.
Bravo il sax alto di Eddie Barbash: nel lungo solo di St. James ha strapazzato l'ancia ben oltre il fisicamente possibile.

30 dicembre 2012

#UmbriaJazz Jonathan Batiste e noi, insieme

#UmbriaJazz Jonathan Batiste, una meraviglia tra noi

Concerto memorabile, questo di Jonathan Batiste, di quelli che porti nel cuore e racconterai ai nipoti con languore e nostalgia.
Piano moderno e tradizionale, avventuroso ma mai esagerato, coinvolgente ma mai ammiccante. E poi un uso affettuoso del clavinet per far partecipare anche il pubblico quel tanto che basta.
Apre con un classico di Chopin cui lega avventurosamente una centellinata "Blackbird" dei Beatles. Ancora non canta.
Dopodiché arriva un classico di Morton, roboante ma spolverato di quegli inutili e cinematografici mississippismi.
Poi, silenzio. C'è "Summertime", nella versione più bella che abbia mai sentito in vita mia. Roba da brividi, veramente da brividi. Con un momento solista dodecafonico (!), e gli schiavi che aleggiano tra il pubblico, testimoni sorridenti di torti mai emendati.
E la voce? Perfetta.
Dopo altri maestrismi veramente di qualità, arriva una "St. James Infirmary" che non dà scampo, ricca di riferimenti antichi e moderni che si intrecciano.
Grande spolvero, poi, di "God Bless The Child" con un solista ai limiti dell'inverosimile: mano sinistra che cita Liszt, la destra che esegue Chopin/Beethoven, una cadenza alla Varese, e - udite - un fraseggio che rimanda a Cab Calloway.
Insomma, Batiste è il faro dell'oltre Jarrett. Per fortuna meno autoreferenziale, ma proprio per questo da frequentare.