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03 settembre 2025

LA MIA VITA di Friedrich Nietzsche (Adelphi)

Fin dalla prima giovinezza, Nietzsche cominciò a raccontarsi a sé stesso, quasi provando quello strumento che, all’apice della sua vita, avrebbe dato i prodigiosi accordi di Ecce homo

Non avendo pregiudizi nei confronti di Nietzsche, ho letto il primo libro di questo mirabile cofanettone: nonostante l'intento esplicitamente autobiografico, è già possibile incontrare pensieri, parole e opere del filosofo, veramente dense e interessanti. 
A latere, si percepisce subito quanto Nietzsche abbia influenzato il pensiero di Roberto Calasso, il papà di Adelphi cui ho dedicato una dozzina delle mie recensioni. Un conto è averlo letto nelle interviste del compianto editore, un conto è assaporarlo direttamente.
Sicuramente, questo La mia vita non è un'operazione onanistica o egocentrica, ma la leva ideale per entrare con una certa "naturalezza" nel pensiero di Nietzsche, senza doverlo interpretare, senza cioè arrovellarsi dentro gli aforismi dei suoi saggi. 
Uno specchio è la vita
Riconoscer sé stessi
In questo specchio riflessi
È la cosa più ambita
Tralasciando la breve parte dedicata alla sua infanzia, ho trovato illuminante il lungo raccontare il percorso di studi che lo porterà a diventare un accademico stimato e apprezzato.
Spaventa e sgomenta quanto le generazioni come la sua - a un'età in cui il cervello maschile generalmente vaga senza meta - abbiano studiato e assorbito saggi e lezioni con una profondità e intensità che le nostre al massimo potrebbero abbozzare giusto all'università.
Certo, c'è anche un influsso caratteriale (Fin da bambino, io cercavo la solitudine, e mi trovavo meglio là dove potevo abbandonarmi indisturbato a me stesso), ma i programmi scolastici erano quelli; non ci sta niente da fare.
Tra le tante descrizioni e narrazioni, risalta la passione di Nietzsche per la musica: Dio ci ha dato la musica in primo luogo per indirizzarci verso l'alto. La musica raduna in sé tutte le virtù: sa essere nobile e scherzosa, sa rallegrarci e ammansire l'animo più rozzo, con la dolcezza delle sue note melanconiche [...] La musica rallegra scaccia i pensieri tristi [...] Con le sue note, l'arte musicale è spesso più eloquente della poesia con le parole.
L'ottica religiosa di Nietzsche sopra accennata, è costante: Ho vissuto ormai tante esperienze, liete e tristi, che mi hanno rasserenato e afflitto, ma in ogni cosa Iddio mi ha guidato sicuro [...] Ho preso nel mio intimo la salda decisione di dedicarmi per sempre al suo servizio.
Questo esser sempre così rigorosi si riscontra persino quando descrive la fine delle vacanze, con questi versi:
Svanir deve la vita
E la rosa appassire
Se vuoi vederla un dì
Gioiosa rifiorire
Versi che mi hanno ricordato la lapide che Rilke scriverà per sé stesso: Rosa / pura contraddizione / La gioia di essere sonno di nessuno / sotto tante palpebre.
Prendendo come spunto proprio le vacanze, ecco un pensiero rivolto ai più giovani: Giovane, usa bene il tempo delle tue vacanze, non studiando, bensì in giubilante riposo, cosicché, quando la tempesta si avvicina e la rombante voce del tuono annuncia la fine del tempo delle rose, tu parta di buon animo - ma zitto! Non sono uno che veda fuggir la primavera senza piangere, e stento a comprendere come si possa tornare volentieri a imprigionarsi nei propri ceppi. Ma ormai la mia massima è: goditi la vita così come ti si offre, e non pensare alle fatiche future.
C'è, poi, un passaggio che mi ha colpito più di tutti gli altri, perché rende nobile e strutturato un pensiero che ho scritto in questo libro, ma senza la stessa accuratezza. Nietzsche è convinto che non esista l'inedito, il non creato: I concetti astratti sono da considerarsi i creatori di ogni essere? No, al di là della materia, dello spazio, del tempo, si ergono le fonti originarie della vita, che debbono essere più alti e spirituali, la capacità vitale dev'essere infinita, la forza creatrice illimitata.
Generalmente, suggerisco se leggere o no certi libri: in questo caso, il testo in sé mi ha appassionato molto, ma non saprei dirvi se sia "obbligatorio" farlo. Sicuramente, di Nietzsche vanno letti ben altri testi. Tanto, entro il 2026 avrò sicuramente finito il cofanettone. Seguitemi: ne riparliamo.

17 gennaio 2024

JERUSALEM di William Blake

Alla seconda parte dell’ultima stagione di The Crown sembra mancare un perno narrativo, forse a causa dei ripetuti e continui strappi nella vita reale della famiglia reale (scusate…).

Se la direzione della fotografia continua ad essere meno convincente degli elevati standard dimostrati nelle prime stagioni, il livello di scrittura è sempre di qualità: tra i momenti gustosi, spiccano gli scambi tra la Regina e un Tony Blair antipatico e borioso come nella realtà.

La scena in cui le componenti il Women's Institute lo biasimano per il suo egocentrico parlare solo di politica, è preceduta da un bellissimo brano cantato all’unisono da tutte le donne presenti: Jerusalem.

Il titolo originale è And did those feet in ancient time (1804), e fu scritto da William Blake come proemio del suo poema Milton. La musica e l’orchestrazione di Edward Elgar (da brividi) sono successive (1916), e lo resero in pochissimo tempo uno dei brani più amati dagli inglesi in generale - e dalle femministe in particolare (anche se è improprio definire “femminista” il WI).

Uno dei momenti più noti recita:
Bring me my Bow of burning gold / Bring me my Arrows of desire / Bring me my Spear: O clouds unfold / Bring me my Chariot of fire!

Questo esaltante “carro di fuoco” ispirò scientemente il titolo originale del bellissimo film Momenti di gloria (1981), ambientato in parte a Saint Andrews (mirabile cittadina scozzese dove risiede anche l’Università frequentata dal Principe William).

Considerato che il film parla di Olimpiadi, la celebre colonna sonora - che contiene anche Jerusalem - fu (volutamente?) affidata a un greco, il compianto Vangelis, e fa venire voglia di vincere, di divorare il mondo.

A latere (1): nella discografia di Vangelis, figura anche un curioso LP intitolato Heaven and Hell (1975), omaggio a un altro libro di William Blake, The Marriage of Heaven and Hell (1793), in cui si parla anche di doors of perception, allegoria che ispirò ad Aldous Huxley il titolo della la sua autobiografia lisergica (1954), che a sua volta ispirerà Jim Morrison per denominare il suo complesso The Doors (1965-1973).

A latere (2): nella scaletta dei concerti di Emerson, Lake & Palmer figurava spesso una versione di Jerusalem perlomeno audace


12 settembre 2023

JUST KIDS di Patti Smith (Feltrinelli)

Provo un certo timore a recensire questo piccolo gioiello, tra i più intensi che abbia letto in questi ultimi anni. Ed è un timore dettato dal fatto che le parole sono convenzioni e sono anche semplici e false, perché non dicono tutto, anzi dicono poco; e non so che parole usare per omaggiare questa quasi autobiografia di Patti Smith.
C’è vita, sole, serenità, felicità, voglia di esistere, passione, amore, allegria, amicizia. C’è arte, tanta arte. Un’arte non ostentata né vantata: un’arte che pulsa e che cresce e che diventa parte integrante della quotidianità. E c’è lui, Robert Mapplethorpe, dolce e visionario, artista e amante, amico e compagno di vita.
Patti Smith riesce a trattenere il nostro fiato fino all’ultima pagina, senza mai indugiare nella nostalgia, nei bei tempi che furono, nell’autocompiacimento.
E c’è un’America che germoglia, una generazione che fiorisce nel dopoguerra, alla ricerca di sé stessa e di una Storia che andava ancora scritta.
È un libro magnifico, che merita una lettura lenta e discreta, assaporando ogni singola parola, ogni singola pausa, per sentirsi alla fine migliori, forse anche felici.

04 novembre 2020

LA FOLIE BAUDELAIRE di Roberto Calasso (Adelphi)

Sesto di un'opera in costante evoluzione (ad oggi di undici volumi), questo racconto/saggio/requisitoria di Roberto Calasso sembra una discesa nel lato oscuro della cultura francese, ormai orfana della Rivoluzione come anche delle gesta illusorie di Napoleone. Che poi usare l'aggettivo "oscuro" è totalmente fuorviante: a voler fare una similitudine semplicistica, è un po' come quella parte della nostra libreria che è sempre in penombra: per quanto i titoli possano essere illuminanti, quella collocazione forzata ne mortifica involontariamente la forza e il contenuto.
Il perché di questo titolo - e quindi l'ambito intrigante del significato del testo, lo scopriamo nelle ultime pagine, quando cioè Calasso ragiona su un ragionamento di Sainte-Beuve: "Baudelaire ha trovato modo di costruirsi, all'estremità di una lingua reputata inabitabile e al di là dei confini del romanticismo conosciuto, un chiosco bizzarro, assai ornato, assai tormentato, ma civettuolo e misterioso, dove si leggono libri di Allan Poe, dove si recitano sonetti squisiti, dove ci si inebria con hashish per ragionarci poi sopra, dove si prendono oppio e mille droghe abominevoli in tazze di porcellana finissima. Questo singolare chioso, lavorato a tarsie, di una originalità concertata e composita, io lo chiamo la folie Baudelaire. L'autore è contento di aver fatto qualcosa di impossibile, là dove si credeva che nessuno potesse andare".
Tornando indietro, agli inizi del saggio, Calasso si muove tra le scelte artistiche e private di Baudelaire (spesso commistiate tra loro senza soluzione di continuità), interpretando e rileggendo alcuni passaggi della sua vita che abbiamo sempre ritenuto assodati.
Per esempio, gli esatti confini del discusso rapporto con Jeanne Duval: "Non vi è traccia alcuna che Baudelaire aspirasse a una qualche vita familiare (neppure un sospiro come quello di Flaubert). Al più agognava una vita domestica tranquilla, ben assestata, ripetitiva: l'opposto di quella che gli si offriva ogni giorno".
Oppure il suo uso nascostamente strumentale della sua passione per Poe: "Cresciuto sotto il cielo quadrato delle Solitudini, Baudelaire mantenne sempre un qualcosa di adolescenziale, una certa turbolenza spavalda e desolata. Non raccontò mai quegli anni, ma ne accennò per interposta persona, come gli era consueto, attribuendo i suoi sentimenti di allora a Poe".
E quindi quello strano senso di autocommiserazione mai portata a estremo compimento: "Baudelaire fu un sommo perito dell'umiliazione. Nessun altro scrittore, per quanto travagliata la sua vita, può competere con lui nella pratica di quello stato". Che potremmo mettere accanto a questo passaggio: "Baudelaire fu il solitario, impavido sostenitore del diritto irrinunciabile di contraddirsi".
Interessante, poi, il porre la città come sfondo partecipe del suo approccio poetico: "La Parigi di Baudelaire è caos dentro una cornice. Essenziale è il riconoscimento del caos, del pullulare delle forze e delle forme, della benevola ospitalità data a tutte le varianti del mostruoso [...] Tutto ciò che avviene all'interno della cornice esalta gli elementi che vi sono circoscritti, li obbliga a ibridarsi in combinazioni mai sperimentate. Così nasce il nuovo".
Si respira poi una sorta di repulsione a classificare la presunta oscurità dell'artista dentro canoni freudiani: "Innumerevoli sono stati i tentativi di sottoporre Baudelaire a una qualche direzione psicologica. Immancabilmente maldestri e importuni. La psicologia si ferma prima della letteratura. E Baudelaire era andato oltre la letteratura. Ma rimane indubitabile che ad ogni sua frase si sprigiona il profilo di una persona, di un clima psichico, di un certo modo di sentirsi vivi".
E, come in tutti i libri di Calasso, è avvincente anche la cornice di altri pesi massimi della cultura, i cui pensieri spesso figurano come inconsapevoli coautori collaterali: Proust, Hölderlin, Gautier, Rimbaud, Flaubert, Nietzsche, Mallarmé, Valéry. Un profluvio di pensieri e annotazioni che inebria e coinvolge.
Ci sono, poi, artisti intorno ai quali si disvelano altri aspetti di Baudelaire. Artisti come il poco amato Ingres, "soltanto genio" come sottolinea l'autore stesso, la cui matita aveva sulla carta "la stessa delicatezza della mosca che erra su un vetro"; matita che trovava nel disegno "i tre quarti e mezzo di ciò che costituisce la pittura". Estraneo al proprio tempo, Ingres era incolto e refrattario alla cultura. Innamorato della figura femminile, eccelleva nell'esaltare le parti meno immaginabili dell'erotismo femminile raffigurato fino ad allora. 
Altra figura analizzata: Delacroix. Quasi ossessionato dalla sessualità, la sua figura viene usata come ideale utile fulcro per introdurci nel sogno quasi-erotico (e qui forse molto freudiano) di Baudelaire in un bordello in cui si sviluppa un gioco costante tra illusione, estasi, sogni e riferimenti personali.
Ma è con la lunga e dotta analisi sulle tecniche di Degas che Calasso dà il meglio di sé, disvelando una personalità non solo pittorica: il suo andare oltre le "inquadrature" classiche, cogliendo le figure raffigurate in pose eterodosse dove il loro sguardo non si posa verso l'altro o verso lo spettatore, ma altrove, con un'espressione e una mimica facciale imperscrutabile se non conflittuale. Sono pagine magnifiche, quelle di Calasso, dove finalmente si coglie la potenza di un artista di cui spesso conosciamo solo le ballerine e poco più.
Un libro incredibile, che conferma quanto quest'opera senza fine di Calasso sia una delle poche isole intellettuali ancora vive e fiorenti, intorno alle quali vale la pena soffermarsi per poi trovarvi rifugio.

15 marzo 2020

Coronavirus, da un disastro, la Bellezza

Secondo voi, si può passare da un vulcano e arrivare a Kirk Douglas? 
E, soprattutto: perché?!
Aprile 1815, Indonesia. Il vulcano Tambora esplode, letteralmente, raggiungendo il livello 7 dell’indice di esplosività vulcanica; Pompei fu del 2, così vi fate un’idea. La sua attività dura fino all’agosto dello stesso anno, generando tsunami più o meno rilevanti - nonché una quantità incommensurabile di materiale vulcanico che raggiunge l’atmosfera e lentamente avvolge l’intero globo. Le vittime sono 12.000, ma non possiamo certo calcolare quelle successive al disastro ambientale che ne consegue, come inondazioni e siccità. L’anno successivo, infatti, è il celebre “anno senza estate”. 
In pochi mesi, progressivamente anche il cielo di tutta Europa diventa così terso da ispirare al pittore William Turner quei suoi magnifici tramonti.
Ma non è il solo artista a restare affascinato da quella situazione.
Infatti, nel 1816, nella Villa Diodati in Svizzera , si ritrovano tre letterati e un loro attendente: influenzati da quel clima così evocativo e appassionati da dozzinali racconti gotici tedeschi, vogliono scriverne di nuovi, scambiandosi idee ma anche sfidandosi a chi scriverà l’opera migliore.
Ne parla - molto a modo suo! - Ken Russell nel poco riuscito film Gothic (1986), di cui si salva giusto la colonna sonora di Thomas Dolby, già produttore dei Prefab Sprout e pioniere di un’elettronica senza frontiere e pregiudizi.
Il più noto tra questi è George Byron, immenso poeta, padre di Ada (già, proprio quella cui è dedicato l’omonimo algoritmo). Byron scrive Darkness, uno dei poemi più belli della Storia, non solo inglese. 
Se non siete influenzabili da temi così imponenti, vale la pena leggerlo; altrimenti, aspettate la fine di questa crisi. L’edizione italiana con la migliore traduzione è quella Einaudi, purtroppo fuori catalogo.
Il suo attendente, Jon Polidori, scrive un brevissimo libello dal titolo Il vampiro. Secondo l’elegante saggio dell’antropologo culturale Vito Teti, sarebbe stato lo stesso Byron ad avergli buttato giù una bozza dozzinale. Comunque sia, l’inquietante figura è chiaramente ispirata al sommo poeta… in maniera chiaramente sprezzante, visto che Polidori non amava certo il suo padrone.
Poi abbiamo Percy Shelley: scrive Il Prometeo liberato, forse l’unica datata tra le idee di quel simposio; per quanto bella, ha uno stile sin troppo ottocentesco. Shelley è seppellito nel Cimitero Acattolico di Testaccio, accanto a Keats (quello dell’Urna greca, per intenderci), Gramsci (cui Pasolini ha dedicato un bellissimo poema) e… Camilleri.
La vera sorpresa ce la regala sua moglie, Mary Wollstonecraft. Femminista ante litteram, bella, intelligente e colta, scrive Frankenstein. A seguire quel matto di Russell, la trama sarebbe condizionata da un presunto aborto spontaneo; fatto sta che quel capolavoro dovrebbe girare anche per i nostri licei, se solo in Italia crescessimo un pochino e la smettessimo di circoscrivere tutto in generi sprezzanti.
Fin qui, tutto bene, ma manca Kirk Douglas, peraltro morto recentemente a soli 100 anni.
Lo sappiamo, è stato protagonista di eccellenti pellicole, non ultima lo Spartacus di Kubrick, le cui difficoltà produttive vengono raccontate con rara ironia proprio da Douglas in questo simpatico testo.
Ma c’è un’opera meno nota che lo vede tra i protagonisti: Lettera a tre mogli (1949) di Joseph L. Mankiewicz (sofisticato regista di capolavori come Eva contro Eva, Cleopatra, Un americano tranquillo, per dire). Diciamo placidamente che la trama è stata alquanto abusata, non ultimo dalla serie Desperate Housewives (anche se qui la lettera è in realtà una voce fuori campo di una quarta amica ormai morta).
La trama è semplice, liquida e lineare: una donna invia una lettera, appunto, a tre mogli, scrivendo che ha avuto una relazione con uno dei mariti. La sua voce fuori campo è una sfida alle regole cinematografiche, visto che notoriamente è sinonimo di debolezza strutturale (Viale del tramonto è l’eccezione che conferma la regola): eppure è una formula vincente e accattivante, tanto da vincere l’Oscar per la regia e la sceneggiatura non originale.
Kirk Douglas interpreta un professore squattrinato, fiero della sua passione per la cultura, ma chiaramente messo da parte perché “intellettuale”. Ad un certo punto, verso la fine del film, quando scorge una delle protagoniste scendere lentamente le scale, così elegante e sensuale, declama: “She walks in beauty, like the night / of cloudless climes and starry skies…”, Ella cammina radiosa come la notte, di climi tersi e di cieli stellati… è una poesia di Byron, proprio lui. 
Ce l’abbiamo fatta: dal Tambora siamo arrivati a Kirk Douglas!
Dimenticavo. Per i malati di Star Trek: tale poesia viene declamata anche da Spock nel terzo episodio della terza stagione della cosiddetta Serie Originale.
Insomma, da un disastro come quello del vulcano Tambora, l’Umanità ha saputo reagire con la Bellezza. Basta volerlo.

16 marzo 2010

Invictus



Oltre la notte che mi copre, nera
come nero il pozzo da cima a fondo,
per l’anima mia inviolata e altera
ringrazio ogni dio che esista al mondo
Nella selvaggia morsa degli eventi
io non ho disperato o barcollato.
Sotto la sorte e i suoi percuotimenti,
nel sangue, il capo Io non ho chinato
Oltre quest’inferno di pianto e d’ira
non v’è che delle tenebre l’Orrore.
Se pure contro me il tempo cospira
mi trova e troverà senza timore
L’impervia uscita non mi fa impressione,
né la spietata pena che mi sfida,
del mio destino io sono il padrone:
dell’anima mia io sono la guida
Un film che ti alzi in piedi affaticato, provato, con un dolore intrigante che percorre le ossa e la coscienza. Perché questo è il film che riesce a far capire quanto spirito e corpo debbano sempre camminare insieme, tenendosi per mano, magari ogni tanto litigando, per poter affrontare meglio la vita, nei momenti bui, nei momenti felici, ma soprattutto nei momenti del dubbio. E quando sei un nero che per secoli hai subito le ignominie dell’uomo bianco, è difficile ricordarti di essere uomo e saper convivere serenamente con il tuo ex nemico.
Eppure Nelson Mandela è questo. Eppure Clint Eastwood è questo. Eppure Invictus è una straordinaria lezione su moltissime cose, per tutti noi.
Ho trovato infantile questo criticismo all’italiana che ha voluto trovarci pecche stilistiche, o una retorica esagerata o cose simili. In realtà i tromboni dell’appuntino ad ogni costo sono invidiosi degli anglosassoni: per noi italiani la retorica è cosa tronfia pesante, ridicola, asfissiante e dedicata a qualcosa di temporaneo e individualistico; per gli anglosassoni, invece, la retorica è una missione, è un’aspirazione, è un’attitudine, è essere come il capitano della squadra sudafricana e saper guidare i suoi verso l’assoluto, perfettamente consapevole che all’inizio in molti aderiranno per inerzia; ma è proprio in questo modo che i meno convinti si rendono conto che ogni mondo è possibile… praticandolo.
E il rugby è l’allegoria perfetta per tutto questo.
Un film straordinario che ti resta appiccicato addosso come un profumo suadente. Un film nobile che sa raccontare le cose esaltanti in maniera soffusa o le banalità quotidiane con humor quasi serioso.
Dispiace solo uscire dalla sala e rendersi conto che in Italia tre personaggi simili (Eastwood, Freeman/Mandela e Damon/Pienaar) siano impossibili da trovare, per un difetto culturale di fondo che proprio non vogliamo scardinarci. Guardate il film e fatevi questa banalissima domanda terra terra: quando mai in ufficio ho avuto un “capo” capace di rendersi conto dei propri limiti? Quando mai qualcuno si è preoccupato di sapere cosa fossi in realtà? Quando mai un leader italiano ha saputo guidare il paese andando oltre le convenzioni, le ipocrisie, comprendendo le ragioni delle minoranze e quietando l’entusiasmo della maggioranza? 
Invictus andrebbe proiettato nelle scuole, per insegnare ai ragazzi che è possibile essere persone per bene, che è possibile coltivare gli ideali, che è possibile costruire qualcosa di concreto anche grazie all’enfasi, allo spirito di squadra, all’onesto rispettare le regole, alla coerenza tra il nostro dire e il nostro fare…

22 febbraio 2010

amabili resti (per appunti e divagazioni)

Questo film si apre con uno dei brani più interessanti di tutta la discografia di Brian Eno: 1/1 dal sottovalutato Ambient 1: Music for Airports (gli appassionati riconosceranno tra i brani non originali anche la quasi frippiana Third Uncle da Taking Tiger Mountain By Strategy). E di questa atmosfera conserva moltissimi aspetti.
Forse non è un film eccellente, ma eccelle in molte cose, specie se teniamo conto che per mandare in frantumi il regno di Lucas e Spielberg, finora Peter Jackson aveva badato solo agli effetti e poco alla storia (in fondo il Signore degli anelli va avanti da solo).

A dispetto di quanto scrive David Denby sul New Yorker (qui in lingua e qui tradotto dai ragazzi di Internazionale) sia il libro che il film non sono un lavoro da "artigiani capaci e opportunisti". Come purtroppo si sa - si dovrebbe sapere (perlomeno tra giornalisti) - la Sebold fu veramente violentata, e Jackson è stato già ampiamente rivestito d'oro per mettersi poi lì a giochicchiare con un argomento così devastante come la pedofilia.


Ad un certo punto i tempi diventano il lato debole dell'intera operazione. Da metà film in poi è come se mancasse un'idea d'insieme: l'intera macchina narrativa tentenna, quasi sbanda, per poi riprendere percorsi diversi a volte incoerenti. Credo forse che la paura di descrivere male il male assoluto, il terrore di scendere nel banale in questa rappresentazione di limbo per anime incomplete, il rischio di diventare noioso o moralistico, abbiano costretto Jackson a continui ripensamenti di sceneggiatura. E il ritmo ne risente. Tanto che è in agguato un quasi triplo finale.


Facendo finta di non aver visto l'inutile pre-epilogo in stile Ghost tra la bimba defunta e il quasi ex fidanzato, va detto che non è una storia di fantasmi. O meglio: non come li intendiamo noi. I loro differenti mondi si sfiorano ma non si toccano, si intuiscono ma non si vedono, si cercano ma non si trovano. E in fondo è più un problema per la defunta che per i vivi, non solo per l'iniziale angoscia della sofferta consapevolezza di essere morta (resa perfettamente sia dall'attrice che dalla regia), ma perché non può far sapere chi sia l'autore dell'omicidio.


Più in generale, Jackson mette la tecnologia al puro servizio della storia, regalandoci momenti veramente incredibili, come quando il padre distrugge le navi in bottiglia e contemporaneamente lei le vede frantumarsi in quei fantomatici scogli, oppure quando l'ambiente reagisce visivamente all'intimità dei suoi stati d'animo più profondi.Certo l'alberello parabiblico disturbicchia (come anche il campo di grano in stile Ade da Gladiatore), ma l'insieme del mondo "altro" ha spessore, oltre che visiva maraviglia. Fa soffrire e sorridere, sperare e anche meditare... e un po' anche diverte, diciamolo.


E nel reale? Anche qui Jackson lavora abbastanza bene: non esagera con le situazioni standard che devono farti affezionare al personaggio e/o alla sua famiglia e/o alla vita da sogno che solo i fanciulli possono vivere. È tutto abbastanza equilibrato, per nulla borghese o leccato o da famiija de' poracci: sembra credibile e vero, proprio perché normale; e normale purtroppo è l'assedio del Male. La sequenza della violenza subita è una perla di rara eleganza e di misuratissima angoscia.


Senza scomodare Viale del tramonto e American beauty (per citarne due) da cui Jackson e la Sebold hanno preso l'idea di una trama che parte dalla fine, dove cioè sappiamo già chi morirà e seguiamo a ritroso gli eventi che hanno portato alla sua fine, di citazioni raffinate (su cui si indugia quel tanto che basta) ce ne sono, eccome: prima di concepire l'ultimo figlio, la sempre brava Rachel Weisz legge L'Exil et le royaume di Albert Camus, attuale e preziosa raccolta di racconti (tradotta in pellicola due anni fa).

La protagonista viene soprannominata Suzie Q, come l'omonima canzone resa famosa dai Creedence Clearwater Revival (e danzicchiata da un paio di ragazzine francesi dall'elicottero di Apocalypse now!).
E poi c'è l' immancabile Der Wanderer über dem Nebelmeer di Caspar David Friedrich (qui a destra) che campeggia su una parete della casa.
E come non dimenticare lo scespiriano Othello nell'allusa interpretazione cinematografica di Laurence Olivier...
Non credo che siano citazionismi saccenti o di converso buttati là; semplicemente fanno parte della storia, e magari artificiosamente dimostrano come Jackson abbia più ciccia in testa di quanto i suoi precedenti lavori non lasciassero intravedere.

Due cose sono certe: la prima, è un film da vedere; la seconda, tale è la rabbia che vi crescerà dentro contro la pedofilia, che all'uscita della sala vi verranno in mente cose terribili pur di punire questi bastardi.

E il bello è che il film non fa mai vedere nulla, quasi neanche intuire. La gaiezza di certe sequenze, l'innocenza di certi dialoghi, la totale assenza di simbolismi sessuali più o meno dissimulati, hanno - però e appunto - l'esatto effetto opposto: creano indignazione, rabbia e sofferenza per uno dei mali più ributtanti che un uomo possa mai concepire.


09 febbraio 2010

un discorso di pace

«Se questo era così destinato, che io, che primo mossi guerra al popolo romano, che tante volte ebbi quasi in mano la vittoria, proprio io per il primo venissi a domandare la pace, sono contento che il destino mi abbia tratto a domandarla proprio a te. Anche per te, fra tante tue insigni imprese, non sarà il minor titolo di gloria il fatto che Annibale, al quale gli Dei aveva n dato la vittoria su tanti duci romani, abbia ceduto a te, e che tu abbia posto termine a questa guerra, per le disfatte vostre più che per le nostre memoranda. E anche questo ludibrio della sorte avrà così voluto darmi il mio destino, che io, avendo preso le armi durante il consolato di tuo padre, e avendo trovato in lui il primo duce romano con cui venni a battaglia, al figlio di lui venga a chiedere, inerme, la pace. Ben sarebbe stato meglio se gli Dei avessero inspirato ai padri nostri questo consiglio, che voi vi foste appagati della signorìa d'Italia e noi di quella dell' Africa...
[...]
E noi due la trattiamo, noi ai quali sommamente importa che essa si concluda, noi che vedremo i nostri accordi, quali essi siano, ratificati dai nostri popoli. Soltanto in noi è necessario che sia spirito incline a sagge risoluzioni.
Quanto a me, ormai, l'età per cui torno vecchio nella patria da cui partii fanciullo, ormai le prospere e le avverse vicende mi hanno in tal modo ammaestra da farmi preferire la ragione alla fortuna; la tua giovinezza e i tuoi costanti successi, l'una e gli altri inspiranti maggior baldanza di quanta giova alle sagge risoluzioni, ecco quello che io temo. Difficilmente riflette su l'incertezza degli eventi chi non fu mai deluso dalla fortuna.
Quello che io fui al Trasimeno e a Canne, quello sei tu oggi. Te, in età appena valida per il primo servizio militare divenuto comandante supremo, te, accinto a tutto tentare con somma audacia, te la fortuna non ha abbandonato in nessun luogo. Partito per vendicare la morte del padre e dello zio, dalla sventura della vostra casa tu traesti un'insigne gloria di valore e di pietà eccezionali; ricuperasti le Spagne perdute cacciandone quattro eserciti punici; creato console, tu, quando agli altri mancava il coraggio per difendere l'Italia, passasti in Africa, e qui, distrutti due eserciti, presi e incendiati contemporaneamente due accampamenti, fatto prigioniero Siface re potentissimo, occupate tante città del suo regno e tante del nostro impero, me strappasti via dal possesso dell'Italia, che tenevo da ormai sedici anni.
Alla pace tu puoi preferire in cuor tuo la vittoria. Conosco anch'io codesti ardori, più grandi che utili; ed anche per me rifulse talvolta una simile fortuna. Ma, se nella prosperità gli Dei ci dessero anche il buon senso, non solo a quello che è avvenuto noi penseremmo bensÌ anche a quello che può avvenire. E anche se tu voglia non tener conto di tutti gli altri, ti sono io stesso un sufficiente testimonio delle più diverse fortune, io che, mentre or non è gran tempo, accampato fra l'Aniene e la vostra città, già ero accinto ad assalire e quasi a scalare le mura di Roma, e che ora tu vedi qui, orbato di due fratelli, valorosissimi uomini e insigni condottieri, davanti alle mura della mia patria quasi assediata, in atto di supplicare che le sciagure con cui io atterrii la città vostra siano risparmiate alla mia. Quanto maggiore è la fortuna tanto meno si deve in essa confidare; in condizioni buone per te, incerte per noi, la pace è magnifica e gloriosa per te che la dài, è necessaria piuttosto che onorevole per noi che la domandiamo.
Migliore e più sicura è una pace ben certa che una sperata vittoria; quella è in mano tua, questa in mano degli Dei. Non vorrai far getto della buona fortuna di tanti anni per il contrasto di una sola ora; da un lato considera le tue forze, dall'altro il potere della fortuna e la comune vicenda delle battaglie. Da entrambe le parti ferro, da entrambe ci saranno uomini; nella guerra meno che in qualsiasi altra vicenda l'evento corrisponde alla speranza. Non tanta gloria aggiungerai, vincendo, a quella che già puoi avere concludendo la pace, quanta ne perderesti se subissi qualche insuccesso.
Gli onori che già acquistasti, come quelli che speri, può annullarli la vicenda di una sola ora. Tutto è adesso in poter tuo, Publio Cornelio, per la conclusione della pace; dopo, sarà da accettare la sorte che avranno data gli Dei.
[...]
Non negherò che, per il modo non troppo sincero con cui fu recentemente domandata e aspettata da noi la pace, dubbia può essere per voi la fede punica. Ma, per la garanzia e il rispetto della pace, molto importa, o Scipione, da chi essa sia domandata. Anche i vostri senatori, come mi si riferisce, rifiutarono la pace perché non abbastanza autorevole era la nostra ambascerìa.
Ora io, Annibale, domando la pace, io che non la chiederei se non la giudicassi utile, e che la farò osservare per questa stessa utilità per la quale la chieggo. E come io feci ogni sforzo, fino a che non me lo impedirono gli Dei, perché nessuno si dovesse pentire della guerra da me intrapresa, cosÌ ogni sforzo farò perché nessuno si penta della pace promossa da me»

Tito Livio, Storia di Roma, Libro XXX, 29-31, trad di Guido Vitali - Zanichelli Editore, 1956

25 gennaio 2010

il reato di scrivere di Juan Rodolfo Wilcock

Juan Rodolfo Wilcock appartiene alla rara categoria di persone dotte, colte e... leggere.
Lo conobbi tramite Adelphi, quando cioè fece uscire pressoché contemporaneamente Lo stereoscopio dei solitari e La sinagoga degli iconoclasti, due fondamentali testi che non dovrebbero mancare nei vostri scaffali.
Grande amico di Borges e di Calvino, si trasferì in Italia alla fine degli anni '50, continuando a regalare delle perle letterarie di rara bellezza. I più avvertiti lo ricordano anche nella parte di Caifa nel Vangelo di Pasolini.
Ironia, intelligenza, arguzia... e un'ottima scrittura, sia nella lingua madre sia in quella nostra.
Wilcock era tra i pochi a rispettare le più banali regole d'italiano e a usarle per una letteratura comunque moderna, coraggiosa, ironica e anche sperimentale.
Non faceva come fanno tutti oggi, che non hanno voglia di approfondire e impongono lasche "regole" tanto per fare casino, ma perseguiva con affetto e devozione la bellezza delle due lingue cui sapeva di dovere rispetto e considerazione.
In questi giorni sempre Adelphi per la microcollana Biblioteca minima ha fatto uscire una sua collazione di brevi interventi per il Mondo pannunziano: Il reato di scrivere. Sono testi brevi, tosti, critici e divertenti, che si scagliano sapientemente e con competenza contro il mondo letterario. Sono cose scritte qualche lustro fa, ma che vi torneranno attuali e addirittura troppo generose.
Per capire meglio il tenore di buona parte dei suoi scritti, vi "regalo" questo breve racconto su due Amanti:
Harux y Harix han decidido no levantarse más de la cama: se aman locamente, y no pueden alejarse el uno del otro más de sesenta, setenta centímetros. Así que lo mejor es quedarse en la cama, lejos de los llamados del mundo. Está todavía el teléfono, en la mesa de luz, que a veces suena interrumpiendo sus abrazos: son los parientes que llaman para saber si todo anda bien. Pero también estas llamadas telefónicas familiares se hacen cada vez más raras y lacónicas. Los amantes se levantan solamente para ir al baño, y no siempre; la cama está toda desarreglada, las sábanas gastadas, pero ellos no se dan cuenta, cada uno inmerso en la ola azul de los ojos del otro, sus miembros místicamente entrelazados.

La primera semana se alimentaron de galletitas, de las que se habían provisto abundantemente. Como se terminaron las galletitas, ahora se comen entre ellos. Anestesiados por el deseo, se arrancan grandes pedazos de carne con los dientes, entre dos besos se devoran la nariz o el dedo meñique, se beben el uno al otro la sangre; después, saciados, hacen de nuevo el amor, como pueden, y se duermen para volver a comenzar cuando se despiertan. Han perdido la cuenta de los días y de las horas. No son lindos de ver, eso es cierto, ensangrentados, descuartizados, pegajosos; pero su amor está más allá de las convenciones.

20 novembre 2009

la parola artista

Nell'ormai lontano aprile di quest'anno avevo raccontato come mi fossi irritato al sentire un mio amico definirsi "artista". Implicitamente questo sacro termine l'aveva riferito anche a me. Per carità, scrivo, compongo musica, fotografo, lui dipinge; ma da qui a definirsi artisti ce ne vuole.
Personalmente non credo ci siano più artisti in giro da molto molto tempo. Ma non sono mai riuscito a concretizzarmi il perché di questa mia intuizione, sia mentalmente che in maniera comprensibile per gli altri.
Poi dal testo di Herzog che ho segnalato poco meno di un mese fa, ho letto una sua risposta (pagine 167-8) e ho capito tutto.

Detesto profondamente perfino il concetto di artista in quest'epoca. L'ultimo re dell'Egitto, Farouk, ormai in esilio e tremendamente obeso, mentre divorava una coscia d'agnello dopo l'altra, ha detto una cosa bellissima: «Ormai non ci sono più re al mondo, solo il re di cuori, il re di quadri, il re di picche e il re di fiori».
Il concetto stesso di artista è per certi versi anacronistico al giorno d'oggi. È rimasto un solo posto in cui si possono trovare artisti: il circo. Lì ci sono il trapezista, i giocolorie, persino l'artista del digiuno.
Il film non è analisi, è agitazione della mente; il cinema proviene dalla fiera del villaggio e dal circo, non dall'arte e dall'accedimismo. Penso davvero che nel mondo dei pittori, dei romanzieri e dei registi cinematografici non ci siano artisti. Si tratta di un concetto che appartiene a secoli passati, in cui c'erano cose come la virtù, i duelli con le pistole all'alba tra uomini innamorati e le fanciulle che svenivano sui divani.

Michelangelo, Caspar David Friedrich e Hercules Segers: questi sono artisti. L'«arte» è un concetto pienamente legittimo nelle loro epoche. Sono come gli imperatori e i re, che rimangono le figure decisive nella storia dell'umanità e la cui influenza è avvertita anche ai nostri giorni. Con le attuali monarchie non accade niente del genere.
Non sto parlando della morte dell'artista; credo soltanto che la creatività sia concepita in una prospettiva piuttosto datata e antiquata. Per questo detesto la parola «genio». Anch'essa è una parola che appariene a epoche passate e non alla nostra. Al giorno d'oggi è diventata un concetto malato.

[...]
L'espressione in sé e il concetto di cui essa è portatrice provengono dal tardo XVIII secolo e non sono adatti al nostro tempo.
[...]
Ho sempre pensato che un creatore non ha nessun rilievo intrinseco e questo vale anche per quanto concerne il mio lavoro.

26 novembre 2008

l'eretico

Ieri pomeriggio ho avuto l'ardire di seguire i consigli di Cucù Silvio, consumando 240 euro nell'acquisto di un iPod da 120 giga. È vero, professo il Lato Oscuro della Forza affidandomi a Windows, Job mi sta sulle scatole, il suo culto ancor più, ma l'iPod è meglio degli altri lettori mp3.
Cerco di metter ordine nella mia musiteca e ti becco questo pezzo di Morgan/Bluvertigo che non ricordavo più.
I testi fanno impressione, il brano pure.


Solo perchè non credo al mito del casto voto eterno, anzi
desidero ingozzarmi con il seme del peccato
Cristo a voi non appartiene lui, era troppo santo
quella notte insieme a voi con i chiodi in mano c'ero anch'io
E allora basta con giovani porci
rossi in faccia neri in testa, ricchi in tasca
Basta con giovani porci
rossi in faccia neri in testa, sporchi e basta
E poi mi dicono che sono L'ERETICO
io, l'epicureo
E poi mi dicono che sono L'ERETICO
io, l'epicureo
Solo perchè non mi professo detentore di chissà quale verità
Ma non per questo sono vuoto o privo di morale
Ho principi molto saldi, non prego per dolore
E' molto comodo invocarlo solo quando ci fa soffrire
E allora basta con giovani porci
rossi in faccia neri in testa, ricchi in tasca
Basta con giovani porci
rossi in faccia neri in testa, sporchi e basta
E poi mi dicono che sono L'ERETICO
io, l'epicureo
E poi mi dicono che sono L'ERETICO
io, l'epicureo
E poi mi dicono che sono L'ERETICO
io, l'epicureo
E poi mi dicono che sono L'ERETICO
io, l'epicureo
Ah, io, l'epicureo
Ah, io, l'epicureo
E poi mi dicono che sono L'ERETICO
io, l'epicureo

24 settembre 2007

il tramonto e un amore

Caro Alessandro, dato che me lo hai chiesto, ti mando un'altra cosa che avevo indegnamente messo giù nel lontano maggio 2003, durante quel periodo in cui – ti avevo detto – ero coinvolto...!!!!
Saluti

Andrea T.

INIZIO RACCONTO
Forse gli amori non corrisposti e tristi sono come chi guarda un tramonto: sa già cosa l'aspetta, quale sarà il verdetto finale di una legge inesorabile applicata milioni di volte. Eppure non può fare ameno di rimanere in attesa delle sfumature di colore, del fuoco rosso che - prima di trasformarsi in carezza - ancora si batte.
Il mio personaggio non sembra proprio "romanticamente rapito"; non cerca l'estasi con la nostalgia della purezza primordiale. Sembra piuttosto perplesso e poi si apre ad un sorriso. Furbo.
"Non si fa vita a forza di vivere", e neanche si smetterà di amare e desiderare. Certo che non conosce tutti i significati dell'amore, o cosa sia - una volta per tutte - questa strana iniziativa indipendente e rivoluzionaria dell'anima.
Il mio personaggio non ha la forza - direi, di fronte ad un simile tramonto - di decodificare l'imbarazzo di sentirsi umano; è solo curiosamente vicino ad un insieme di soluzioni. Una , fra tutte, lo fa proprio sorridere; ma non di quel sorriso amaro, da film. Chissà perché quando si conquista un granello di coscienza in più, ci si accorge di essersi tolti un altro mattone inutile da sopra la testa. Quel suo tramonto sarà visto da chissà quanti altri personaggi, tutti più o meno incapaci di parlare, quasi seri nel loro tentativo di sembrare più mistici. Tutti più o meno sopraffatti dalla emozione di dire c'ero anch'io.
Il mio personaggio sorride perché sa che il giorno dopo ne vedrà un altro: con queste cose non si scherza. Cambiano le combinazioni, le circostanze, e la somma dei colori darà sempre un tramonto unico.
Il mio personaggio, che vuole rimanere - per non essere disturbato - tra queste righe, vi invita a procedere allo stesso modo. Girate il foglio. Se lo vedete bianco, sedetevi e aspettate il vostro tramonto: quel sorriso vale la vostra pazienza. Se invece vedete già i caldi colori del tramonto, sedetevi, aspettate un po', e raccontate una nuova storia al vostro amore.
FINE RACCONTO

Avete conosciuto l'autore di questo testo durante le sue cronache dal Libano. Per mestiere fa tutt'altro. Ma quando leggo i suoi scritti o seguo i suoi ragionamenti (ma anche quando fa ridere - spesso fa ridere, per fortuna) scopro un raro lato profondo, che in pochi ho visto rappresentare.
Buona settimana


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