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19 gennaio 2016

Glenn Frey e uno scotch per fare il barrè

Avevo quattordici anni. Michele aveva un impianto stereo niente male. Era laziale (lo è pure oggi, ahilui). E amava la musica. Come tutti i laziali aveva una predilezione per le aquile; per assimilazione, amava anche gli Eagles.
Prese la copertina del mitico LIVE! e subito partì il fragore del pubblico, poi un calpiccichìo e... On a dark desert aiuei, cul uind in mai eir... era Hotel California.
Era un periodo in cui avevo appena scoperto Jackson Browne, i Queen, i Pink Floyd e gli Yes. Ma questi cori, questo straordinario modo di fondere country e rock, pop e west coast, mi conquistarono all'istante.
Un anno dopo mi ritrovai con una chitarra in mano, lo spartito degli Eagles, e due grosse incognite: come si legge la musica?; ma, soprattutto, come diamine si fa un barrè?
Avevo le dita stupide, deboli, incapaci di dare la giusta pressione al nylon e al rame delle Savarez Rouge. E allora escogitai un trucco: misi le dita a mo' di pistola, presi una matita e la adesivai duramente lungo tutto l'indice disteso all'inverosimile; medio, anulare e mignolo, invece, ben piegati su di loro.
Per un mese mi forzai ogni notte a mantenere quella dolorosa condizione; il giorno, invece, mi ci sedevo sopra durante tutto l'arco delle lezioni liceali.
Dopodiché, cominciai lentamente ad avventurarmi dentro quegli accordi... e ce la feci: potevo finalmente suonare con gli Eagles. Peccato che non mi abbiano mai convocato!
Ciao, Glenn Frey, mi piace ricordarti con questa chicca meno nota, ma sublime: Sad Café

07 luglio 2014

chiediti chi erano Crosby, Stills, Nash (& Young)

Ho letteralmente divorato questo "Wild tales. La mia vita rock'n'roll" di Graham Nash, godibile autobiografia, ma soprattutto ritratto a tutto tondo di un'epoca musicale irripetibile, inarrivabile e inestimabile.
Oltretutto, il nostro è tra i pochi fortunati ad aver fatto parte in primissima persona sia del panorama rock inglese che di quello americano, in egual misura, mietendo successi e consensi in ambedue le terre e seminando uno stile e un approccio ancora oggi validi e moderni.
Un viaggio, insomma, privo di sovrastrutture, ricco di aneddoti mai fini a se stessi, con ritratti onesti e mai livorosi di (quasi) tutti i nomi più importanti di ambedue le realtà musicali del periodo.
Purtroppo l'edizione italiana è tradotta coi piedi e manca totalmente di un indice analitico oltreché di una discografia più o meno parziale. È un difetto che ho riscontrato in quasi tutte le (auto)biografie musicali di questi anni, forse perché si pensa che il lettore debba per forza connettersi per trovare una precisa discografia online, forse per risparmiare i costi su un sedicesimo in più... ma resta comunque una grave lacuna.
Fatto sta che per ricostruire le peculiarità di una specifica canzone o di un intero lp (ancora esistevano gli lp!), dovrete armarvi di penna/evidenziatore per ricostruirvi un vostro personalissimo indice. Ne vale la pena.
Tempo fa avevo letto anche l'autobiografia di Neil Young, scontroso e ombroso sempre e ovunque. Onestamente, mi sembra meno genuina di questa, e comunque poco edificante.
Se insomma avete voglia di conoscere un'America che non c'è più, un modo di fare musica umano e tutt'altro che prefabbricato... questo è il libro che fa per voi.

27 febbraio 2007

un altro genio
se n'è andato

All'età di 67 anni, il 22 febbraio scorso è morto Ian Wallace, uno dei più interessanti batteristi britannici.
In molti lo conoscono per aver millimetrato il ritmo in Islands, discusso capolavoro dei King Crimson. Sembra cinico, ma chiunque abbia militato nella temporanea formazione che diede vita a questo condensato di jazz, rock e musica contemporanea, deve morire prematuramente. A settembre, infatti, ci aveva lasciato Boz Burrell, il cantante/bassista.
Ian Wallace ha suonato con Alexis Korner, Ten Years After, Humble Pie, ma soprattutto con Bob Dylan. Ricordo anche alcune collaborazioni 'minori' (si fa per dire) con Ron Wood, Don Henley, Crosby, Stills & Nash, Jackson Browne, Traveling Wilburys e Tim Buckley.
Conosceva lo strumento come pochi e riusciva ad essere personale e affidabile al tempo stesso. Su YouTube esistono solo interpretazioni tipicamente rock (e il proprietario dei video non fornisce il codice embadedd), ma se avete tempo e soldi vi consiglio di cercare in rete la sua ultima fatica, tipicamente jazz: il Crimson Jazz Trio, che - come dice il nome - si riferisce alle opere dei King Crimson, rileggendole però in chiave libera e senza vincoli strutturali.
Oppure potete scaricarvi qualcosa da qui. È poco, magari datato, ma è un buon modo per salutare un grande della musica di sempre.

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