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19 dicembre 2013

L'autAintervista (parte seconda)

David Blue - Le musiche, parliamo delle musiche. Come mai hai segnato addirittura una colonna sonora per leggere l'ombra dietro al muro?

Alessandro Loppi - Non è proprio così... nel senso che l'ordine proposto non è relativo ai capitoli, ma semplicemente alfabetico. 
Per venire alla tua domanda: io non ho mai collegato un brano musicale a un evento preciso; le mie sorelle, sì, per esempio

DB - Cioè?

AL - Per mesi, una delle mie sorelle si accartocciava su un pezzo dei Pooh perché era la colonna sonora del suo amore... poi, quando si lasciavano, diventava il motivo della nostalgia, condito da lacrime amare... due palle (ride)

DB - E quindi?

AL - E quindi a me piace la musica. Punto. 
Ho usato certi brani perché cercavo un mood, un approccio, una sorta di ritmo che solo quello specifico brano sapeva darmi, senza però lasciarmi influenzare da quello che dice nel suo specifico o da quello che mi suscita in altre circostanze

DB - E David Sylvian che (ri)canta i Blonde Redhead?

AL - Quando vidi 28 giorni dopo (un ca-po-la-vo-ro) mi colpì l'inizio, quando il protagonista gira per una Londra abbandonata, e il commento musicale di John Murphy accompagna la sua inquietudine con un canone musicale per chitarra, basso e batteria - un canone quasi grunge, se vogliamo - molto ostinato ma anche molto semplice... ho cercato - e trovato - qualcosa di analogo: che non fosse però lo stesso brano; altrimenti, avrei subito l'approccio di Danny Boyle

DB - In effetti, la Messenger da te usata ha un non so che di ipnotico

AL - Già... la trovai per caso, girando dentro iTunes

DB - Passiamo ad altro: è vero che appena ingrani e la tua idea funziona, molli tutto e lo lasci in sospeso?


AL - Sì... considerato che quando parlo accade l'esatto contrario, quando scrivo (o quando componevo canzoni) tendo sempre a fermarmi appena mi accorgo che la cosa sta andando bene, molto bene. Altrimenti, se continuo, mi crogiolo sul successo e quindi lo ripeto, lo ribadisco, insisto a dire sempre le stesse cose... e rovino il risultato

DB - E come fai a ritrovare il bandolo quando torni sul pezzo?

AL - Riprendo il tutto dall'inizio, controllo se c'è coerenza o uniformità, e poi riparto da dove l'ho lasciato.
Non solo funziona, ma mi consente di ritrovarmi, e soprattutto di snidare eventuali sbavature e incongruenze

DB - Come fai a fermarti? Voglio dire: sei notoriamente un precisino perfezionista; quand'è che stabilisci l'esatto punto d'arrivo?

AL - Non esiste un punto d'arrivo, perlomeno dalla mia prospettiva. Spesso è l'insieme che mi suggerisce di fermarmi; più frequentemente, è la noia... se mi sto annoiando della situazione - o di me stesso - allora capisco che è arrivato il momento di dire basta, che va bene così... anche se non mi piace e non mi soddisferà mai

DB - Forse è per questo autolimite che non hai aggiunto i due capitoli che dici di avere sempre avuto in mente?

AL - Esatto... la parabola narrativa era arrivata alla sua fine precisa: incastonare i due capitoli che avevo in mente, significava far rimbalzare il tutto... avrei aggiunto un inutile di più che poi non mi sarebbe piaciuto, e che avrebbe distolto il lettore dallo scopo finale... cioè, e appunto, la fine del romanzo (come ho detto l'altra volta)

DB - Ecco perché non sopporti chi si chiede ci siano quelli là

AL - Infatti! Perché significa che non sono riuscito totalmente nel mio scopo. 
La realtà del romanzo, insomma, è un'altra: quelli là sono un pretesto, e nulla più

DB - Come mai hai depubblicato Cronache di un uomo a riposo

AL - Perché l'idea era buona, ma l'ho resa malissimo e senza pensare che se due capitoli isolati funzionano, non è detto che messi insieme raddoppino la propria forza. 
In più, ho strapeccato di presunzione, buttando dentro riferimenti inutilmente colti... un vizio molto italiano che critico negli altri e che ho invece praticato per primo

DB - Autocritica benvenuta ma curiosa, visto che poi sei un solitario, e sembri non curarti molto del giudizio altrui

AL - Sono due cose diverse... comunque, il mio solpsismo è stato in parte alimentato da un'attitudine evidentemente in nuce sin da bambino, in parte perché nessuno ha osato combattere e scoraggiare questa fame di dolore.
La colpa mia è stata di averlo foraggiato con una passione per la decadenza che è stata chiusa in un armadio solo grazie a mia moglie

DB - Non c'è pericolo che ritorni?

AL - E infatti fa un sacco di casino da quell'armadio... non la senti?

05 dicembre 2013

L'autAintervista (parte prima)

David Blue - Perché hai deciso di pubblicare il tuo romanzo anche su e-book?

Alessandro Loppi - Perché me l'ha consigliato mia moglie. Anzi, era tempo che insisteva, sbattendo però contro la mia riluttanza.

DB - E perché eri riluttante?

AL - Ho uno strano rapporto con la tecnologia: nonostante ne faccia parte, e nel mio piccolo stia contribuendo fattivamente alla sua esistenza, sono convinto che sia usata male e che ci stia portando in bruttissimi posti

DB - Pessimista o cosa?

AL - No, realista. Fare parte di questo sistema consente di capire molte cose; molte più di quanto non ne vengano dette/lette...

DB - Cosa ti aspetti da questa pubblicazione più immediata?

AL - Onestamente, poco o quasi nulla... nel senso che se il lettore si ferma alle prime pagine, rischia di trovarsi spaesato e di non voler andare oltre; e non credo che l'e-book modificherà quest'attitudine. 
Io credo nel lettore curioso, ma in tutta sincerità non conosco per nulla il mondo del selfpublishing; quindi, non saprei neanche immaginare cosa diamine potrebbe accadere

DB - E se tu dovessi riassumere la trama?

AL - Ecco, qui - proprio qui - mi dimostro incapace di essere seducente. Di primo acchitto, potrei fare il piacione, dicendo che è una dedica a mia moglie... 
... c'è chi l'ha definito un romanzo fantapoetico; mio scuocero si è sperticato in mille complimenti; un mio amico libraio l'ha etichettato come una vittoria contro la depressione...

DB - Quanto cinema c'è nel romanzo?

AL - Ah, tantissimo, anche non esistente... voglio dire che io immagino gli eventi come fossero riprese, inquadrature. Non riesco a farne a meno... anche quando parlo

DB - Eppure non sembra una sceneggiatura, né tantomeno credo sia fattibile in maniera così lineare com'è accaduto a cose tipo La strada di McCarthy

AL - Forse perché non so scrivere sceneggiature, e forse perché non c'ho pensato

DB - Eppure, la tua privacy sembra un pretesto

AL - Effettivamente, per me è facilissimo usare le mie esperienze per scrivere d'altro. 
Infatti, le persone che non mi conoscono e l'hanno letto, hanno dato definizioni ancor più disparate, addirittura non credendo che certi riferimenti fossero personali

DB - Roma sembra una protagonista quasi nascosta

AL - È uno scenario straordinario, specie d'ottobre o a maggio: ha luci e sapori unici. Certo, i romani per primi sembrano volerla umiliare: è un'antica polemica su cui non voglio soffermarmi, perché poi nel romanzo riesco a risolverla in qualche modo

DB - Effettivamente, prima dell'arrivo dei pericolosi quelli là, Roma è sporca e trasandata; quando arrivano loro, diventa linda e vivibile... come mai?

AL - È un gioco al paradosso che mi diverto spesso a fare anche quando parlo di cose stupide

DB - Se tu dovessi indicare un punto di svolta nel romanzo, quale pensi che sia?

AL - Il finale... se il lettore lo legge bene, si rende conto che ho detto qualcosa di molto forte, proprio all'ultima riga. 
Anzi, mi viene da pensare che io abbia scritto una sorta di premessa a un qualcosa che poi maturerà nell'immaginazione del lettore... o almeno lo spero

DB - Cosa rispondi a chi ti dice "è solo fantascienza"?

AL - Innanzitutto non lo è... altrimenti mia moglie non l'avrebbe neanche aperto (ride)
Generalmente, chi lo dice non ha mai letto la fantascienza e/o comunque la relega in uno scantinato che puzza di disprezzo. 
Insomma, tra Heinlein e Saramago o tra Matheson e Camus c'è solo il buon scrivere, il concettualizzare a fondo: ma le idee, lo sfondo, i pretesti, sono identici
Anzi. Mentre Saramago e Camus dovevano rendere conto anche alla propria immagine, alla propria aura, Heinlein e Matheson puntavano dritti allo sviluppo dell'idea, fregandosene dei salotti americani.
Senza Matheson, metà della fiction degli ultimi 50 anni non sarebbe mai esistita. C'è Matheson anche in Mad Men o in 24 o nei Soprano...

DB - Quindi la tua è fantascienza?

AL - No, assolutamente no (ride)... è che non ho i tempi per saper prolungare alcuni stilemi fantascientifici (vedi che parlo difficile anche io?), ma soprattutto a me interessava arrivare al finale, in un modo ben preciso

DB - Vuoi dirmi che hai scritto prima il finale?

AL - Sì, ci ho pensato per due anni, ogni giorno e ogni ora: poi ho scritto quelle dodici righe in 30 secondi... come il pittore giapponese nelle lezioni di Calvino (ride)

DB - Poi hai costruito tutto il resto

AL - Sì. In quelle dodici righe c'era un ritmo ben preciso che mi ha convinto - quasi obbligato - a strutturare il romanzo in sette capitoli di sette pagine ognuna

DB - Però è leggermente più lungo, di poco

AL - Colpa del sistema de ilmiolibro che ha rimesso mani alla configurazione... meglio così: almeno ci faccio una bella figura, no?

DB - Tra qualche giorno mi racconti come mai hai indicato una sorta di colonna sonora e anche tutte quelle comparse che però... non compaiono mai?

AL - Alla prossima, dài

 

25 aprile 2012

il primo uomo è di Camus, non di Amelio

La memoria dei poveri è sempre più denutrita di quella dei ricchi, hanno meno punti di riferimento sia nello spazio, poiché lasciano di rado il luogo in cui vivono, sia nel tempo di una vita grigia e uniforme. Certo c'è la memoria del cuore, e dicono che sia la più sicura, ma il cuore si logora con le sofferenze e il lavoro, e dimentica più in fretta sotto il peso delle fatiche. Il tempo perduto è ricuperabile solo dai ricchi. Per i poveri restano soltanto le orme vaghe del cammino della morte. E poi, per poter sopportare, non bisogna ricordare troppo, bisogna stare appiccicati ai giorni, ora per ora...
Ora, e ovviamente, questo non è il solo perno su cui ruota il bellissimo romanzo di Camus (erroneamente ritenuto "incompiuto"; in realtà il nostro doveva solo rimaneggiarlo), però è uno spunto utile ed interessante per cercare di dirvi dove voglio arrivare.
Io credo che Amelio sia un buon regista, e che il suo buon Ladro di bambini (secondo solo a Colpire al cuore) alla lunga sia risultato scarso solo per colpa del terrificante Lo Verso, veramente un pessimo attore.
Credo anche che non sia tra i favoriti dalle conventicole: quello che fa è quello che è, e caratterialmente non sembra godere o gongolare di questa micidiale critica italiota veramente incompetente e scoraggiante (che poi anche una "e" al posto di una specifica "a" non ci starebbe tanto male).
Certo, qui Amelio punta anche sul Camus politico (andando a ricicciare la sua contraddittoria indole anticolonialista ma non antifrancese), attitudine da "cinema impegnato" tanto cara alle zecche nostrane: ma è una scelta rischiosa e blandamente insistita che lascia il tempo che trova.
Però, se una persona così garbata e di mestiere prova ad avventurarsi dentro il mondo fascinoso di Camus, deve forzatamente abbandonare qualcosa del cinemismo italico. Intendiamoci, NON si può e NON SI DEVE valutare un film dal libro da cui è tratto (e viceversa): resta, però, necessario restituire un mood, un sentore, un qualcosa che nel riferimento originario era essenziale e/o oggettivamente nodale. Del resto, Il paziente inglese di Minghella si basava su pochissime righe del corposo e omonimo romanzo di Michael Ondaatje: quindi, il busillis non sussiste.
Il problema sta nel fatto che Amelio ha raccontato un Camus frammentato, distante e incongruo rispetto a quel maraviglioso nonsoché che si legge nel romanzo. Sì, possiamo pure accettare che ne abbia stravolto alcune scansioni temporali (il libro inizia con il parto, che nel film, invece, apre alla conclusione... e cose simili), ma perdere quell'esprit, quel mettere al muro il lettore ed accarezzarlo con la terrificante quotidianità della vita, quel sapore di vero ed autentico che permea ogni singola scelta lessicale, quel delizioso giocare con la nostalgia ("che spesso non distingue", come diceva Rilke), quel rendere le cose per come sono senza ricattare il lettore con sentimentalismi da oviesse... insomma, Amelio ha creduto che anche il solo rappresentare il romanzo potesse restituire il sudore, le lacrime e i sorrisi di Camus.
Insomma, e alla fine, non è il migliore Amelio, e non è Il primo uomo di Camus.
Potete vederlo giusto per dire che il cinema italiano ha questi colpi di dignità: ma il voto finale resta scarsetto... e comunque in lingua originale; doppiato è quasi irritante... dopo che sarete usciti dal cinema, rileggete le righe che vi ho proposto in apertura: secondo voi, avete percepito lo stesso sapore?

18 ottobre 2011

la perdita del "no" #15ott #15oct

Forse ai meno appassionati è sfuggito un elemento nodale del film L'alba del pianeta delle scimmie: mentre, infatti, nel franchising classico era vietato anche e solo pensarla, qui la parola NO diventa la prima parola proferita dalle scimmie, il primo simbolo convincente di un'intelligenza ormai raggiunta.
Se nei precedenti quattro episodi cinematografici, insomma, il NO era il simbolo del potere umano contro le scimmie, per mortificarle e sottometterle, in questa sorta di reboot, il NO diventa il simbolo della pietas scimmiesca: Cesare, il leader, dice NO ogni qualvolta si presenti ai suoi simili la possibilità di uccidere o causare dolore agli umani; quello stesso dolore da lui subito e osservato.
Magari è solo un espediente di sceneggiatura, magari una furbata provocatoria, non potremo saperlo mai. Quello che però resta è il ribaltamento di una condizione essenziale del rapporto tra entità intelligenti: porsi dei limiti, porre dei limiti.
La enorme differenza tra bestie-e-basta e bestie-intelligenti sta nel fatto che le prime sopravvivono, le seconde vivono: hanno, insomma, superato quel limite apparentemente insormontabile che gli animali subiscono per tutelare se stessi e il proprio futuro. Chi sopravvive ha poca possibilità di pensare, di ragionare, di fare arte, di comunicare, di imparare cose "inutili" (viene in mente l'incipit di Wilde, "tutta l'arte è perfettamente inutile"). Chi vive, quindi, può andare oltre le necessità, e regolare la propria vita anche attraverso la consapevolezza dell'esistenza, della coscienza di sé.
Per far sì, quindi, che le bestie-intelligenti possano superare questo apparente caos indeterministico è necessario un passaggio successivo: porre delle regole alla consistenza sociale, altrimenti si ritorna bestie. Non ci sta niente da fare: o strutturiamo le regole della nostra esistenza, o si ritorna indietro. E più è sofisticato e complesso il nostro esistere, e più dovranno essere complesse le regole.
Certo, con questa scusa è facile scadere nel dittatorismo e nell'imposizione. Sta ad ogni nucleo della società trovare il giusto equilibrio tra il limite necessario e quello inventato. Ma quando i due livelli si confondono, si contaminano, si rappresentano senza essere praticati, ecco che viene fuori la società italiana attuale.
In questo, Gesù propose la bellissima sentenza "il tuo sì, sia sì; il tuo no, no; il resto è del demonio". Forse la traduzione è sbagliata, perché per i greci antichi il "demonio" altri non era che la parte meno razionale dell'esistente. Però quello che resta è il significato immediato di questa frase, con tutti i suoi annessi.
Da noi manca il senso del NO nella sua forma più convincente, perché convincenti non sono gli attori della società. Dai politici di ogni segmento agli intellettuali, passando per i genitori e i tutori delle regole, è un continuo viavai di eccezioni, di distinguo, di giocare sulle parole.
Camus diceva che l'aspirazione di una rivoluzione è imporre comunque altre regole, altre visioni: dobbiamo, quindi, metterci d'accordo su cosa vogliamo rappresentare e come sappiamo rappresentarci. Se vogliamo ricalcare i (ne)fasti del passato, tanto vale attendere altre barricate e altri scontri; se vogliamo, invece, costruire un futuro migliore, dobbiamo anche saper riportare la parola NO dentro le nostre case e dentro la nostra società.
Altrimenti, perdiamo tutto.

04 aprile 2010

lo straniero

Niente a che vedere con l'omonimo capolavoro letterario di Camus, Lo Straniero racconta la caccia ad un ex criminale nazista (Orson Welles che ne è anche regista, dopo l'obbligato diniego di John Huston, che comunque ne scrisse anonimamente buona parte della sceneggiatura) che vive nel comodo anonimato di una banale cittadina americana. Aggiusta orologi antichi a tempo perso, ed è sposato con un'ottima Loretta Young, qui sempre sul punto di svenire.
Chi lo scopre è il sempre bravissimo Edward G. Robinson (anche se Welles dirà poi che avrebbe preferito una più convincente "zitella", magari interpretata da Agnes "Endora" Moorehead) che per incastrarlo sottopone alla donna la visione di un documentario sui campi di sterminio. Convinta da tanto scempio, aiuterà i buoni a catturare il marito.
Gran finale con la famosissima sequenza degli orologi, il cui perno fobico tornerà nella scena degli specchi della Signora di Shangai (quella citata anche da Woody Allen, per intenderci), per un'opera che va ricordata soprattutto perché è la prima volta che in un film "commerciale" si vedono le immagini della Shoah (nel 1966, poi, partecipando alle riprese di Parigi brucia?, Welles conoscerà di persona alcuni deportati superstiti).

22 febbraio 2010

amabili resti (per appunti e divagazioni)

Questo film si apre con uno dei brani più interessanti di tutta la discografia di Brian Eno: 1/1 dal sottovalutato Ambient 1: Music for Airports (gli appassionati riconosceranno tra i brani non originali anche la quasi frippiana Third Uncle da Taking Tiger Mountain By Strategy). E di questa atmosfera conserva moltissimi aspetti.
Forse non è un film eccellente, ma eccelle in molte cose, specie se teniamo conto che per mandare in frantumi il regno di Lucas e Spielberg, finora Peter Jackson aveva badato solo agli effetti e poco alla storia (in fondo il Signore degli anelli va avanti da solo).

A dispetto di quanto scrive David Denby sul New Yorker (qui in lingua e qui tradotto dai ragazzi di Internazionale) sia il libro che il film non sono un lavoro da "artigiani capaci e opportunisti". Come purtroppo si sa - si dovrebbe sapere (perlomeno tra giornalisti) - la Sebold fu veramente violentata, e Jackson è stato già ampiamente rivestito d'oro per mettersi poi lì a giochicchiare con un argomento così devastante come la pedofilia.


Ad un certo punto i tempi diventano il lato debole dell'intera operazione. Da metà film in poi è come se mancasse un'idea d'insieme: l'intera macchina narrativa tentenna, quasi sbanda, per poi riprendere percorsi diversi a volte incoerenti. Credo forse che la paura di descrivere male il male assoluto, il terrore di scendere nel banale in questa rappresentazione di limbo per anime incomplete, il rischio di diventare noioso o moralistico, abbiano costretto Jackson a continui ripensamenti di sceneggiatura. E il ritmo ne risente. Tanto che è in agguato un quasi triplo finale.


Facendo finta di non aver visto l'inutile pre-epilogo in stile Ghost tra la bimba defunta e il quasi ex fidanzato, va detto che non è una storia di fantasmi. O meglio: non come li intendiamo noi. I loro differenti mondi si sfiorano ma non si toccano, si intuiscono ma non si vedono, si cercano ma non si trovano. E in fondo è più un problema per la defunta che per i vivi, non solo per l'iniziale angoscia della sofferta consapevolezza di essere morta (resa perfettamente sia dall'attrice che dalla regia), ma perché non può far sapere chi sia l'autore dell'omicidio.


Più in generale, Jackson mette la tecnologia al puro servizio della storia, regalandoci momenti veramente incredibili, come quando il padre distrugge le navi in bottiglia e contemporaneamente lei le vede frantumarsi in quei fantomatici scogli, oppure quando l'ambiente reagisce visivamente all'intimità dei suoi stati d'animo più profondi.Certo l'alberello parabiblico disturbicchia (come anche il campo di grano in stile Ade da Gladiatore), ma l'insieme del mondo "altro" ha spessore, oltre che visiva maraviglia. Fa soffrire e sorridere, sperare e anche meditare... e un po' anche diverte, diciamolo.


E nel reale? Anche qui Jackson lavora abbastanza bene: non esagera con le situazioni standard che devono farti affezionare al personaggio e/o alla sua famiglia e/o alla vita da sogno che solo i fanciulli possono vivere. È tutto abbastanza equilibrato, per nulla borghese o leccato o da famiija de' poracci: sembra credibile e vero, proprio perché normale; e normale purtroppo è l'assedio del Male. La sequenza della violenza subita è una perla di rara eleganza e di misuratissima angoscia.


Senza scomodare Viale del tramonto e American beauty (per citarne due) da cui Jackson e la Sebold hanno preso l'idea di una trama che parte dalla fine, dove cioè sappiamo già chi morirà e seguiamo a ritroso gli eventi che hanno portato alla sua fine, di citazioni raffinate (su cui si indugia quel tanto che basta) ce ne sono, eccome: prima di concepire l'ultimo figlio, la sempre brava Rachel Weisz legge L'Exil et le royaume di Albert Camus, attuale e preziosa raccolta di racconti (tradotta in pellicola due anni fa).

La protagonista viene soprannominata Suzie Q, come l'omonima canzone resa famosa dai Creedence Clearwater Revival (e danzicchiata da un paio di ragazzine francesi dall'elicottero di Apocalypse now!).
E poi c'è l' immancabile Der Wanderer über dem Nebelmeer di Caspar David Friedrich (qui a destra) che campeggia su una parete della casa.
E come non dimenticare lo scespiriano Othello nell'allusa interpretazione cinematografica di Laurence Olivier...
Non credo che siano citazionismi saccenti o di converso buttati là; semplicemente fanno parte della storia, e magari artificiosamente dimostrano come Jackson abbia più ciccia in testa di quanto i suoi precedenti lavori non lasciassero intravedere.

Due cose sono certe: la prima, è un film da vedere; la seconda, tale è la rabbia che vi crescerà dentro contro la pedofilia, che all'uscita della sala vi verranno in mente cose terribili pur di punire questi bastardi.

E il bello è che il film non fa mai vedere nulla, quasi neanche intuire. La gaiezza di certe sequenze, l'innocenza di certi dialoghi, la totale assenza di simbolismi sessuali più o meno dissimulati, hanno - però e appunto - l'esatto effetto opposto: creano indignazione, rabbia e sofferenza per uno dei mali più ributtanti che un uomo possa mai concepire.


30 novembre 2007

tassisti e buoi
dei paesi tuoi

I post su commissione sono stimolanti e impegnativi al tempo stesso: mentre Benigni mi deliziava col suo irrefrenabile Quinto Canto dantesco, Andrea D. mi manda un sms chiedendomi un post sui tassisti nostrani.
Be', innanzitutto la parola taxi mi rimanda irrimediabilmente a Rilke, uno dei miei poeti preferiti. Le sue mirabili elegie duinesi furono intarsiate durante i soggiorni in quel della magione di Duino, di proprietà della principessa Marie Hohenlohe von Thurn und Taxis. Non ci vuole un genio per intuire che i tassisti di tutto il pianeta prendono il nome da una felice intuizione di quei nobili, ancor oggi una delle casate più raffinate e ammirate d'Europa.
Già, che noi invece li chiamiamo tassinari perché spesso sa più di insulto classista che di riconoscimento professionale. Non voglio fare la mia solita polemica trasversale contro i vari sofrimillescalfarotti, perché tanto non sortisce l'effetto voluto/dovuto: ho notato, però, che nessuno di questi accoliti veltroniani ha speso una parola una su come Valter stia permettendo a questi figuri di comportarsi come si comportano. Se siamo arrivati all'assedio fascistoide è perché finora Veltroni si è dimostrato non credibile. Silenzio per malafede, ipocrisia o censura? Fate voi.
Arrivate a Fiumicino e venite accolti da loschi figuri che impongono cifre scandalose. Alla Stazione Termini è ancor peggio... eppoi fumano, blaterano contro tutto e contro tutti, non rispettano il codice della strada. E dire che hanno sulle portiere il simbolo del Comune di Roma (dico: Roma!).
Ricordate Il collezionista di ossa, film che fece conoscere ai più le michelin di Angelina Jolie? In una scena di raccordo, un tassista taglia impercettibilmente la strada a un'auto. Immediatamente gli si accosta un tipo col tesserino comunale per multarlo; una sorta di poliziotto dei tassisti. Poi si scopre che l'altro è l'assassino... ma l'idea culturale resta, e fa impressione. A New York, infatti, i tassisti rispettano le regole in maniera direi paranoica. Non rompono le scatole coi loro deliri, rilasciano la ricevuta fiscale senza che tu debba chiedergliela; fantascienza forse, ma New York è mille volte più grande di Roma, quindi certi giustificazionismi sinistrorsi nostrani sono indecenti.
Ad Amsterdam era saltata la corrente elettrica: il trenino per l'aeroporto non poteva partire. Nel giro di pochi minuti, decine di taxi hanno prelevato gli appiedati per portarli di corsa alla mèta. Sempre rispettando i limiti di velocità, le strisce pedonali e... il tariffario, visibile e vincolato.
Ad Anversa un tipo silmil Camus si è prodigato a spiegarci i posti più attraenti e quelli più pericolosi dell'intera città. Nessuna ricevuta, ma il tarrifario è regolarmente segnalato da un cartellone grande così dentro la splendida stazione ferroviaria.
A Barbados le cifre/tragitto sono regolamentate da tabelle governative. L'isola è microscopica, non puoi metterti certo a fare il furbacchione. Va detto che anche a Roma ci sarebbero cifre/base su alcuni tragitti ben precisi. Inutile chiedersi quanto vengano rispettate.
A Barcellona il servizio è sobrio, senza pretese, ma preciso e puntuale. Diciamo che litigano col codice della strada, ma quel poco che basta. Comunque impongono tariffe bassissime.
Da Bergen dovevo andare in un hotel disperso tra i boschi norvegesi. Prima di servirmi, il tassista mi ha indicato la cifra approssimativa e la durata del tragitto (così eventualmente potevo prendere il pullmann), offendendosi quando gli ho chiesto se mi avrebbe rilasciato la ricevuta per il mio ufficio. Lì è cosa naturale, con tanto di segnalazione scritta del tragitto e delle aree tariffarie.
A Berlino, codice della strada puntigliosamente rispettato, perfetto inglese, cortesia di circostanza ma ineccepibile.
A Dublino il tipo quasi si scusò per aver rivolto la parola a me e mia moglie. Il bello è che non si è mai permesso di guardarla o di rivolgersi direttamente a lei; passava sempre per il mio sguardo. Uomo di popolo, ma attento al suo ruolo istituzionale.
Nell'alto Egitto (che poi è nel sud, lo sapete) sono gli stessi tassisti ad autotutelarsi, limitando lo spazio ai furbi e agli illegali.
In Kenia i tassisti cattivelli vengono filtrati. A meno che uno non sia un imbecille, è pressoché impossibile farsi raggirare, perlomeno all'uscita dell'aeroporto.
A Lisbona il tassista ci ha portati in loco senza fiatare, guidando civilmente e depositandoci esattamente all'entrata del nostro settore. Ricevuta fiscale e sorriso sbiadito.
A Miami i quattro taxi che abbiamo preso si son comportati egregiamente, rilasciando ricevuta fiscale e abbassando la musica senza che noi lo chiedessimo.
A Toronto nessun problema di sorta. Tassisti discreti e attenti, osservano meticolosamente il codice della strada, tariffario rispettato e nessuna confidenza.
Vi dirò, a Creta ho incontrato l'unico tassinaro veramente cretino: guidava con le ginocchia, contromano in curva, a 130 km orari, agitando il telefonino e guardando dallo specchietto le scollature della mia signora e della sorella... sembrava di stare a Roma.

15 novembre 2007

diverso ad ogni costo

I due principi enunciati qui a destra sono di un uomo di colore e di un omosessuale. La piattaforma che ospita questo blog nasce dall'intuizione di un ebreo. Le prime idee sulla programmazione appartengono a una donna dell'800.
Le mie origini vanno divise in quattro: da parte di mio padre, il cognome può essere riferito o ad antiche origini marrano/spagnole/ebraiche oppure a recondite origini slave; da parte di mia madre, metà è siciliana - con sensibili influssi arabi e svevi, l'altra metà può tranquillamente reputarsi romana.
I miei scrittori preferiti sono un inglese bisessuale (Byron), un alcolizzato fanfarone (Hemingway), un portoghese impotente (Pessoa), un mercenario greco (Senofonte), un giapponese ultranazionalista nonché morto suicida (Mishima), un tossicodipendente uxoricida (Burroughs), un buddista anarchico (Salinger), un fascista convinto (Celine) e un comunista intelligente (Camus)... e altri simpatici amici che ora non ricordo.
Ascolto musiche di vario genere: il rock, strumento del demonio per eccellenza; il jazz, anarchico ed individualista; la classica, il canone ormai per pochi eletti; la contemporanea, la logica dei furbi.
I miei registi preferiti sono o ebrei, o gay o conservatori.
Il mio cellulare è finlandese, il mio pc è taiwanese, la mia macchina fotografica è giapponese con lenti tedesche, le mie scarpe spagnole, il mio cappotto newyorchese, parte dei miei orologi svizzera, magliette cinesi...
La mia donna di servizio moldava, l'operaio di fiducia polacco, il commercialista e l'avvocato romanisti, il cognato napoletano, l'unico amico non gay è laziale... e una moglie femminista, anarchica, in carriera, con un cuore e due occhi verdi grandi così.
Insomma: sono un maschio italiano eterosessuale di sinistra - ahimé persino cresimato - di razza bianca, puramente doc. Qualcosa da ridire?



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