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13 novembre 2014

Parlando di calcio con Le Roi, Michel Platini

Come (ex) appassionato di calcio, juventino peraltro, sono stato molto fortunato: ho vissuto le gesta calcistiche di Michel Platini all'età giusta, quando mito e passione si fondono senza soluzione di continuità.
Non riesco a dimenticare il dramma di Heysel (e neanche lui, da quel che ho letto), ma non posso neanche dimenticare un lustro epico di calcio assoluto, guarnito da comportamenti sportivi di raro nitore.
E quindi mi sono accostato a questo libro con estrema cautela, spaventato com'ero di rovinare la festa al bimbo che ero. 
E, invece, è un gran bel libro, proprio perché (o forse perché) non accarezza minimamente l'autobiografia più stretta, ma invece racconta la bellezza del calcio, con un giusto equilibrio tra pragmatismo e passione, modernismo e rispetto per la tradizione.
Insomma, chi è limitato perché ci vede un taccuinaccio di appunti stropicciati di uno juventino, si perde la rara opportunità di conoscere la Storia del Calcio, e quel modo di leggerlo e interpretarlo che oggi - diciamolo - manca alle nuove leve.
Un calcio che ama "il gesto", il singolo momento, la passione per arrivare a "quel" gesto e la forza di saper affrontare anche il fallimento di un gol che non arriva.
E poi le tredici regole, gli schemi, il fuorigioco, la mentalità vincente e il rapporto con i compagni prima e con i manager dopo.
Platini, poi, suggerisce una sua visione delle competizioni future decisamente idealista, ma pur sempre attenta alla nostalgia.
Seguite questo libro così prezioso, troverete parole e concetti che vi sorprenderanno.



06 marzo 2010

Antognoni - Brasile 4 a 2

Per uno juventino come me, parlare bene di un fiorentino è quasi una bestemmia, ma Giancarlo Antognoni merita una doverosa eccezione. Tra gli ultimi numeri 10 della Nazionale che io ricordi è stato quello più sobrio, elegante, mai fuori tono e sempre pronto a farsi leader senza tanti fronzoli o autocelebrazioni.
A differenza di altri suoi colleghi, utilizzava il suo individualismo solo per la squadra. Lui era la squadra, e la squadra era lui. Non ricordo una sola azione in cui non avesse già capito cosa stava accadendo intorno a lui. E che abbia avuto dei problemi con Agroppi è una nota di merito che aggiunge valore al suo modo di intendere il calcio.
Non ha vinto tanto, ma ha dato tantissimo sia al suo ruolo che al calcio più in generale.
Di lui ricordo due cose: il terrificante scontro con Silvano Martina, allora portiere del Genoa; il gol ingiustamente e marchianamente annullato contro il Brasile (guardate con quale compostezza reagisce contro il miope guardalinee), durante il Campionato del Mondo del 1982, alla cui finale vincente dovrà rinunciare per un tagliaccio orribile sul piede destro occorso durante un banale contrasto.
È un gran peccato che Della Valle non abbia mai pensato a un qualcosa di concreto per consegnare il suo nome alla Storia.


27 febbraio 2010

Falcão, ovvero come spostare una difesa

Di tutti i "nemici" che la Juventus abbia mai avuto, il migliore resta lui: Paulo Roberto Falcão, l'ottavo re di Roma.
Ma l'azione che meglio lo potrebbe rappresentare alle generazioni future è con la casacca della sua nazionale in Italia-Brasile 3-2, quando poi insieme a Pertini vincemmo in Spagna un'insperata Coppa del Mondo. Lui è sulla destra, a pochi metri dalla nostra area di rigore, con un cenno del bacino finta sull'estrema destra, e poi con straordinaria eleganza si sposta a sinistra per convergere al centro, la difesa si apre come un melone, e lui scocca un tiro di quelli che ancora oggi Zoff se lo sogna la notte, pareggiando temporaneamente una partita che ci regalerà altre mille emozioni.
Altre azioni nobili potrete seguirle nei contributi video che allego.
Sul piano personale, invece, quello che ricordo ancora nitidamente era la figura di una persona straordinariamente elegante, che sembrava non faticare mai, che stava sempre al punto giusto nel momento giusto, che non sprecava il suo irripetibile talento per mero individualismo, che aveva capito quanto fosse nodale il suo ruolo nella Roma di Liedholm e Viola... e che forse proprio per questo alla fine del ciclo si lasciò andare all'ingordigia, pretendendo un ingaggio troppo elevato per quegli standard. Forse sapeva che il ginocchio non l'avrebbe più fatto giocare come un tempo, forse - e finalmente - si stava dimostrando un terrestre come tutti noi.
E del resto che avesse un cuore e qualche timore lo dimostrò durante la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, quando cioè si rifiutò di tirare uno dei rigori (finale che a me costò una bella rimandatura in Storia, visto che il giorno dopo mi presentai in classe vestito di biancorosso, con pedante disappunto della baffuta suora laica professoressa).
Erano veramente altri tempi, e le polemiche del dopo partita erano pantomime cecione e quasi recitate che non lasciavano certo intravedere il commercialismo e le violenze che avrebbero poi affondato il calcio italico.


20 febbraio 2010

Gaetano Scirea, che non è solo una curva

Stagione calcistica 1974/75, siamo in piena pasqua (e soprattutto in pieno giubileo), e noi la passiamo nella (ormai ex) pineta di Manziana, Hotel degli Etruschi. Il figlio del proprietario fa il filo a una delle mie sorelle: roba da bambini, si sa. Mio nonno materno torna da Roma e mi porta come promesso l'ultimo numero di Hurrà Juventus. Si era da poco disputata Lazio-Juventus, ma ancora non avevo saputo il risultato. Poi nella rivista leggo su una vignetta satirica una domanda a un calciatore: Perché ha fatto autugol?; e lui: Per la GiubiLazione. Quella vignetta derideva affettuosamente Gaetano Scirea, uno dei pochi difensori al mondo a non aver mai subito un cartellino giallo, figuriamoci quello rosso.
Assieme a Zoff rappresentò l'anima civile, riflessiva, etica, di un modo di giocare il calcio che condizionò totalmente la storia della Juventus e della Nazionale.
A differenza di quasi tutti i giocatori silenti che la mia mente ricordi, Scirea non era oscuro, ma profondamente sereno e quindi rasserenante. Il suo era un silenzio quasi esoterico, laicamente esoterico. I miei occhi da bambino lo individuavano subito, e lo seguivano quasi incantati delle sue gesta difensive, perché la sua era la presenza giusta, opportuna, raffinata ma mai indulgente, precisa ma mai spaccona.
Non ho mai capito perché la Juve non abbia ritirato il numero 6 dalle sue maglie.

13 febbraio 2010

oDino, Dino Zoff

La quartaquasiquinta puntata del mio raccontare i calciatori doveva inevitabilmente arrivare a Dino Zoff, inimitabile e insuperabile sportivo, simbolo di un modo raro di interpretare la vita e il calcio, indiscusso protagonista della Juventus e della Nazionale migliori (sia come giocatore che come allenatore).
Lo incontrai tre anni fa in Prati, qui a Roma. In realtà non volevo assolutamente disturbarlo, ma una cara amica di mia moglie voleva regalare un suo autografo al figlio... e mandò in avanscoperta il sottoscritto.
Incredibile: è un uomo alto - si sa, con un carattere fiero che lo rende ancor più imponente; eppure, paradossalmente, la sua civiltà e la sua umanità quasi lo ridimensionano. È come se il dio del pallone per manifestarsi a noi miseri mortali avesse scelto la dissimulazione, la compostezza, la misura.
Stringendomi la mano si è portato via metà della mia colonna vertebrale. Gli ho ricordato un suo "libbbricino" intitolato Dino Zoff racconta, che qualche trasloco m'ha portato via, e lui giustamente e umilmente fece notare che non era nulla.
Ha abbozzato un'impercettibile gratificazione (forse più rimbalzata dalla mimica facciale della signora che lo accompagnava) quando gli ho detto che per me è sempre stato un esempio, quasi un padre spirituale, e anche uno sportivo di quelli che dovremmo coccolare a vita, e raccontare ai giovani, e ai futuri nipoti dei giovani.
Dino Zoff ha vinto tutto, o quasi: in fondo è meglio per la sua storia che non abbia mai impugnato la Coppa dei Campioni dell'Heysel: quell'ottone insanguinato avrebbe macchiato la sua natura così limpida.



06 febbraio 2010

il re insegna la sportività

Una delle partite più intense nella storia della Juventus migliore: è l'8 dicembre 1985, e a Tokyo si disputa la finale tra la vincitrice della Coppa Campioni europea e quella omologa sudamericana.
Juventus contro Argentinos Juniors.
Vinceremo noi, ma solo ai rigori, anche perché a Platini annulleranno un gol regolarissimo, e lui da gran signore reagisce così:




23 gennaio 2010

forza Juve... quella del 1983

Una domenica di qualche lustro fa - il 6 marzo 1983 - ero incollato alla radio: la Roma e la Juventus si stavano scontrando per lo scudetto, e purtroppo lo avrebbe poi vinto la prima.
Ma quella partita ebbe esiti ben diversi, e sembrava il preludio per una straordinaria rimonta juventina. Fino a dieci minuti dalla fine, La Roma era in vantaggio per un gol segnato al 62' dal magistrale Falcão (un grande anche lui).
Raramente alla radio gli speaker si interrompevano tra loro per cose futili, al di fuori cioè di una segnatura, un rigore o un fatto veramente eclatante. E ogni volta che da Roma Ameri interrompeva Ciotti, mi ritrovavo il cuore in gola, pronto a subire l'onta di un vantaggio giallorosso o la gioa per un gol di quella grandissima Juve che purtroppo non esiste più.
All'83' Ameri interrompe Ciotti per... una punizione: Michel Platini sta per battere una delle sue punizioni. Capite? Stravolge una scaletta radiofonica solo per raccontare in diretta una punizione, i cui esiti non sarebbero stati per forza positivi.
Le Roi tira e segna, con un'eleganza e una precisione che ricordo ancora oggi. Pochi minuti dopo segnerà Brio (poi morso da un cane poliziotto a fine partita), grazie a una generosa punizione data a Gentile (il suo conseguente litigio con Conti minò la loro amicizia).
Vincemmo 2 a 1, e io scontai gli ennesimi insulti a scuola. Un romano juventino è quasi un vezzo, specie se - come me - vive a Testaccio, il cuore della Roma e di Roma.
Oggi c'è uno Juventus - Roma distante anni luce dalla bellezza di quegli anni. Questo calcio non mi diverte più, non mi piace, e lo seguo con distrazione solo per fare lo scemo cor macellaro o co' er librarolo.
A questa "classica" del calcio moderno vorrei dedicare questa antica intervista a Michel Platini: fu scritta il giorno che si ritirò dalle scene. Troppo presto per un campione, troppo tardi per un re.