È ormai la sesta edizione che mi vede tra i fedeli spettatori della versione invernale di Umbria Jazz Winter.
Rispetto a quella estiva - più famosa e più antica - soffre di almeno due limiti oggettivi: il periodo, notoriamente breve e forzatamente dedicato ai propri affetti; la collocazione, tutt'altro che agevole, penalizzata peraltro da un'accoglienza limitata e limitante.
In più, non passa anno in cui non si parli di difficoltà economiche, nonostante poi successivamente vengano sempre vantati dei sold-out pressoché totali (anche se io ho l'impressione che siano mischiati turisti occasionali con gli spettatori veri e propri).
Certo, il cartellone sembra soffrire sempre più di qualità, ma all'apparenza: al di là dei gusti, e delle performance, infatti, i nomi di grido e quelli di nicchia non sono mancati.
Però quest'anno troppe performance hanno lasciato a desiderare.
Quelle al Teatro Mancinelli, poi, hanno tutte sofferto anche di un mixer tutt'altro che professionale: musica impastata, strumenti primari quasi inascoltabili, equalizzazione delle percussioni non all'altezza del blasone.
Ma procediamo con ordine.
Il duo Danilo Rea e Gino Paoli non ha mai avuto nulla a che vedere con il jazz. Attenzione, non sto parlando di una mia personale idea di jazz: da sempre, Rea e Paoli fanno i gigioni, alla ricerca dell'applauso facile e di un pubblico più poppeggiante che jazzistico.
Per carità, non ci sta niente di male, anzi. Però - qui a Orvieto - da Danilo Rea mi aspettavo più rispetto per la sua figura. Poche note, ma giuste, diamine!
E, invece, ha vorticosamente girato le fettuccine sui tasti bianconeri, sciorinando quei quattro soliti e prevedibili trick che vent'anni fa erano innovativi, ma che oggi sanno solo di stanca ripetizione di se stessi. Lo accetto da Allevi, ma non da Danilo Rea.
Si è salvato giusto Flavio Boltro, guest in un paio di pezzi, sempre capace di prendere affettuosamente per i fondelli la sua tromba, limitata ma audace e sorniona.
Jason Moran ha proposto un Monk inutile, cerebrale e borioso, quale invece non era il grandissimo pianista. Troppi intellettualismi stucchevoli e appiccicati, accompagnati peraltro da una sorta di installazione risicata e ripetuta più volte, che se soffrivi di epilessia rischiavi veramente brutto.
Marc Ribot ha fatto un casino con un suo modo molto arrogante di raccontare l'armolodia di Coleman, penalizzando i già timidi Young Philadelphians con un uso strafottente e ostinato del wha wha, per oltre un'ora di bordello sonoro; tanto che tre quarti di Teatro è scappato via a gambe levate dopo soli dieci minuti di fracasso.
Da chi ha nobilitato David Sylvian, Tom Waits e Vinicio Capossela, mi aspettavo più rispetto per se stesso, per il pubblico e anche per i giovani musicisti coinvolti.
Il Merry Christmas Quartet di Fabrizio Bosso ha fatto la sua striminzita performance con l'aiuto di una voce senza mantice ed estensione (quella di Walter Ricci). Scaletta già dimenticata per un live veramente deludente. Certo, Bosso è dio, Mazzariello è il suo profeta, ma la scelta dei brani è stata micidiale.
Sul trio Guidi, Bearzatti, Rabbia non riesco a pronunciarmi più di tanto. Il pianismo di Guidi è acquoso di suo, contrapposto al batterismo di Rabbia decisamente più professionale. Quando entravano nel jazz mainstream riuscivano bene (troppo ECM, va detto); ma quando hanno abbozzato un free jazz di maniera, mi è venuta voglia di scappare.
Si sono salvati: la bella lettura di Joni Mitchell da parte di di De Vito, Pietropaoli e Mazzariello e la brava e promettente Jazzmeia Horn (teniamola d'occhio!).
Però è stato troppo poco.
Oltretutto gli organizzatori insistono nel dire che quello invernale è sempre stato un Umbria Jazz per "addetti ai lavori". Cosa diamine voglia dire, è un mistero. Resta il fatto che anche e solo l'elenco dei nomi presentati dimostra una volontà di essere invece eterogenei e curiosi.
La vera domanda da porsi, invece, è un'altra: come mai il livello è stato complessivamente così basso?
A parte le due benvenute eccezioni, perché la qualità di Umbria Jazz 25 è stato così bassa e precaria?
Non ho la risposta, ovviamente; anche se temo che la visione dei due estremi (Rea da una parte e Moran dall'altra) lasci intravedere un'italica volontà di mantenere separati due mondi (jazz banana e jazz colto) che nel significato stesso del jazz non dovrebbero nemmeno essere ipotizzati.
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09 gennaio 2018
Umbria Jazz Winter #UJW25, poche luci, molte ombre (con affetto)
29 dicembre 2017
a #UJW25 la Joni Mitchell di De Vito, Mazzariello e Pietropaoli (una recensione)
Difficile entrare nel mondo di Joni Mitchell senza
commettere imperfezioni, perché la cantante canadese ha il rarissimo pregio di
aver composto canzoni bellissime che comunque funzionano, ma che funzionano
soprattutto grazie allo spessore di cristallo della sua voce. E se provi a
uscirne troppo, rischi di comprometterne il tessuto melodico; se provi, invece,
a starci dentro ma senza scimmiottarla, rischi di cadere nel baratro della
presunzione.
Eppure c’è chi ha avuto l’ardire di provarci, questo
quasi-gelido venerdì di fine anno a Orvieto, in un’edizione di Umbria Jazz altrimenti
arida di emozioni: Maria Pia De Vito, con la sua voce sempre pastosa, in
costante conflitto con la passione e la professionalità (e che in questo caso
ha sortito ottimi risultati); Juan Olivier Mazzariello, il cui pianismo ha la
rara dote di dire poche cose ma sempre giuste, che sa rispettare la musica, il
pubblico e i suoi compagni d’arme; Enzo Pietropaoli, non solo bassista e non
solo musicista, che nonostante abbia compiuto secoli di età, mantiene vivo l’entusiasmo
del bambino insieme al rigore del grande sapiente.
Apre le danze la dolce cantilena di Amelia, con quel giro di
accordi che Pat Metheny poi ridisegnò nel live Shadows & Lights, da cui ormai
riesce difficile uscire. E quando la tua memoria-in-automatico si aspetta quei
pizzichi di chitarra fluida, Mazzariello sfodera un prezioso piano-solo soffuso.
Siamo quindi nella percussiva Harlem in Havana, con il
nostro Enzo che insegna come si sta a tavola: prima del suo solo, si è fermato
quel poco di più per consentire alla De Vito di raccogliere il giusto tributo
al suo scat così naturale.
Entriamo dentro la bellissima Morning Morgantown: la De Vito
parte fuori tono, ma si riprende subito anche grazie allo stato di grazia di
basso e pianoforte che sorreggono l’intera canzone con vigorosi muscoli, dolcissimi
quanto discreti. Nella seconda parte della canzone, la De Vito si rifugia
dentro un canto alla Joan Baez, più affine alle sue corde. La parte del leone
la fa Mazzariello, sempre capace di rispettare le canzoni con solismi umili e
privi di autocelebrazioni.
Arriviamo al cuore mingusiano della Mitchell con God must be
a boogie man. Eccellente versione, con il trio che si amalgama e si insegue
continuamente, in compagnia di un pubblico timido che ha risposto alla
call-to-action senza tanta convinzione.
Dopodiché, la luce di A case of you ha illuminato i nostri
cuori: grande Mazzariello, ben oltre i suoi limiti; Pietropaoli che dona la sua
anima al pubblico; la De Vito che si commuove sempre di più. Così si suona,
così si canta!
Con Be cool i nostri si riposano, rendendo la canzone quasi “normale”:
troppa eleganza si paga, ed è giusto prendersi pochi minuti di riflessione.
Con Chinese café/Unchain Melody ritorniamo negli astri. Di
sé per stessa è notoriamente un esercizio di stile complesso e probante: i tre arrivano
a renderla un’esperienza irripetibile e nostalgica, dove alla fine vien da dire
“io a questo concerto c’ero; voi no”.
E a proposito di nostalgia, arriviamo a Woodstock. Ragazzi,
che arrangiamento! Che esecuzione. Riuscire a unire lo sguardo verso il passato
con il cammino rivolto al futuro… veramente una bellissima versione.
Bis dedicato alla mia signora con una Answer me my love da
lacrimoni.
Una bellissima esperienza, insomma.
No so come sia il disco (dove al piano figura Rea). Ho paura di acquistarlo. Quando si
hanno esperienze come queste, diventa difficile rincorrere la nostalgia. Vi terrò
informati.
26 giugno 2016
il basso baffo di Enzo Pietropaoli colpisce ancora

Nella voce della De Vito c'è da fare i conti con la prima Joni Mitchell e con certi adagi liquidi di Joan Baez. A volte si perde per strada, soprattutto quando sfida i Talking Heads e Sting, ma spesso riesce a stabilire un'esatta connessione tra il profluvio di note della chitarra di Viterbini e l'elegante basso (elettrico!) del sempre sornione Pietropaoli.
E mentre Viterbini riesce a trattenere i miliardi di note che sarebbe capace di produrre senza requie, Pietropaoli continua a confermarsi un musicista di rara eleganza e umiltà.
In alcuni momenti si sente che siamo di fronte a un esperimento rischioso, quasi sfrontato, dove la lettura in chiave di blues insegue memorie sparse in cui galleggiano Jefferson Airplane, Fleetwood Mac, Grateful Dead e Creedence Clearwater Revival, ma è un cd che merita spazio nella vostra collezione.
Una nota di merito va alle splendide letture di All this useless beauty di Elvis Costello, di I can't stand the rain di Ann Peebles e di Eleanor Rigby dei Bitols: ad alto volume ovviamente, da sentire almeno cinque volte consecutive.
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