Uno specchio è la vitaRiconoscer sé stessiIn questo specchio riflessiÈ la cosa più ambita
Svanir deve la vitaE la rosa appassireSe vuoi vederla un dìGioiosa rifiorire
Uno specchio è la vitaRiconoscer sé stessiIn questo specchio riflessiÈ la cosa più ambita
Svanir deve la vitaE la rosa appassireSe vuoi vederla un dìGioiosa rifiorire
Alla seconda parte dell’ultima stagione di The Crown sembra mancare un perno narrativo, forse a causa dei ripetuti e continui strappi nella vita reale della famiglia reale (scusate…).
Se la direzione della fotografia continua ad essere meno
convincente degli elevati standard dimostrati nelle prime stagioni, il livello
di scrittura è sempre di qualità: tra i momenti gustosi, spiccano gli scambi
tra la Regina e un Tony Blair antipatico e borioso come nella realtà.
La scena in cui le componenti il Women's Institute lo
biasimano per il suo egocentrico parlare solo di politica, è preceduta da un
bellissimo brano cantato all’unisono da tutte le donne presenti: Jerusalem.
Il titolo originale è And did those feet in ancient time (1804), e fu scritto da William Blake come proemio del suo
poema Milton. La musica e
l’orchestrazione di Edward Elgar (da brividi) sono successive (1916), e lo resero
in pochissimo tempo uno dei brani più amati dagli inglesi in generale - e dalle
femministe in particolare (anche se è improprio definire “femminista” il WI).
Uno dei momenti più noti
recita:
Bring me my Bow of
burning gold / Bring me my Arrows of desire / Bring me my Spear: O clouds
unfold / Bring me my Chariot of fire!
Questo esaltante “carro di fuoco” ispirò scientemente il titolo originale del bellissimo film Momenti di gloria (1981), ambientato in parte a Saint Andrews (mirabile cittadina scozzese dove risiede anche l’Università frequentata dal Principe William).
Considerato che il film parla di Olimpiadi, la celebre colonna sonora - che contiene
anche Jerusalem -
fu (volutamente?) affidata a un greco, il compianto Vangelis, e fa venire
voglia di vincere, di divorare il mondo.
A latere (1): nella discografia di Vangelis, figura anche un
curioso LP intitolato Heaven
and Hell (1975), omaggio a un altro libro di William
Blake, The Marriage of
Heaven and Hell (1793), in cui si parla anche di doors of perception, allegoria
che ispirò ad Aldous Huxley il titolo della la sua autobiografia lisergica (1954), che a sua volta ispirerà Jim Morrison
per denominare il suo complesso The Doors (1965-1973).
A latere (2): nella
scaletta dei concerti di Emerson, Lake & Palmer figurava spesso una
versione di Jerusalem perlomeno audace
Oltre la notte che mi copre, nera
come nero il pozzo da cima a fondo,
per l’anima mia inviolata e altera
ringrazio ogni dio che esista al mondo
Nella selvaggia morsa degli eventi
io non ho disperato o barcollato.
Sotto la sorte e i suoi percuotimenti,
nel sangue, il capo Io non ho chinato
Oltre quest’inferno di pianto e d’ira
non v’è che delle tenebre l’Orrore.
Se pure contro me il tempo cospira
mi trova e troverà senza timore
L’impervia uscita non mi fa impressione,
né la spietata pena che mi sfida,
del mio destino io sono il padrone:
dell’anima mia io sono la guida
«Se questo era così destinato, che io, che primo mossi guerra al popolo romano, che tante volte ebbi quasi in mano la vittoria, proprio io per il primo venissi a domandare la pace, sono contento che il destino mi abbia tratto a domandarla proprio a te. Anche per te, fra tante tue insigni imprese, non sarà il minor titolo di gloria il fatto che Annibale, al quale gli Dei aveva n dato la vittoria su tanti duci romani, abbia ceduto a te, e che tu abbia posto termine a questa guerra, per le disfatte vostre più che per le nostre memoranda. E anche questo ludibrio della sorte avrà così voluto darmi il mio destino, che io, avendo preso le armi durante il consolato di tuo padre, e avendo trovato in lui il primo duce romano con cui venni a battaglia, al figlio di lui venga a chiedere, inerme, la pace. Ben sarebbe stato meglio se gli Dei avessero inspirato ai padri nostri questo consiglio, che voi vi foste appagati della signorìa d'Italia e noi di quella dell' Africa...
[...]
E noi due la trattiamo, noi ai quali sommamente importa che essa si concluda, noi che vedremo i nostri accordi, quali essi siano, ratificati dai nostri popoli. Soltanto in noi è necessario che sia spirito incline a sagge risoluzioni.
Quanto a me, ormai, l'età per cui torno vecchio nella patria da cui partii fanciullo, ormai le prospere e le avverse vicende mi hanno in tal modo ammaestra da farmi preferire la ragione alla fortuna; la tua giovinezza e i tuoi costanti successi, l'una e gli altri inspiranti maggior baldanza di quanta giova alle sagge risoluzioni, ecco quello che io temo. Difficilmente riflette su l'incertezza degli eventi chi non fu mai deluso dalla fortuna.
Quello che io fui al Trasimeno e a Canne, quello sei tu oggi. Te, in età appena valida per il primo servizio militare divenuto comandante supremo, te, accinto a tutto tentare con somma audacia, te la fortuna non ha abbandonato in nessun luogo. Partito per vendicare la morte del padre e dello zio, dalla sventura della vostra casa tu traesti un'insigne gloria di valore e di pietà eccezionali; ricuperasti le Spagne perdute cacciandone quattro eserciti punici; creato console, tu, quando agli altri mancava il coraggio per difendere l'Italia, passasti in Africa, e qui, distrutti due eserciti, presi e incendiati contemporaneamente due accampamenti, fatto prigioniero Siface re potentissimo, occupate tante città del suo regno e tante del nostro impero, me strappasti via dal possesso dell'Italia, che tenevo da ormai sedici anni.
Alla pace tu puoi preferire in cuor tuo la vittoria. Conosco anch'io codesti ardori, più grandi che utili; ed anche per me rifulse talvolta una simile fortuna. Ma, se nella prosperità gli Dei ci dessero anche il buon senso, non solo a quello che è avvenuto noi penseremmo bensÌ anche a quello che può avvenire. E anche se tu voglia non tener conto di tutti gli altri, ti sono io stesso un sufficiente testimonio delle più diverse fortune, io che, mentre or non è gran tempo, accampato fra l'Aniene e la vostra città, già ero accinto ad assalire e quasi a scalare le mura di Roma, e che ora tu vedi qui, orbato di due fratelli, valorosissimi uomini e insigni condottieri, davanti alle mura della mia patria quasi assediata, in atto di supplicare che le sciagure con cui io atterrii la città vostra siano risparmiate alla mia. Quanto maggiore è la fortuna tanto meno si deve in essa confidare; in condizioni buone per te, incerte per noi, la pace è magnifica e gloriosa per te che la dài, è necessaria piuttosto che onorevole per noi che la domandiamo.
Migliore e più sicura è una pace ben certa che una sperata vittoria; quella è in mano tua, questa in mano degli Dei. Non vorrai far getto della buona fortuna di tanti anni per il contrasto di una sola ora; da un lato considera le tue forze, dall'altro il potere della fortuna e la comune vicenda delle battaglie. Da entrambe le parti ferro, da entrambe ci saranno uomini; nella guerra meno che in qualsiasi altra vicenda l'evento corrisponde alla speranza. Non tanta gloria aggiungerai, vincendo, a quella che già puoi avere concludendo la pace, quanta ne perderesti se subissi qualche insuccesso.
Gli onori che già acquistasti, come quelli che speri, può annullarli la vicenda di una sola ora. Tutto è adesso in poter tuo, Publio Cornelio, per la conclusione della pace; dopo, sarà da accettare la sorte che avranno data gli Dei.
[...]
Non negherò che, per il modo non troppo sincero con cui fu recentemente domandata e aspettata da noi la pace, dubbia può essere per voi la fede punica. Ma, per la garanzia e il rispetto della pace, molto importa, o Scipione, da chi essa sia domandata. Anche i vostri senatori, come mi si riferisce, rifiutarono la pace perché non abbastanza autorevole era la nostra ambascerìa.
Ora io, Annibale, domando la pace, io che non la chiederei se non la giudicassi utile, e che la farò osservare per questa stessa utilità per la quale la chieggo. E come io feci ogni sforzo, fino a che non me lo impedirono gli Dei, perché nessuno si dovesse pentire della guerra da me intrapresa, cosÌ ogni sforzo farò perché nessuno si penta della pace promossa da me»
Harux y Harix han decidido no levantarse más de la cama: se aman locamente, y no pueden alejarse el uno del otro más de sesenta, setenta centímetros. Así que lo mejor es quedarse en la cama, lejos de los llamados del mundo. Está todavía el teléfono, en la mesa de luz, que a veces suena interrumpiendo sus abrazos: son los parientes que llaman para saber si todo anda bien. Pero también estas llamadas telefónicas familiares se hacen cada vez más raras y lacónicas. Los amantes se levantan solamente para ir al baño, y no siempre; la cama está toda desarreglada, las sábanas gastadas, pero ellos no se dan cuenta, cada uno inmerso en la ola azul de los ojos del otro, sus miembros místicamente entrelazados.
La primera semana se alimentaron de galletitas, de las que se habían provisto abundantemente. Como se terminaron las galletitas, ahora se comen entre ellos. Anestesiados por el deseo, se arrancan grandes pedazos de carne con los dientes, entre dos besos se devoran la nariz o el dedo meñique, se beben el uno al otro la sangre; después, saciados, hacen de nuevo el amor, como pueden, y se duermen para volver a comenzar cuando se despiertan. Han perdido la cuenta de los días y de las horas. No son lindos de ver, eso es cierto, ensangrentados, descuartizados, pegajosos; pero su amor está más allá de las convenciones.
Detesto profondamente perfino il concetto di artista in quest'epoca. L'ultimo re dell'Egitto, Farouk, ormai in esilio e tremendamente obeso, mentre divorava una coscia d'agnello dopo l'altra, ha detto una cosa bellissima: «Ormai non ci sono più re al mondo, solo il re di cuori, il re di quadri, il re di picche e il re di fiori».
Il concetto stesso di artista è per certi versi anacronistico al giorno d'oggi. È rimasto un solo posto in cui si possono trovare artisti: il circo. Lì ci sono il trapezista, i giocolorie, persino l'artista del digiuno.
Il film non è analisi, è agitazione della mente; il cinema proviene dalla fiera del villaggio e dal circo, non dall'arte e dall'accedimismo. Penso davvero che nel mondo dei pittori, dei romanzieri e dei registi cinematografici non ci siano artisti. Si tratta di un concetto che appartiene a secoli passati, in cui c'erano cose come la virtù, i duelli con le pistole all'alba tra uomini innamorati e le fanciulle che svenivano sui divani.
Michelangelo, Caspar David Friedrich e Hercules Segers: questi sono artisti. L'«arte» è un concetto pienamente legittimo nelle loro epoche. Sono come gli imperatori e i re, che rimangono le figure decisive nella storia dell'umanità e la cui influenza è avvertita anche ai nostri giorni. Con le attuali monarchie non accade niente del genere.
Non sto parlando della morte dell'artista; credo soltanto che la creatività sia concepita in una prospettiva piuttosto datata e antiquata. Per questo detesto la parola «genio». Anch'essa è una parola che appariene a epoche passate e non alla nostra. Al giorno d'oggi è diventata un concetto malato.
[...]
L'espressione in sé e il concetto di cui essa è portatrice provengono dal tardo XVIII secolo e non sono adatti al nostro tempo.
[...]
Ho sempre pensato che un creatore non ha nessun rilievo intrinseco e questo vale anche per quanto concerne il mio lavoro.