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05 luglio 2024

GATO BARBIERI, UNA BIOGRAFIA di Andrea Polinelli

Pulita, ordinata, documentata, ben scritta e strutturalmente fluida, questa biografia su Gato Barbieri è un ottimo esempio di come si possa dedicare un corposo libro a un artista straordinario senza sbavature agiografiche. 

Andrea Polinelli riesce a mettere insieme contesto storico, vita personale, vita artistica e il contributo nella Storia della Musica di un sassofonista che la nostra memoria ha sempre relegato solo dentro lo sguardo perso di Marlon Brando e l'infelicità di Maria Schneider.

E, invece, è stato molto altro. Vi dirò: neanche sospettavo quanto fosse stato così importante anche per le sue idee, all'inizio debitrici del migliore Coltrane, poi sempre più personali e peculiari.

Testimonianze mai esagerate (spiccano quelle di Rava e Rea), una narrazione composta e ritmicamente ineccepibile, rendono questo libro una piccola perla nel panorama delle biografie, anche quelle non per forza musicali.

In coda al testo, c'è una serie di appendici tecniche, di quelle che personalmente cerco in tutte le biografie musicali, ma che raramente gli autori concedono (vuoi per non appesantire la lettura, vuoi perché ci vuole pazienza e umiltà a proporre con approccio propedeutico le partiture complesse).

Suggerirne l'acquisto anche ai meno specializzati potrebbe sembrare un azzardo. Però, raramente ho incontrato un libro che sapesse rendere così bene cosa siano stati veramente quegli anni e quale sia stato il contesto storico più in generale, quindi non solo musicale.

09 gennaio 2018

Umbria Jazz Winter #UJW25, poche luci, molte ombre (con affetto)

È ormai la sesta edizione che mi vede tra i fedeli spettatori della versione invernale di Umbria Jazz Winter
Rispetto a quella estiva - più famosa e più antica - soffre di almeno due limiti oggettivi: il periodo, notoriamente breve e forzatamente dedicato ai propri affetti; la collocazione, tutt'altro che agevole, penalizzata peraltro da un'accoglienza limitata e limitante.
In più, non passa anno in cui non si parli di difficoltà economiche, nonostante poi successivamente vengano sempre vantati dei sold-out pressoché totali (anche se io ho l'impressione che siano mischiati turisti occasionali con gli spettatori veri e propri).
Certo, il cartellone sembra soffrire sempre più di qualità, ma all'apparenza: al di là dei gusti, e delle performance, infatti, i nomi di grido e quelli di nicchia non sono mancati.
Però quest'anno troppe performance hanno lasciato a desiderare. 
Quelle al Teatro Mancinelli, poi, hanno tutte sofferto anche di un mixer tutt'altro che professionale: musica impastata, strumenti primari quasi inascoltabili, equalizzazione delle percussioni non all'altezza del blasone.
Ma procediamo con ordine.
Il duo Danilo Rea e Gino Paoli non ha mai avuto nulla a che vedere con il jazz. Attenzione, non sto parlando di una mia personale idea di jazz: da sempre, Rea e Paoli fanno i gigioni, alla ricerca dell'applauso facile e di un pubblico più poppeggiante che jazzistico
Per carità, non ci sta niente di male, anzi. Però - qui a Orvieto - da Danilo Rea mi aspettavo più rispetto per la sua figura. Poche note, ma giuste, diamine! 
E, invece, ha vorticosamente girato le fettuccine sui tasti bianconeri, sciorinando quei quattro soliti e prevedibili trick che vent'anni fa erano innovativi, ma che oggi sanno solo di stanca ripetizione di se stessi. Lo accetto da Allevi, ma non da Danilo Rea. 
Si è salvato giusto Flavio Boltro, guest in un paio di pezzi, sempre capace di prendere affettuosamente per i fondelli la sua tromba, limitata ma audace e sorniona.
Jason Moran ha proposto un Monk inutile, cerebrale e borioso, quale invece non era il grandissimo pianista. Troppi intellettualismi stucchevoli e appiccicati, accompagnati peraltro da una sorta di installazione risicata e ripetuta più volte, che se soffrivi di epilessia rischiavi veramente brutto.
Marc Ribot ha fatto un casino con un suo modo molto arrogante di raccontare l'armolodia di Coleman, penalizzando i già timidi Young Philadelphians con un uso strafottente e ostinato del wha wha, per oltre un'ora di bordello sonoro; tanto che tre quarti di Teatro è scappato via a gambe levate dopo soli dieci minuti di fracasso. 

Da chi ha nobilitato David Sylvian, Tom Waits e Vinicio Capossela, mi aspettavo più rispetto per se stesso, per il pubblico e anche per i giovani musicisti coinvolti.
Il Merry Christmas Quartet di Fabrizio Bosso ha fatto la sua striminzita performance con l'aiuto di una voce senza mantice ed estensione (quella di Walter Ricci). Scaletta già dimenticata per un live veramente deludente. Certo, Bosso è dio, Mazzariello è il suo profeta, ma la scelta dei brani è stata micidiale.
Sul trio Guidi, Bearzatti, Rabbia non riesco a pronunciarmi più di tanto. Il pianismo di Guidi è acquoso di suo, contrapposto al batterismo di Rabbia decisamente più professionale. Quando entravano nel jazz mainstream riuscivano bene (troppo ECM, va detto); ma quando hanno abbozzato un free jazz di maniera, mi è venuta voglia di scappare.
Si sono salvati: la bella lettura di Joni Mitchell da parte di di De Vito, Pietropaoli e Mazzariello e la brava e promettente Jazzmeia Horn (teniamola d'occhio!). 
Però è stato troppo poco.
Oltretutto gli organizzatori insistono nel dire che quello invernale è sempre stato un Umbria Jazz per "addetti ai lavori". Cosa diamine voglia dire, è un mistero. Resta il fatto che anche e solo l'elenco dei nomi presentati dimostra una volontà di essere invece eterogenei e curiosi.
La vera domanda da porsi, invece, è un'altra: come mai il livello è stato complessivamente così basso?
A parte le due benvenute eccezioni, perché la qualità di Umbria Jazz 25 è stato così bassa e precaria?
Non ho la risposta, ovviamente; anche se temo che la visione dei due estremi (Rea da una parte e Moran dall'altra) lasci intravedere un'italica volontà di mantenere separati due mondi (jazz banana e jazz colto) che nel significato stesso del jazz non dovrebbero nemmeno essere ipotizzati.

29 dicembre 2014

Doctor 3 a #UJW22

Ho un mio personalissimo modo di intendere i ruoli in un interplay (sicuramente lontano da quello che sarebbe nella realtà): il contrabbasso indica un paesaggio, il pianoforte lo esplora, la batteria pone le fondamenta (doppie) di una cultura e della sua "religione".
Insomma: rischio, sicurezza e tribalismo si devono mescolare a dovere per donare all'ascoltatore il meglio di un'avventura musicale.
Se poi la vedetta è Enzo Pietropaoli, l'esploratore Danilo Rea, il cerimoniere Fabrizio Sferra, la vostra vita avrà senso.
Gran bel concerto dei redivivi Doctor 3 che hanno rispettato il sacro tempio del jazz invernale con un'ora e quaranta di jazz tirato ma mai serioso, di melodie affabili ma mai ovvie, di sperimentazione azzardata ma mai cerebrale.
Si è passati da Ain't No Sunshine a Hey Jude, da Carole King a Petrucciani, da Moon River a De André, senza alcuno sforzo, senza rigide teorie o inutili prove muscolari.
Rea ha fatto pochissime e misurate daniloreate, Sferra e Pietropaoli hanno regalato una sontuosa lezione di stile.
Grande chicca per palati fini: Answer Me My Love di rarefatta dolcezza.

04 settembre 2014

Doctor 3, il ritorno

Un'opera solida, ben fatta, dove vale l'idea del gruppo in ogni minima nota, dove l'ego dei singoli si amalgama in maniera elegante, senza fronzoli e senza ammiccamenti. 
Nonostante la scelta dei brani faccia presagire chissà quali virtuosismi, non esistono momenti solistici evidenti, ma una chiara intenzione di muoversi tutti insieme dentro brani più o meno noti del vasto panorama pop/rock/jazz.
Insomma, è come se i tre dottori avessero deciso di accompagnarci in una loro improvvisata passeggiata musicale, indicandoci note e silenzi di brani più o meno riconoscibili, a volte ricamando intorno a linee immediate, spesso scovando tra le pause delle partiture originali alcuni cenni di possibili "note altre" che magari ci erano sfuggite.
Ad essere petulanti, trovo meno riuscite Life on Mars (Bowie) e How Deep Is Your Love (Bee Gees), guarda caso già rivoltate come un pedalino dai Bad Plus col cui batterista il buon Rea sta per collaborare.
Quasi da Doctor 3 prima maniera, invece, la (ri)lettura di The Nearness of You (Carmichael) e di Ain't No Sunshine (Withers). 
Sicuramente avvolgenti i (nuovi) misteri sonori di Will You Still Love Me Tomorrow (Goffin e King), Light My Fire (Doors), Moon River (Mercer e Mancini) e Unchained Melody (North e Zaret). 
Strepitosa la versione di Hallelujah (Cohen, ma in fondo è anche di Buckley) che secondo me potrebbe diventare una nuova frontiera sonora in cui i tre potrebbero avventurarsi.
Il pianoforte di Danilo Rea si mantiene uguale a se stesso: eccellente, ma ormai stabile in quella sua tecnica molto italiana, attenta alla melodia e all'insieme. Il contrabbasso di Enzo Pietropaoli è come il vino: invecchiando migliora, dimostrando una serenità espositiva in costante stato di grazia. Fabrizio Sferra si conferma tra i migliori batteristi italiani del momento.

03 maggio 2012

la bellezza di aver fatto parte del #JazzDay

Devo ringraziare SuperEnzo Pietropaoli se il 30 aprile scorso con mia moglie sono stato tra i 600 spettatori privilegiati che hanno assistito al concerto ufficiale italiano per il primo International Jazz Day organizzato e voluto dall'UNESCO.
Il suo mettermi da parte due preziosissimi biglietti (galleria; fila 5, posti 21 e 23) è stata una perla nella perla. Raramente dimentico questi gesti, che per molti sono piccole cose, ma che per me significano molto.
Io credo nel jazz da quand'ho iniziato ad ascoltare la musica, perché è un genere musicale che suggerisce infinite strade e infiniti linguaggi, tutti affascinanti e dignitosi, e che permette a donne e uomini diversi e di diverse culture di incontrarsi e magari anche di inventare linguaggi nuovi, senza dover rendere conto a chicchessia, senza doversi sforzare di capire il linguaggio dell'altro, perché in quel momento è l'incontro che crea linguaggi, ed esplorazioni, e tante piccole e grandi cose che posso essere descritte con un silenzio, con uno sguardo o con lunghe chiacchierate in compagnia di una buona birra.
Ascoltare Danilo Rea, Enzo Pietropaoli e Jeff Ballard omaggiare e salutare e vivere insieme a noi il jazz, è stata un'esperienza veramente intensa. 
Tra i brani eseguiti segnalo Close to you, Barcarolle (Tom Waits sarebbe stato d'accordo), I got rhythm (nella versione più sincopata), Bye bye blackbird (eseguita con rara superbia), Intermezzo dalla "Cavalleria rusticana" (un po' piaciona, ma solo noi italiani sappiamo suonarla in qualsiasi modo), Nero a metà (già, proprio Pino Daniele), e un delicato omaggio a Lucio Dalla con il suo 4-3-1943
Naturalmente non sono mancati anche i soliti ammiccamenti ai Bitols, su cui - lo sapete - esprimerei sempre e solo riserve (su loro, non su come li hanno suonati i nostri).
Ho una grandissima stima per SuperEnzo perché è un bassista di rara puntualità, accorto e mai molesto, audace ma mai sbruffone, sempre pronto a farsi da parte e sempre attento ai cambi dell'improvvisazione altrui. Quando gli ho detto che lo considero tra i primi dieci bassisti nella storia del jazz, mi ha consigliato di rivolgermi ad uno psichiatra: fatto sta che proprio questa sua prova così celebrativa, consiglierebbe a qualsiasi psichiatra di darmi ragione o cambiare mestiere.
Danilo Rea si è esibito alla grande, limitando certi suoi abbellimenti troppo di mestiere. Certo, il paragone con altri grandi viene spontaneo. L'unico appunto che gli ho sempre fatto è di non fermarsi un attimo per esplorare nuove incognite. Per dirne una: pochi mesi fa, Keith Jarrett ha detto che solo da poco tempo ha iniziato a usare la sua mano sinistra (sic!): per quanto possa sembrare una provocazione, diventa invece una lezione per tutti. Danilo ha rispettato il patto con gli ascoltatori durante questo concerto: però voglio vederlo alla prossima.
Last but not least, tanto di cappello a Ballard: dal suo carnet ho constatato che ha avuto pochissimo tempo per provare con i nostri. Eppure sembrava conoscerli da sempre: disicplinato, puntuale, ironico, attento, preciso, nitido. Mai una sbavatura (persino nel solluccheroso interim di Mascagni).
Insomma, un'esperienza incredibile, che le istituzioni (tutte!) e la Rai hanno ignorato, se non nello speciale web fatto dal sottoscritto (accuratamente attribuito ad altri), e lo speciale di Rai3 trasmesso in seconda serata e sin troppo bollanicentrico. Ma è la solita vecchia storia, no?
Evviva il jazz, però: sempre e comunque.