Se esistesse una biblioteca perfetta, di quelle che ospitano solo opere perfette, scritte ed editate in maniera perfetta, questo libro ne farebbe sicuramente parte.
Non è solo la storia della produzione di "C'era una volta in America", non è solo un viaggio dentro l'ultimo raggio di luce della purtroppo breve vita dell'immenso Sergio Leone, non è solo un omaggio al cinema, alla musica, al montaggio, alla fotografia - e anche alla produzione: è un insieme di queste cose e di molto altro, dove tutto è ben cesellato, equilibrato, mai fuori luogo né tantomeno esagerato, in cui ogni singola parte contribuisce all'insieme, mantenendo comunque la sua singola dignità e la sua necessaria visibilità.
Ma, soprattutto, non è un'operazione nostalgia.
Certo, si respirano comunque amore incondizionato e un languore pieno di grazia, come anche un certo modo romantico di raccontare gli ultimi bagliori del crepuscolo cinematografico italiano, che in quegli anni ancora sapeva illuminare il cosmo della settima arte con una sua inestimabile grammatica e un invidioso coraggio.
C'è anche un'impostazione di fondo, sottile e impercettibile ma ben presente, che credo sia utile anche per chi volesse cimentarsi nel difficile mestiere della critica. Quella attualmente in voga, infatti, o è anacronisticamente militante (cfr FilmTv) o eccessivamente commerciale (cfr Ciak), vincolate o dall'angusto gusto personale o da una malcelata sponsorizzazione.
Qui, invece, il critico si documenta, argomenta, ricostruisce, ritrova i bandoli delle matasse e li racconta per quello che sono, non mitizza né mortifica, non si autocompiace della sua competenza né sgomita per farsi notare.
Insomma, è un libro che ho fatto fatica a riporre nello scaffale.
Da leggere e rileggere, magari rivedendo poi per l'ennesima volta il bellissimo capolavoro di Sergio Leone.
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20 dicembre 2021
07 luglio 2020
MORRICONE
"Giù la testa, coglione!", credo sia stata la prima parolaccia che abbia mai sentito, o almeno la prima che ricordi.
E fino a quando nel 1999 non scrissi la mia tesi di laurea sui western atipici degli anni '70, non avevo più rivisto Giù la testa; e, come capita spesso con i film di Leone, fino ad allora ne ricordavo solo alcuni frammenti. Ma la musica - e che musica! - quella la ricordavo a memoria.
Quel "scion scion" ti entrava dentro la testa e non ne usciva più; ma, soprattutto, era il (con)seguente largo di archi che ti lasciava senza fiato. Dentro quelle poche note c'era tutto l'amore per gli spazi aperti, il languore, il mito, il viaggio, la retorica, il bimbo meraviglioso e meravigliato.
Quando mi ritrovai davanti le cascate di Iguazu, l'oboe di Gabriel (da Mission) partì in automatico nella mia mente. Impossibile pensare ad altro, dolcissimo restarci dentro.
Ogni volta che guardo le mie foto da New York, sento dentro di me quello struggente largo di Deborah's Theme.
Morricone ha camminato con le sue note ovunque, persino nell'horror (Argento, De Palma e Carpenter ne sanno qualcosa), persino nella complessità di Pasolini. E ogni volta, identità musicale e identità dell'opera si fondevano e si compenetravano a vicenda, senza perdere nulla e guadagnando invece una dall'altra.
La musica di Morricone era essenziale, asciutta, immediata e profonda al tempo stesso. Nella mia assoluta ignoranza e passione da ascoltatore, non ho mai percepito qualcosa fuori posto, qualcosa di eccessivo; ma, nello stesso tempo, non percepivo furbizia compositiva o trucchetti che ammiccavano verso l'ascoltatore o la commercialità.
La musica di Morricone riusciva a mettere insieme sacro e profano, musica alta e musica popolare, strumenti nobili e strumenti popolani. L'ocarina, lo scacciapensieri, il fischiettare, la frusta... dico io: ma quando mai prima di Morricone avevamo ascoltato strumenti simili?
E che dire della capacità di distribuire un tema specifico e riconoscibile per ogni personaggio del film, tema che poi si amalgamava perfettamente con l'insieme dell'intera opera (e anche dell'intero film!). Del resto, quanto gli sia debitore Clint Eastwood, solo lui può misurarlo pienamente. Ed è stata così forte questa silente riconoscenza che non ha mai avuto il coraggio di chiedergli una contributo musicale, se non indirettamente in American Sniper, "rubandogli" quel bellissimo The Funeral (una dichiarata variazione del Silenzio fuori ordinanza) da Una pistola per Ringo.
L'altro immenso pregio di Morricone era questo suo intuire l'arrangiamento perfetto (rivoluzionario e inedito, ma perfetto). Ne sa qualcosa il figlio Andrea con il suo tema di Nuovo Cinema Paradiso: ri-arrangiato da Morricone è diventato quel capolavoro che ancora oggi ascoltiamo con trasporto, e sempre per almeno dieci volte consecutive.
Arrangiamenti che nel contempo potevano anche essere sfrondati o arricchiti o ricomposti in mille altri modi. Per carità, il Maestro non era così felice di queste riletture, ma erano proprio queste che dimostravano ennesimamente la perfezione delle sue composizioni.
Quante volte, infatti, siete rimasti delusi da una rilettura di un brano che amate alla follia? Ebbene, quante volte avete invece e comunque apprezzato una composizione di Morricone, nonostante vi venisse proposta in ben altro modo?
Due esempi tra tutti: Pat Metheny e Charlie Haden hanno asciugato parossisticamente i due temi di Nuovo Cinema Paradiso, fino a trasformarli in rade gocce d'acqua musicale sospese e piene di anima.
L'altro esempio è quello jazzato di Giuliani, Pietropaoli, Biondini e Rabbia. un'impresa sconvolgentemente rivoluzionaria e rispettosa al tempo stesso, dove Morricone ri-esce fuori in tutta la sua potenza narrativa.
Onestamente, non riuscivo ad immaginare questo Pianeta senza David Bowie - e ancora non me ne sono fatto una ragione.
Con la scomparsa di Ennio Morricone, la Morte si è presa una confidenza di troppo.
Certi geni dovrebbero essere intoccabili, senza tempo.
Ah, dimenticavo: Morricone componeva direttamente sul pentagramma, senza abbozzare note confuse sul pianoforte.
E fino a quando nel 1999 non scrissi la mia tesi di laurea sui western atipici degli anni '70, non avevo più rivisto Giù la testa; e, come capita spesso con i film di Leone, fino ad allora ne ricordavo solo alcuni frammenti. Ma la musica - e che musica! - quella la ricordavo a memoria.
Quel "scion scion" ti entrava dentro la testa e non ne usciva più; ma, soprattutto, era il (con)seguente largo di archi che ti lasciava senza fiato. Dentro quelle poche note c'era tutto l'amore per gli spazi aperti, il languore, il mito, il viaggio, la retorica, il bimbo meraviglioso e meravigliato.
Quando mi ritrovai davanti le cascate di Iguazu, l'oboe di Gabriel (da Mission) partì in automatico nella mia mente. Impossibile pensare ad altro, dolcissimo restarci dentro.
Ogni volta che guardo le mie foto da New York, sento dentro di me quello struggente largo di Deborah's Theme.
Morricone ha camminato con le sue note ovunque, persino nell'horror (Argento, De Palma e Carpenter ne sanno qualcosa), persino nella complessità di Pasolini. E ogni volta, identità musicale e identità dell'opera si fondevano e si compenetravano a vicenda, senza perdere nulla e guadagnando invece una dall'altra.
La musica di Morricone era essenziale, asciutta, immediata e profonda al tempo stesso. Nella mia assoluta ignoranza e passione da ascoltatore, non ho mai percepito qualcosa fuori posto, qualcosa di eccessivo; ma, nello stesso tempo, non percepivo furbizia compositiva o trucchetti che ammiccavano verso l'ascoltatore o la commercialità.
La musica di Morricone riusciva a mettere insieme sacro e profano, musica alta e musica popolare, strumenti nobili e strumenti popolani. L'ocarina, lo scacciapensieri, il fischiettare, la frusta... dico io: ma quando mai prima di Morricone avevamo ascoltato strumenti simili?
E che dire della capacità di distribuire un tema specifico e riconoscibile per ogni personaggio del film, tema che poi si amalgamava perfettamente con l'insieme dell'intera opera (e anche dell'intero film!). Del resto, quanto gli sia debitore Clint Eastwood, solo lui può misurarlo pienamente. Ed è stata così forte questa silente riconoscenza che non ha mai avuto il coraggio di chiedergli una contributo musicale, se non indirettamente in American Sniper, "rubandogli" quel bellissimo The Funeral (una dichiarata variazione del Silenzio fuori ordinanza) da Una pistola per Ringo.
L'altro immenso pregio di Morricone era questo suo intuire l'arrangiamento perfetto (rivoluzionario e inedito, ma perfetto). Ne sa qualcosa il figlio Andrea con il suo tema di Nuovo Cinema Paradiso: ri-arrangiato da Morricone è diventato quel capolavoro che ancora oggi ascoltiamo con trasporto, e sempre per almeno dieci volte consecutive.
Arrangiamenti che nel contempo potevano anche essere sfrondati o arricchiti o ricomposti in mille altri modi. Per carità, il Maestro non era così felice di queste riletture, ma erano proprio queste che dimostravano ennesimamente la perfezione delle sue composizioni.
Quante volte, infatti, siete rimasti delusi da una rilettura di un brano che amate alla follia? Ebbene, quante volte avete invece e comunque apprezzato una composizione di Morricone, nonostante vi venisse proposta in ben altro modo?
Due esempi tra tutti: Pat Metheny e Charlie Haden hanno asciugato parossisticamente i due temi di Nuovo Cinema Paradiso, fino a trasformarli in rade gocce d'acqua musicale sospese e piene di anima.
L'altro esempio è quello jazzato di Giuliani, Pietropaoli, Biondini e Rabbia. un'impresa sconvolgentemente rivoluzionaria e rispettosa al tempo stesso, dove Morricone ri-esce fuori in tutta la sua potenza narrativa.
Onestamente, non riuscivo ad immaginare questo Pianeta senza David Bowie - e ancora non me ne sono fatto una ragione.
Con la scomparsa di Ennio Morricone, la Morte si è presa una confidenza di troppo.
Certi geni dovrebbero essere intoccabili, senza tempo.
Ah, dimenticavo: Morricone componeva direttamente sul pentagramma, senza abbozzare note confuse sul pianoforte.
07 gennaio 2019
Cinema (e jazz) secondo Rosario Giuliani, Enzo Pietropaoli, Luciano Biondini e Michele Rabbia
Le colonne sonore del cinema sono "nostre", di noi spettatori. Sì, compositori e registi fanno di tutto per dire la loro, ma alla fine siamo noi dentro la sala buia i veri sacri giudici, sia del loro successo immediato che del loro destino nei tortuosi meandri del Tempo.
Scrivere musica è un'impresa, scrivere musica da film è eroico, scrivere musica da film che abbia dignità propria è addirittura da folli.
Esistono momenti musicali così avvinghiati nelle storie, che spesso li usiamo per titolare i film stessi, tanto da far perdere la loro vera origine: la Cavalcata delle Walkirie è "Apocalypse now", punto; Wagner e il suo Ring possono anche andare a quel paese.
Oppure ci sono brani musicali icastici: io non ho mai visto 9 settimane e 1/2, ma è come se lo conoscessi a memoria, proprio grazie alle lamette vocali di Joe Cocker.
E che dire delle composizioni che salvano film veramente brutti? "Nuovo Cinema Paradiso" è dei Morricone, padre e figlio; non esiste regista, non esiste una pellicola.
E poi ci sono quei brani musicali che non devi toccare in alcun modo, maledizione! In alcun modo! Certi momenti musicali sono evocativi proprio perché sono composti ed eseguiti - e ricordati! - in quel solo unico modo.
Nessuno li deve toccare! Nessuno!
A meno che non sei bravo come Rosario Giuliani, Enzo Pietropaoli, Luciano Biondini e Michele Rabbia.
Conoscevo questo progetto Cinema Italia solo tramite qualche filmetto rubato su YouTube, che certo non rendono merito all'impresa musicale.
Poi, però, ho avuto la fortuna di assaporarlo dentro lo scomodo (ma acusticamente perfetto) Teatro Greco di Orvieto. Confesso che ero scettico, nonostante l'affetto e la stima profondi che nutro per Enzo; anzi, proprio per questo motivo avevo timore di non riuscire a scindere gusto da amicizia.
E però, appena il concerto è iniziato, sono stato rapito da una tale consistenza di note esatte, coraggiose, intelligenti, rispettose ma anche audaci, evocative ma anche spregiudicate, che in alcuni momenti sono stato letteralmente sopraffatto dalle emozioni da dover chinare la mia testa verso il pavimento, per nascondere qualcosa di incontrollabile.
È come se i quattro avessero colto l'anima delle idee di Morricone e Rota, anima che spesso può sfuggire a noi "sacri giudici", così intenti a cercare nell'arte solo un po' di conforto anziché dubbi e vortici.
Conoscevo già il muscoloso e innervato Rosario Giuliani: il suo sax è sempre una conferma. Proprio per questo, temevo qualche sbrodolamento; e, invece, è stato sempre misurato, anche nei momenti in cui virtuosismo e presunzione dovevano giustamente vincere su tutto il resto.
Nutro un grande rispetto per Enzo Pietropaoli perché lavora sempre più per sottrazione: un pregio raro e in via di estinzione. La sua "intro 2.0" al dittico di "Nuovo Cinema Paradiso" è stata una deliziosa sorpresa, per tacer poi dello scambio rotiano con Giuliani stesso.
Non conoscevo Biondini: un viso pasoliniano al servizio di uno strumento per me troppo nazionalpopolare... eppure, gigantesco e sempre coinvolgente.
Rabbia suona la batteria con il gusto del non-detto, dell'accennato. Uomo dolce e umile, sa guidare la ritmica senza mai sovrastarla o comunque arricchendola con cenni sofisticati.
Insomma, un signor concerto, da segnare nella Memoria.
Scrivere musica è un'impresa, scrivere musica da film è eroico, scrivere musica da film che abbia dignità propria è addirittura da folli.
Esistono momenti musicali così avvinghiati nelle storie, che spesso li usiamo per titolare i film stessi, tanto da far perdere la loro vera origine: la Cavalcata delle Walkirie è "Apocalypse now", punto; Wagner e il suo Ring possono anche andare a quel paese.
Oppure ci sono brani musicali icastici: io non ho mai visto 9 settimane e 1/2, ma è come se lo conoscessi a memoria, proprio grazie alle lamette vocali di Joe Cocker.
E che dire delle composizioni che salvano film veramente brutti? "Nuovo Cinema Paradiso" è dei Morricone, padre e figlio; non esiste regista, non esiste una pellicola.
E poi ci sono quei brani musicali che non devi toccare in alcun modo, maledizione! In alcun modo! Certi momenti musicali sono evocativi proprio perché sono composti ed eseguiti - e ricordati! - in quel solo unico modo.
Nessuno li deve toccare! Nessuno!
A meno che non sei bravo come Rosario Giuliani, Enzo Pietropaoli, Luciano Biondini e Michele Rabbia.
Conoscevo questo progetto Cinema Italia solo tramite qualche filmetto rubato su YouTube, che certo non rendono merito all'impresa musicale.
Poi, però, ho avuto la fortuna di assaporarlo dentro lo scomodo (ma acusticamente perfetto) Teatro Greco di Orvieto. Confesso che ero scettico, nonostante l'affetto e la stima profondi che nutro per Enzo; anzi, proprio per questo motivo avevo timore di non riuscire a scindere gusto da amicizia.
E però, appena il concerto è iniziato, sono stato rapito da una tale consistenza di note esatte, coraggiose, intelligenti, rispettose ma anche audaci, evocative ma anche spregiudicate, che in alcuni momenti sono stato letteralmente sopraffatto dalle emozioni da dover chinare la mia testa verso il pavimento, per nascondere qualcosa di incontrollabile.
È come se i quattro avessero colto l'anima delle idee di Morricone e Rota, anima che spesso può sfuggire a noi "sacri giudici", così intenti a cercare nell'arte solo un po' di conforto anziché dubbi e vortici.
Conoscevo già il muscoloso e innervato Rosario Giuliani: il suo sax è sempre una conferma. Proprio per questo, temevo qualche sbrodolamento; e, invece, è stato sempre misurato, anche nei momenti in cui virtuosismo e presunzione dovevano giustamente vincere su tutto il resto.
Nutro un grande rispetto per Enzo Pietropaoli perché lavora sempre più per sottrazione: un pregio raro e in via di estinzione. La sua "intro 2.0" al dittico di "Nuovo Cinema Paradiso" è stata una deliziosa sorpresa, per tacer poi dello scambio rotiano con Giuliani stesso.
Non conoscevo Biondini: un viso pasoliniano al servizio di uno strumento per me troppo nazionalpopolare... eppure, gigantesco e sempre coinvolgente.
Rabbia suona la batteria con il gusto del non-detto, dell'accennato. Uomo dolce e umile, sa guidare la ritmica senza mai sovrastarla o comunque arricchendola con cenni sofisticati.
Insomma, un signor concerto, da segnare nella Memoria.
11 gennaio 2015
American Sniper, una recensione obbligatoriamente parigina
Diventa attuale il contesto di questo film. All'improvviso.
Ancor più penetrante se si pensa che Eastwood ha raccontato una realtà senza aggiungere moniti o messaggini di sorta: la storia sta lì, nuda e vera e realmente accaduta, senza che si possa fare nulla per cambiarla, senza che lo spettatore possa aggiungere qualcosa di presuntuosamente proprio.
E il filo rosso che unisce i fatti di Charlie Hebdo e la vita di Chris Kyle è assimilabile in un solo punto: il nostro modello di vita. I morti del settimanale ne rappresenta(va)no l'essenza estrema, perché il nostro modello di vita glielo consentiva; disegnare, fare satira, passare il tempo cioè a cazzeggiare sulle nostre contraddizioni, sulle nostre inutili inutilità.
Chris Kyle, invece, rappresenta l'estremo difensore di questo modello. Il primo baluardo in difesa del nostro diritto di cazzeggiare.
Può piacere o non piacere, ma le cose stanno così.
Onestamente, non conoscevo la vicenda - soprattutto il tristo epilogo: ho potuto, quindi, godermi al meglio l'intera parabola narrativa senza perdermi dietro a preventive analisi tecniche ed estetiche. Certo, il film soffre di "troppa" asciuttezza; si sente, poi, un tentativo di evitare l'agiografia ad ogni costo, soprattutto perché i supermacho reali hanno stancato, relegati ormai - e necessariamente - nelle tutine dei supereroi... però si percepisce nitidamente il crescendum del disagio psicologico del nostro erore, in tutta la disarmante semplicità delle sue possibilità culturali.
Già...
Chris Kyle, cioè, non fa ragionamenti a colpi di Proust, di dotte enunciazioni, di salottiere mistificazioni. Chris Kyle difendeva un modello e difenderà poi le vittime che difendono questo modello. Il suo è un altruismo da soldato, e da soldato dovrà necessariamente morire.
Grande fotografia.
Intrigante la scelta di non incastonare musica nella colonna sonora: l'eccellente epilogo di Morricone dirà tutto (curiosamente non originale: preso, cioè, da uno spaghetti "minore").
Ancor più penetrante se si pensa che Eastwood ha raccontato una realtà senza aggiungere moniti o messaggini di sorta: la storia sta lì, nuda e vera e realmente accaduta, senza che si possa fare nulla per cambiarla, senza che lo spettatore possa aggiungere qualcosa di presuntuosamente proprio.
E il filo rosso che unisce i fatti di Charlie Hebdo e la vita di Chris Kyle è assimilabile in un solo punto: il nostro modello di vita. I morti del settimanale ne rappresenta(va)no l'essenza estrema, perché il nostro modello di vita glielo consentiva; disegnare, fare satira, passare il tempo cioè a cazzeggiare sulle nostre contraddizioni, sulle nostre inutili inutilità.
Chris Kyle, invece, rappresenta l'estremo difensore di questo modello. Il primo baluardo in difesa del nostro diritto di cazzeggiare.
Può piacere o non piacere, ma le cose stanno così.
Onestamente, non conoscevo la vicenda - soprattutto il tristo epilogo: ho potuto, quindi, godermi al meglio l'intera parabola narrativa senza perdermi dietro a preventive analisi tecniche ed estetiche. Certo, il film soffre di "troppa" asciuttezza; si sente, poi, un tentativo di evitare l'agiografia ad ogni costo, soprattutto perché i supermacho reali hanno stancato, relegati ormai - e necessariamente - nelle tutine dei supereroi... però si percepisce nitidamente il crescendum del disagio psicologico del nostro erore, in tutta la disarmante semplicità delle sue possibilità culturali.
Già...
Chris Kyle, cioè, non fa ragionamenti a colpi di Proust, di dotte enunciazioni, di salottiere mistificazioni. Chris Kyle difendeva un modello e difenderà poi le vittime che difendono questo modello. Il suo è un altruismo da soldato, e da soldato dovrà necessariamente morire.
Grande fotografia.
Intrigante la scelta di non incastonare musica nella colonna sonora: l'eccellente epilogo di Morricone dirà tutto (curiosamente non originale: preso, cioè, da uno spaghetti "minore").
01 febbraio 2010
l'uomo che verrà
Premessa tecnica: è un buon film, la regia è sapiente, la fotografia ottima, addirittura - e finalmente! - la presa diretta è stata curata con doverosa professionalità, la coralità degli attori funziona, la musica a volte ricorda quella del Morricone di Mission ma è puntuale ed elegante. L'unico difetto è nel ritmo: Diritti vuole strafare e collabora al montaggio, peccando spesso di autoreferenzialità con tempi inutilmente troppo lenti, che appesantiscono un film altrimenti esemplare. Va da sé che essendo anche coproduttore si è potuto permettere di non autointralciarsi: ma in questi casi vale sempre la vecchia lezione americana (ognuno al suo posto).
Premessa narrativa: la trama è avvincente (... di storia ce n'è ben poca), anche se sono evidenti molti (troppi?) debiti con i migliori fratelli Taviani e con l'Albero degli zoccoli di Olmi (e per fortuna che non si vede il maiale torturato dalla macellazione).
Sicuramente l'idea di far recitare in dialetto, di far vedere senza indugi lo sporco (elegante e soffuso, ma sempre sporco è), di scrutare dentro le microquotidianità dei contadini emiliani, sono tutti ingredienti intelligenti e ben misurati. Il tutto, insomma, ruota a meraviglia se non fosse per quant'ho già premesso: a volte - specie verso il finale (un po' troppo "telefonato") - il film è inutilmente pesante, peccando quindi di una ricerca manierata verso stili e idee da vecchio cinema italiano che non si può rincorrere ma solo rispettare.
Dibattito. Qui arrivano le magagne. Innanzitutto checché ne dica, Diritti prende posizione, in maniera misurata e dissimulata certo, ma c'è qualcosa che dà un senso di pesante arbitrarietà. Attenzione, però: la trama è nota, ma se non volete sapere come si sviluppa il film, fermatevi qua, perché certe inquadrature tradiscono un coinvolgimento ben preciso e vanno quindi descritte.
L'"eroismo" dei partigiani viene fatto intravedere solo da lontano (bellissima la scena della descrizione tramite una fanciulla che sale e scende da un campanile per raccontare la battaglia). Quando li vediamo più da vicino, i partigiani o sono feriti, o stanno per abbandonare il campo, o uccidono alle spalle un fantaccino tedesco, o assistono alle stragi senza intervenire.
Ora, io non pretendo che per forza, sempre e comunque venga fatto un elogio del partigiano. Ma quelle di Diritti sono scelte dialettiche ben precise, confortate sia da alcuni dialoghi nodali tra i campagnoli (stringi stringi: noi c'entriamo nulla nelle battaglie di sempre, ma siamo sempre messi in mezzo), sia da una dedica piccola piccola intraleggibile sui titoli di coda, dove ci viene detto che il film è dedicato ai contadini che subirono "guerre che non volevano".
Mi vien da chiedere quand'è che un contadino abbia mai "voluto" una guerra. Ma anche se questo non fosse nodale, ancora stiamo a fare i due pesi e le due misure? Non si riesce, cioè, a fare un film decente che racconti i problemi incontrati proprio dai partigiani. Sull'innocenza "a prescindere" dei contadini, delle povere genti, siamo tutti d'accordo; però con film come questo non si fa mai un passo avanti. Ovvio replicare che questo è un film sulla Strage di Marzabotto: ma almeno potevano evitarci questa solita solfa similpansesca in cui la guerra rende cattivi e malvagi tutti, neri o rossi che siano.
Altro punto, magari paranoico ma che mi è saltato addosso immediatamente. La codardia colpisce profondamente il padre della bimba protagonista: poi per riscattarsi si getta contro i mitra nazisti e muore "inutilmente". Mi sa tanto di remissione del peccato prima ancora che venga emendato... sempre che poi essere un contadino codardo sia un peccato.
Altro punto (veramente trascurabile): Beniamina, l'unica che si dimostra mentalmente aperta (tanto da parlare di sesso con una certa disinvoltura), sopravvive "temporaneamente" alla strage, e si dimostra più coraggiosa di tutti uccidendo il nazista cattivo che la vorrebbe possedere. Sa tanto di un voler rovesciare a forza i canonici moralismi di certi film americani, dove alla tipa sarebbe invece capitato il contrario.
Per finire: se questi sono i film della riscossa del cinema italiano, siamo messi molto bene.
Premessa narrativa: la trama è avvincente (... di storia ce n'è ben poca), anche se sono evidenti molti (troppi?) debiti con i migliori fratelli Taviani e con l'Albero degli zoccoli di Olmi (e per fortuna che non si vede il maiale torturato dalla macellazione).
Sicuramente l'idea di far recitare in dialetto, di far vedere senza indugi lo sporco (elegante e soffuso, ma sempre sporco è), di scrutare dentro le microquotidianità dei contadini emiliani, sono tutti ingredienti intelligenti e ben misurati. Il tutto, insomma, ruota a meraviglia se non fosse per quant'ho già premesso: a volte - specie verso il finale (un po' troppo "telefonato") - il film è inutilmente pesante, peccando quindi di una ricerca manierata verso stili e idee da vecchio cinema italiano che non si può rincorrere ma solo rispettare.
Dibattito. Qui arrivano le magagne. Innanzitutto checché ne dica, Diritti prende posizione, in maniera misurata e dissimulata certo, ma c'è qualcosa che dà un senso di pesante arbitrarietà. Attenzione, però: la trama è nota, ma se non volete sapere come si sviluppa il film, fermatevi qua, perché certe inquadrature tradiscono un coinvolgimento ben preciso e vanno quindi descritte.
L'"eroismo" dei partigiani viene fatto intravedere solo da lontano (bellissima la scena della descrizione tramite una fanciulla che sale e scende da un campanile per raccontare la battaglia). Quando li vediamo più da vicino, i partigiani o sono feriti, o stanno per abbandonare il campo, o uccidono alle spalle un fantaccino tedesco, o assistono alle stragi senza intervenire.
Ora, io non pretendo che per forza, sempre e comunque venga fatto un elogio del partigiano. Ma quelle di Diritti sono scelte dialettiche ben precise, confortate sia da alcuni dialoghi nodali tra i campagnoli (stringi stringi: noi c'entriamo nulla nelle battaglie di sempre, ma siamo sempre messi in mezzo), sia da una dedica piccola piccola intraleggibile sui titoli di coda, dove ci viene detto che il film è dedicato ai contadini che subirono "guerre che non volevano".
Mi vien da chiedere quand'è che un contadino abbia mai "voluto" una guerra. Ma anche se questo non fosse nodale, ancora stiamo a fare i due pesi e le due misure? Non si riesce, cioè, a fare un film decente che racconti i problemi incontrati proprio dai partigiani. Sull'innocenza "a prescindere" dei contadini, delle povere genti, siamo tutti d'accordo; però con film come questo non si fa mai un passo avanti. Ovvio replicare che questo è un film sulla Strage di Marzabotto: ma almeno potevano evitarci questa solita solfa similpansesca in cui la guerra rende cattivi e malvagi tutti, neri o rossi che siano.
Altro punto, magari paranoico ma che mi è saltato addosso immediatamente. La codardia colpisce profondamente il padre della bimba protagonista: poi per riscattarsi si getta contro i mitra nazisti e muore "inutilmente". Mi sa tanto di remissione del peccato prima ancora che venga emendato... sempre che poi essere un contadino codardo sia un peccato.
Altro punto (veramente trascurabile): Beniamina, l'unica che si dimostra mentalmente aperta (tanto da parlare di sesso con una certa disinvoltura), sopravvive "temporaneamente" alla strage, e si dimostra più coraggiosa di tutti uccidendo il nazista cattivo che la vorrebbe possedere. Sa tanto di un voler rovesciare a forza i canonici moralismi di certi film americani, dove alla tipa sarebbe invece capitato il contrario.
Per finire: se questi sono i film della riscossa del cinema italiano, siamo messi molto bene.
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