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26 gennaio 2022

I SEGRETI DI WIND RIVER

Una nativa americana appena diciottenne viene trovata morta assiderata tra le nevi del Wyoming: è stata picchiata e stuprata, e per fuggire ai suoi aguzzini ha percorso pressoché svestiva quasi 10 km al gelo, dimostrando una tenacia e una forza incredibili.
Delle indagini si occuperanno un esperto della Forestale e un'agente FBI di tutt'altro distretto. Dovranno fare i conti con una realtà desolante ma anche con le proprie coscienze.

Fa un certo effetto vedere questo film a ridosso dell'ennesimo stupro di gruppo di cui si parla in questi giorni. 
Ed è un film che tiene ben salda la rotta della tensione, nonostante la visione casalinga che, al contrario di quella in sala, è confortevole e ricca di distrazioni che possono alleviare il pesante disagio che qui cresce sempre più, fino al climax finale.
È un film con una lenta progressione sempre più dolorosa, con la sceneggiatura che inizia con tempi narrativi lenti, come a voler tirare un elastico che poi esplode tutto insieme, arrivando a dinamiche violente ma non gratuite, presentate con una certa eleganza stilistica, discreta quanto efficace.
La regia, insomma, si dimostra capace di lasciare le briglie della storia libere di muoversi agilmente con tempi sempre azzeccati e nessun passaggio inutile o di raccordo. Tant'è che è stata giustamente premiata con Un Certain Regard a Cannes 2017.
La fotografia è notevole, specie tenendo conto della meravigliosa location: riprendere circondati dal bianco della neve è una nota insidia che in questo caso non si fa sentire. E la scelta delle inquadrature e della composizione delle scene è sempre azzeccata e narrativamente efficace.
Il montaggio è di mestiere, perché tale deve essere. Solo nel momento del nodale flash back ha un misurato tocco autoriale. È il momento più asfissiante dell'intera storia, dove la violenza cresce a dismisura, lasciando lo spettatore inerme e disarmato: già sa cosa accadrà, ma non può immaginare fino a dove potrà arrivare la malvagità delle bestie che useranno violenza contro la vittima. Violenza che quasi non si vede, se non dalla prospettiva disperata del fidanzato che letteralmente si sacrifica sperando in un'impossibile salvezza della propria amata.
Straziante quel microscopico momento in cui la ragazza apre la porta per scappare, lasciandolo in balia dei suoi aguzzini. Una brevissima sequenza che fa male al cuore, ormai abbondantemente provato.
Musica di Nick Cave ben incastonata, con qualche leggero tocco tribale qua e là, che per fortuna ci risparmia i soliti flautini di pan pseudo nativi, buttando dentro qualche sussurro fuori campo in stile Alce Nero che alla fine non risulta così stucchevole.
Gli interpreti funzionano. Non sono questo fulmine di gamme espressive, ma forse è meglio, perché questo è il tipico film in cui è la storia a dover funzionare, a emergere. Gli attori sono solo a disposizione della trama, e nulla più.
Sulla sorte di uno degli stupratori potremmo aprire un dibattito per ore. 
Chi mi legge da tempo, sa che ho difficoltà ad accettare questo modo di essere garantisti tipicamente italiano, dove alla fine ci si schiera in base a opportunismi personali e non perché si crede in etiche assolute. È un mio limite, per carità. Sono certo che il garantismo vero non sia così peloso e furbo.
Ma per quanto riguarda uno stupro, ho serie difficoltà ad accettare un dibattito garantista sulla giusta giustizia: lo stupro è la punta massima di un abominio culturale strisciante e millenario che si manifesta in mille disgustosi modi. E non può certo essere emendato con qualche manciata di anni di carcere. Lo stupratore non ha diritto alla redenzione, non ha diritto a una seconda chance
Sembrerò fascista, che vi devo dire? Ma proprio non riesco a essere garantista su tutto ciò che attiene alla violenza contro il genere femminile, fisica, verbale o psicologica che sia.
In questo film, la soluzione al garantismo peloso viene trovata in un modo che chi ama i dibattiti troverebbe "diseducativo", specie tenendo conto che un certo cinema americano ha sempre risposto con un contrappasso a chi si fa giustizia da solo. 
In più, ammettiamolo, sono tempi in cui non ci si rende conto di quanto e come e dove sia arrivata la violenza anche di noi "buoni": quindi, forse, il gesto giustizialista del protagonista non sarebbe così "opportuno". 
Però siamo di fronte a uno stupro.
Insomma, è un conflitto morale che non voglio dibattere oltre.

02 febbraio 2014

#AmericanHustle, chi?

Sono sicuro che se avessi visto il film in lingua originale, non gli avrei dato un 6 stiracchiatissimo, ma qualcosa in più: il doppiaggio, insomma - perlomeno questo modo di doppiare così sciatto - penalizza moltissimo American Hustle, rendendolo addirittura insopportabile in certi momenti.
Al di là di questo, è un film troppo lungo, con troppi gigionismi, e un tentativo sin troppo evidente di dare ad ogni attore la giusta dose di visibilità. Ne escono bene (benissimo) Christian Bale e Jennifer Lawrence; ne esce quasi incolume Jeremy Renner; ne escono malissimo Amy Adams e Bradley Cooper. 
Ormai Christian Bale può recitare anche dormendo: ha un tale controllo della fisicità e della mimica che può permettersi di tutto. Tra tutti gli attori del momento, mi sembra quello con più sfumature e più coraggio (la trilogia di Batman insegna).
E anche Jennifer Lawrence non è da meno. Oltretutto, non è di una bellezza particolare, ma molto standard e senza guizzi estetici. Eppure sa tener testa alle inquadrature con navigata disinvoltura. Un tempo si chiamava "presenza scenica".
A Jeremy Renner uno vuole bene. Ha dei limiti, molto evidenti peraltro, ma non fa niente per nasconderli né tantomeno fa finta di poterli superare.
Bradley Cooper mi è sempre sembrato poco attento alle sfumature, sin dai tempi di Alias. Ha l'evidente difetto di recitare all'inizio di una storia come se già sapesse come va a finire. Non c'è sorpresa o rabbia nelle sue espressioni, ma solo mestiere a buon mercato.
Amy Adams, infine, ha un'espressione, solo una: la porta addosso dall'inizio alla fine, lasciandosi aiutare da un vestiario che lascia poco all'immaginazione, ma che dopo un po' diventa stucchevole e ripetitivo.
Sul cameo di Robert De Niro neanche mi pronuncio, gli voglio troppo bene.
Anche la regia sembra approssimativa: alcune sequenze sembrano ciak di riserva, forse scartati, e poi rimessi lì perché non c'era altro.
Bella, invece, la fotografia, anche se troppo uniforme. 
Ottima, com'è noto, la scelta delle musiche: a volte fuori contesto (volutamente, immagino), ma decisamente accurata e di indubbia qualità; memorabile il breve ma gustoso show della Lawrence sulle note di Live and Let Die dei Wings (vale la spesa del biglietto).
Insomma, per ora la mia corsa degli Oscar è ancora ferma al palo: vediamo cosa mi diranno le prossime pellicole.