Visualizzazione post con etichetta Testaccio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Testaccio. Mostra tutti i post

04 maggio 2020

il libraio

Ero indeciso se raccontare o no questa storia, perché temevo che il protagonista potesse offendersi. Poi ho avuto un'illuminazione, grazie paradossalmente a un difetto di Repubblica. Io non ne posso più delle narrazioni di questo quotidiano, quando cioè spiega a noi lettori cosa proviamo noi lettori durante questa quarantena, con irritanti frasette salottiere tipo: la fragilità della donna, la libertà negata ai bambini, gli uomini riscoprono la famiglia... ma che palle!
Insomma, a me non piacciono queste narrazioni prefabbricate, e la cosa divertente è che ci stavo cascando io per primo. Per cui vi racconto Roberto. E soprattutto di come restai invischiato nel Repubblica's Theory di cui sopra.
Testaccio ha una libreria molto bella. Non ha tutti i libri che cerchi, ma per fortuna ha tutti quei libri che non immaginavi esistessero. E se poi sei un lettore vorace, puoi anche ordinare quello che non trovi.
Il paradosso di questa libreria è che i ragazzi non sembrano né negozianti né lettori voraci: non hanno l'insistenza del negoziante né la boria dell'intellettuale che fa finta di consigliare libri che neanche lui ha letto.
Per cui io so che posso entrare e comprare, oppure entrare e guardare, oppure entrare e farmi una chiacchierata, oppure tutte queste cose insieme o parte di esse. E senza sentirmi vincolato, obbligato, forzato. 
Roberto è chiaramente quello più quadrato, attento, scrupoloso, preciso e sotto molti aspetti la pietra angolare sia della parte amministrativa che di quella organizzativa. Non è che gli altri siano da meno, ma Roberto ha quel qualcosa che si fa vedere subito.
Ogni tanto chiacchieriamo. Spesso scherziamo. Comunque ha sempre quel pregio di farmi sentire importante ma senza lecchismo.
Un giorno comprai un piccolo libro della Guanda in cui Werner Herzog presenta testo e appunti del suo Fitzcarraldo. Mentre stavo pagando, dissi a Roberto che quell'immagine mi emozionava in maniera quasi commovente. Nel 1991, infatti, ero stato in Brasile per un mese, e in quel del Rio delle Amazzoni vidi una barca pressoché identica, accroccata su un colle vicino alla riva.
Insomma, promisi a Roberto che gli avrei fatto vedere la mia foto, così che il mio languore non fosse solo una rappresentazione della mia nostalgia, ma un fatto realmente accaduto. Roberto annuì, sapendo che avrei mantenuto la mia parola. E, infatti, il giorno dopo gli feci vedere la mia foto... e lui la sua: la Disneyland di Parigi!
Io restai bloccato un microsecondo, ma poi prontamente gli chiesi perché e cercai di seguirlo nella sua nostalgia. Insomma, portando i figli a vedere quel parco incredibile si era commosso lui: era come fosse diventato reale tutto quello che Disney gli aveva fatto vivere quando era piccolo.
Ancora oggi mi dò del deficiente: perché ebbi quel sussulto? Perché ritenevo il mio Fitzcarraldo superiore al suo Topolino! Stavo seguendo il Repubblica's Theory, ca@@o! Ero caduto in quella trappola salottiera, ma soprattutto in maniera istintiva!
Due giorni fa, ho incontrato Roberto durante la fila per la Farmacia. La prima cosa che mi ha chiesto è: come sta tua moglie? È riuscita a rientrare prima che chiudessero Milano?
Roberto 2 - Alessandro 0

30 aprile 2020

beejoux

Accanto a Cesare, qui nel Nuovo Mercato di Testaccio, c'è un omone nato calvo. 
Sì, non c'è altra spiegazione: a lui i capelli li hanno strappati via appena nato; sta così bene come sta adesso, che quasi si stenta a credere che sia stato giovane.
Come tutti i calvi di antica stirpe, non saprei che anni possa mai avere, anche se, calcolando gusti e riferimenti, credo che stia dalle parti della mia sorella maggiore, nata nel '60.
È sempre, dico sempre!, sorridente; con quel faccione che si illumina appena ti riconosce (o fa finta di riconoscerti: così prevengo il vostro cinismo). Ma anche se fosse un sorriso da negoziante, sa farti sentire subito a tuo agio. 
E nonostante il suo negozio sia un buco con la vivibilità di una custodia per smartphone, non mette mai pressione alcuna ai clienti. Puoi girare per ore, smanazzando ogni cosa, e lui sta per fatti suoi, ritoccando quella borsa o riaggiustando le buste nella portina che dà sul retro (un retro che è più piccolo di questo blog, intendiamoci).
L'insegna del suo negozio mette insieme la traduzione inglese di ape (bee) con la parola "bijoux". Devo dire che sarebbe cosa infelice se venisse da qualsiasi altra persona; ma da lui la accetti.
Quando prende in mano una delle sue nuove borse, sembra ti stia porgendo l'originale della Maschera di Agamennone o il Kohinoor. E quando accarezza la loro pelle sembra stia facendo sesso con la donna più sensuale di tutta Roma.
A me dà sempre l'impressione di essere un avventuriero con un bagaglio di esperienze grosso così, che si è dato alla pelletteria per scelta etica, come se in passato fosse stato un soldato della Legione Straniera o un esploratore che ha dovuto uccidere animali e uomini per tornare sano a casa.
Inutile dire che è un passaggio obbligato quando Silvia ed io passiamo da quelle parti, quasi un rito cui non possiamo rinunciare.
Chissà come sta passando questa quarantena.

28 aprile 2020

Coronavirus, calzinaroli

Una dozzina di anni fa, qui a Testaccio mi si avvicina un venditore di calzini e mi chiede qualche soldo. Mentre frugo tra i miei spicci, mi sta appiccicato in maniera petulante; roba che se fossi stato leggermente nervoso gli avrei assestato una capocciata sullo sfenoide. 
Appiccica che ti appiccica, mi scanso sensibilmente e gli dico: se tu vuoi che le persone ti diano dei soldi, devi chiederli una sola volta - e poi stare distante; se ti avvicini, crederanno che li vuoi derubare. Questo è un Rione piccolo: ci vuole poco per farti evitare da tutti.
Lui mi guardò sorridente, si spostò di un metro abbondante e mi porse la mano. Si beccò tutto il contenuto del mio zoccolo portaspicci. 
Qualche giorno dopo, transitando dalla sede Rai di via Teulada a quella di viale Mazzini, mi sento apostrofare con un "Generale!". Considerato che ero pressoché solo lungo tutto il marciapiede, mi giro di scatto e me lo ritrovo davanti. A un metro abbondante di distanza, sorrisone stampato sul faccione e mano tesa. E però non poteva sapere che quando passo da una sede all'altra, porto con me solo il tesserino e lo smartphone; gli spicci rovinano le giacche, si sa.
Gli spiegai il mio rituale, sorrise e si girò dall'altra parte.
La mattina seguente, TAC!, me lo ritrovo di nuovo a Testaccio, mano tesa e sorrisone stampato. "Stavolta non mi freghi", avrà pensato; e, infatti, gli ho dovuto dare qualche spiccio.
Quando poi, verso l'ora di pranzo, me lo sono ritrovato sotto l'ufficio, non mi ha chiesto nulla: aveva immediatamente imparato che qui i soldi li becca, lì invece si attacca.
Si chiama Stephan; non so neanche se sia il suo vero nome. È senegalese, ma potrebbe anche essere ivoriano o del Congo. Ha una faccia da schiaffi come pochi, tanto che ha cominciato a insegnare agli altri suoi compagni di elemosina come ci si avvicina alle persone: "fai come mi ha detto il Generale e ti danno soldi". Io da grande volevo insegnare: in qualche modo, ho raggiunto il mio sogno.
E sono anni, ormai, che me lo ritrovo ovunque vada, come un'ombra gentile. Addirittura, quando sono a lavoro e mi incrocia insieme ad altre persone, mi saluta col bro fist, come fossimo due fratelli che hanno appena segnato il canestro della vita. Per lui sono sempre "Generale!", con quella leggera chiusura in salita sull'ultima E, per sottolineare un po' alla romana che mi sta riconoscendo per un ruolo di prestigio.
Lo so, lo so, chiamerà tutti così, ma a me piace pensare che siamo fratelli di uno spazio tutto nostro, un triangolo dell'immaginazione che va da Testaccio a Teulada, e da Teulada a Mazzini.
Silvia ed io li chiamiamo "calzinaroli": del resto hanno sempre dei calzini con loro, sempre gli stessi; mai che ne avessero venduto un paio. Però fanno parte dell'ecosistema di Testaccio: non passa weekend che non li incontriamo tutti e cinque, tanto che ormai in casa teniamo una sorta di fondo per loro, che poi doniamo in egual misura il sabato mattina.
Oltre a Stephan, c'è quello davanti a Linari ("Ciao, fratello!"), quello petulante ("Ciao signore"), quello vicino al garage ("Amiciii!") e lo spilungone di fronte al negozio dove trovate tutto. Oddio, quest'ultimo ha avuto problemi psicologici seri, serissimi; non riesco neanche ad immaginare quali soprusi abbia subito (o stia subendo).
So perfettamente che in molti sono contrari alle elemosina: da destra, per razzismo contro di "loro"; da sinistra, per razzismo contro quelli come me o mia moglie.
Onestamente, non mi interessa chiarirmi con nessuna delle due fazioni. Quello che mi preoccupa, semmai, è sapere come diamine vivano adesso, come riescano a mangiare, a spedire i soldi a casa; eventualmente, come facciano a curarsi, se vogliamo dirla tutta.

27 aprile 2020

Coronavirus, Satollo

Lei era snob, ma dolcemente snob. A suo modo graziosa, con quell'aria del "che ci faccio qui", tarata però su una forza interiore e una capacità di saper gestire ogni imprevisto.
Lui era esattamente il suo opposto. Dotato di quella pazienza eterna, tipica degli uomini leggermente tondi, riusciva a calibrare sapientemente la sua parte di adulto con quella di bambino che inevitabilmente noi maschi italiani abbiamo decisamente pronunciata.
Si mangiava bene da loro, veramente bene, così bene che anche il nome del loro locale recitava benissimo la sensazione che provavi una volta uscito: Satollo.
Ma non in maniera dinseyana. Era una sazietà alla Agnelli, che lasciava sempre qualcosa sul piatto perché così fanno i signori. Ecco, nel caso loro, erano le porzioni che si fermavano un attimo prima di diventare troppe o troppo poche, prima di scadere nel fighettismo di una certa cucina che ti fa pagare mille un carciofo pagato uno.
Era diventato un quasi ritrovo per chi ama mangiare ma anche stare in compagnia e godersi l'ambiente e quella leggera parvenza di musica che usciva da non so dove.
Se azzeccavi le serate giuste, sembrava di stare in un ritrovo di amici, di amici veri, anche se non ci si conosceva fino a due secondi prima. 
Forse perché era a Testaccio, ma lontano dalle mode e dal localame che ha incrinato la dolce antichità dell'area intorno al Monte dei Cocci. Forse perché Chiara e Davide erano torinesi ma non troppo, romani ma non troppo, concilianti ma non troppo, sapienti ma non troppo.
Tutto in equilibrio, così in equilibrio, che per noi era IL nostro locale; roba che a volte ci seccava trovare altre persone. I due erano solo nostri e nostri dovevano restare.
Un bel giorno, però, decisero di andarsene via, quasi di nascosto, quasi con violenza. In effetti, il loro modello di business era fallimentare in partenza - tanta bontà a prezzi trattenuti, dopo un po' costa; il successo, insomma, tardava a venire. Inesorabile, poi, morire in quella zona di Testaccio così buia e isolata, soprattutto perché non si può vivere di solo passaparola... un po' come avere una trasmissione su Rai3 il venerdì sera; così chi è della Rai capisce meglio.
Adesso stanno in non so quale isola spagnola, isolani e isolati a contare il fior dei gentili anni venuti del loro piccolo figlio ormai grandicello.
Da una parte mi sono sentito quasi offeso, se non comunque meravigliato di una tale scelta così new age. Ragazzi così metropolitani e moderni che scappano dalla città per rifugiarsi dentro un ciottolo di pietra sperduto nell'Oceano dei Ricordi.
Che peccato. Che dolore. Che perdita.
Chissà come stanno passando questa quarantena.

23 aprile 2020

Coronavirus, storia di una commessa

C'è un negozio qui a Testaccio che vende tutto. Letteralmente. A parte alimenti e beveraggio, trovate di tutto, di qualità e a costi contenuti. E anche con un certo ordine. Stavo per aggiungere "e grazia", ma avrei esagerato.
Fatto sta che se vuoi evitare le file (intendo quelle pre Covid-19) o se vai di fretta, è il negozio che fa per te. 
Alla cassa puoi trovare la mi-credo-una-topa, l'emigrato che deve aver avuto certe mazzate sulle spalle che lèvati, la cassiera doc, la superalternativa. 
Alla fine si riesce ad avere un rapporto con tutti, anche perché si vede lontano un miglio che Silvia ed io siamo una coppia collaudata, che si ama e si rispetta e rispetta. Non tendiamo né a strafare né a rompere né a prenderci troppe confidenze: si sceglie, si prende, si paga. E poi sono comunque grandi lavoratori, che si smazzano duramente senza fiatare o lamentarsi più di tanto.
Silvia ed io, però, avevamo un occhio per la superalternativa. Tonda, tondissima, capelli corti spesso colorati, piercing e tatuaggi in giusta misura, un'educazione romanesca decisamente autosevera, tanto che nonostante le nostre insistenze condite da spontaneo affetto, aveva una certa difficoltà a darci del "tu".
Parentesi: io per farmi la barba avrei bisogno di un machete affilato per ogni singolo pelo, per cui consumo una quantità considerevole di lamette. E, come sapete - anche se non vi fate la barba, le lamette costano parecchio.
Una settimana sì e una no, acquisto un pacchetto di lamette in questo negozio... ma una volta le lasciai lì sulla cassa. Per una serie di motivi non passammo per quindici giorni. 
Una volta tornati, la superalternativa ci accolse con le lamette in mano: "avevate dimenticato queste". Io sono rimasto a bocca aperta per mesi, Silvia un po' di meno: e chi se l'aspettava?!
Fatto sta che da quel giorno siamo riusciti ad entrare dentro l'umanità di questa ragazza così speciale, dal sorriso sempre pronto - ma anche professionale, rapida, e pronta a chiudersi civilmente di fronte al primo rompicoglioni.
Qualche mese fa, Silvia ed io ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: "ehi, ma è un po' che non incrociamo quella ragazza? Non può essere che non siamo mai riusciti a incrociare i suoi turni!".
E allora sono andato a chiedere lumi all'extracomunitario: "l'hanno licenziata!". E perché mai? Era così perbene e civile! "Non so che dirle, ma dev'esserci stato qualcosa... io la vedo domani: se vuole ve la saluto". E certo che ce la saluti.
Chissà dove sta adesso questa superalternativa, chissà come sta passando la quarantena.

22 aprile 2020

Coronavirus, Franco il gangesterr

Sono ventuno anni che vivo a Testaccio e non l'ho mai visto invecchiare. 
Mai.
Non l'ho mai visto stanco.
Nemmeno litigare con qualcuno o discutere animosamente.
Mai.
Ecco, a essere onesti ogni tanto litiga con le consonanti, tanto che nel nostro strampalato lessico famigliare, Silvia ed io lo abbiamo soprannominato "Ganghster", dove la seconda G è morbida come in "gioco": gangesterr, più o meno.
È che una volta lui ed io parlavamo del più e del meno, e lui definì alcuni loschi figuri della Testaccio anni '70 come dei gangesterr; e quando mi caschi su certe cose, per quanto io ti voglia bene, mi dispiace ma ti condanno col soprannome (del resto, domani parlerò della Cicciona, perché in lei vive il personaggio di BC).

In realtà si chiama Franco, ed è stato fedele solo alla sola donna che abbia mai avuto - e che morì giovanissima, ma dopo avergli donato tre figli: due maschietti e una femminuccia. 
La femminuccia si chiama... Francesca (originale, eh?): piena di piercing e tatuaggi, agile, sveglia, vitale e sempre pronta a vedere tutto in proiezione. Mai una caduta... perché forse è caratterialmente abituata a rialzarsi subito.
I due maschi, onestamente non ricordo come si chiamino; e non perché essendo io un maschio ricordo solo i nomi di donne (maliziosi che siete!), ma perché ogni volta che gliel'ho chiesto hanno confabulato un "Sbrichoplosnoap" che sfido chiunque a decrittare.
Franco fa il fioraio da una vita.
Non credo abbia mai preso un solo giorno di ferie. 
Lavora indefessamente dalla mattina alla sera, lasciando poi che durante la notte se la sbrighino due bengalesi: a Roma puoi occupare il suolo pubblico in circostanze azzeccacarbugliesche, e pagando molto; i fiorai ne sono esenti, a patto che svolgano contestualmente la loro attività. 
Franco ha tre ciuffi di riporto: non si spostano neanche con un tornado F5 della Scala Fujita. 
Freddo a caldo che faccia, indossa sempre e solo una camicia: manica sinistra arrotolata fino al gomito, la destra poco dopo il polso. Scarpe simil clarks allacciate alla disperata. Pantaloni senza orlo che se fai tre passi inciampi e ti spacchi tutti i denti.
Ha due occhi celesti che vorrebbero parlarti per ore, e un bellissimo sorriso ancora giovane, a metà tra il primo Mastroianni e il Ferzetti dell'Avventura.
Il suo stato d'animo è sempre in bilico tra la figlia furiosa e viva e i due ragazzi che sommessamente rimpiangono storie d'amore finite da un pezzo Insomma, lui non sa di avere una battaglia interiore tra il vivere la vita o soccombere alla depressione. Ma dopo un po' chi gli sta accanto se ne accorge.
Quello che vedo io è un uomo buono, dolce, gran lavoratore, innamorato della figlia e dei nipoti - e sempre alla ricerca dello spirito della moglie, che sicuramente in questi giorni gli starà più vicino per coccolarlo a dovere.

21 aprile 2020

Coronavirus, l'Innominata

Pioveva. Ma pioveva di brutto.
Del resto Roma è tra le città più piovose d'Europa, addirittura prima di Londra. La nostra è una pioggia cafona, grossolana, pesante e dirompente; quella di Londra, invece, è come i loro volti cavallini, vaporosa e fighetta.
Insomma, pioveva che avresti dovuto tarare il tergicristallo ben oltre il limite massimo previsto. 
Chi è di Testaccio sa perfettamente che è mille volte meglio percorrere via Vespucci invece del Lungotevere; anche ad agosto, quando ci sono pochissime auto, risparmi almeno cinque minuti di tempo, se non addirittura dieci, quando cioè il traffico è pesante.
Certo, corri il rischio di trovarti una botticella davanti o la solita mammetta accompagna-figli-che-va-lenta-e-se-ne-frega-del-mondo; ma sono rischi calcolati.
Fatto sta che il semaforo di via Vespucci è ben che pericoloso: pedoni che attraversano col rosso e che vedi all'ultimo momento, amministratori delegati del verduraio che posso passare col rosso da via Marmorata, poliziotti e autisti Atac che possono tagliarti la strada perché dal lungotevere decidono di tagliare verso Ponte Sublicio.
Pioveva. Pioveva di brutto.
E quando piove, al centro dell'incrocio si forma un immenso pozzangherone, che se ci peschi dentro ritrovi il rasoio e i preservativi di Romolo.
Il semaforo è rosso. 
Ripasso con la mente tutti i rischi, dicendomi che con questa pioggia figurati se qualcuno si azzarda a fare manovre improvvise. Tant'è che i pedoni stavano fermi sotto i cornicioni, da via Marmorata era una gara a chi si fermava prima del pozzangherone, dal lungotevere addirittura evitavano di guadare quel pozzangherone. 
Mi mancava la sola parte che non vi ho elencato: quelli che vengono da Ponte Sublic... mortacci sua! Un deficiente con una Ritimo anteguerra passa a palla col rosso pieno e mi sfiora così da vicino che partono i suoni dell'allarme di prossimità, quello che ti aiuta per i parcheggi (o per uccidere pedoni stupidi, a scelta). Insomma, avevo rischiato brutto. Così brutto che il tipo dietro a me mi fece un cenno tipo "hai avuto culo, eh?".
Ma perché avevo rischiato così tanto?
Perché poco prima avevo incontrato l'Innominata! 
Ora: io sono totalmente opposto al "non è vero ma ci credo", perché trovo addirittura intollerabile una cedevolezza simile; mi urta il sistema nervoso. La sfiga non esiste, la sfortuna nemmeno, la superstizione è la debolezza degli ultimi.
Però: ogni volta che incontro l'Innominata, mi accade sempre qualcosa di brutto. Sempre. 
Oltretutto, quel giorno mi aveva salutato con un bel: "io non capisco chi non crede in dio: prima o poi gli capiterà qualcosa e allora crederà in dio".
In effetti si alimenta di queste piccolezze: la vedi sempre lì col suo vocione a parlar male di tutti, di tutto, a lamentarsi, a cercare approvazione anche e solo con lo sguardo.
Onestamente mi fa una tenerezza infinita, anche se stento ad immaginare che una volta, qualche cretaceo fa, sia stata una giovane, magari piena di aspettative e speranze.
È il ritratto di Dorian Gray di se stessa: lisa di rancori e giudizi, nasconde sicuramente da qualche parte anche una certa dolcezza... che poi il volto le si illumina giusto quando parla del figlio (che - diciamolo - non è proprio uno stinco di santo).
Però, e alla fine, fa parte dell'ecosistema di Testaccio. 
Anzi, sotto molti aspetti preferisco questo suo modo semplice, esplicito e diretto di odiare il Pianeta, piuttosto che quelli che entrano da Linari con il Foglio o Internazionale sotto braccio, e hanno parcheggiato in doppia fila davanti al posto riservato ai disabili.
Testaccio è anche l'Innominata... sperando sempre di non incontrarla, s'intende.
Chissà come starà passando questa quarantena.

20 aprile 2020

Coronavirus, un vecchio e la figlia

Lo incrociavo spesso quando ancora si affittavano i dvd a cento metri da casa mia. Ormai in pensione, si divertiva a girare tra le copertine dei dvd, giusto per farsi quattro chiacchiere con i ragazzi. Ma non credo andasse nella stanza rossa, là dove regnavano Rocco e i suoi fratelli... non quelli di Visconti, l'avrete capito.
Con me scambiava poche chiacchiere, ma mi chiedeva sempre come stavo, come andava la causa con la Rai, come stava mia moglie. Sembrava sempre molto attento, quasi appassionato della vita degli altri. E quando lo incontravo per strada - almeno una volta al giorno, sembrava una festa tra amici.
Un bel giorno, mentre attraversava la piazza di Testaccio appena rimessa a nuovo, fu colpito sulla nuca da una pallonata. Proferì poche parole di dolore. Il genitore del bimbo neanche gli chiese scusa; tenendo conto, poi, che non solo lì è vietato giocare a palla, ma che a Testaccio ci sono almeno due enormi aree attrezzate per i bimbi che vogliono giocare a calcio... vabbè, lasciamo perdere.
Insomma, la pallonata gli staccò la retina, e di brutto. Per mesi andava in giro con la benda sull'occhio. Poi è guarito... 
Ma c'è qualcosa che non vi ho detto. Forse apposta, forse perché andrebbe raccontata insieme: con un occhio dovreste leggere una storia, e con l'altro il suo opposto.
La figlia di questo piccolo uomo con capelli impomatati e le rughe dolci, è un'alcolista. 
Un contrasto così stridente e doloroso che onestamente non saprei come metterli insieme. 
Ovvio: un uomo in pubblico è una cosa e in privato è un'altra. Ma non è questo il punto, anche perché rischiamo di prendere posizione senza sapere nulla.
Posso giusto immaginare cosa diamine gli passi per la testa, anche se poi io ho delle sovrastrutture che lui potrebbe anche non avere.
E posso anche immaginare mille storie dietro la vita di lei, invece. Le narrazioni non mancano, insomma.
Certo è che non sono mancate le volte in cui abbiamo dovuto chiamare la polizia: quando sfregiava le auto in sosta, o quando boccheggiava sotto la pioggia tipo insetto sulla schiena che non riesce ad alzarsi.
L'altro giorno l'ho vista biascicare qualcosa a una pattuglia, che chiaramente aveva ben altro cui dedicarsi; tanto che uno dei due poliziotti l'ha trattata proprio male, come un'ubriacona da buttare nella spazzatura. Che pena. Che pena infinita.
Due giorni dopo era in fila con noi, ma il pizzicagnolo le ha detto che non le avrebbe venduto la birra. Lei lo ha sfanculato e poi si è girata quasi cadendo; aveva i jeans sporchi di piscio.
Ogni giorno barcolla intorno ai nostri palazzi come se niente fosse. Mentre questo strano virus miete vittime e posti di lavoro, lei galleggia, sopravvive, vaga senza meta tra le nostre ombre.

17 aprile 2020

Coronavirus, il Roscio

Stava sempre davanti all'edicola di Mauro, fisso come un lampione, lì sulla sinistra. 
Appena arrivavo verso le 7:40, mezz'inchino e mille domande sulla Rai. 
Onestamente non ho mai saputo che nome avesse, né tantomeno cosa diamine facesse per mantenersi. 
Mi ricordava certi ragazzetti dei film irlandesi, con capelli spettinati che hanno litigato col barbiere, un sorriso sempre aperto alle cose più semplici della vita, di quelli che nei gruppi stanno simpatici a tutti.
Conosceva tutti a Testaccio, ma proprio tutti. E non faceva nulla per nascondere i suoi oltre 60 anni: con un viso così rubizzo poteva sembrare mio fratello o mio nonno.
Lo vedevi spesso fumare e parlottare al bar più frequentato del Rione, seduto fuori con quelli che almeno una volta nella vita si erano fatti i tre scalini di Regina Coeli, spesso per motivi per cui oggi neanche ti fanno la multa. 
Gente con ex muscoli sulle braccia, che di ceffoni ne avevano tirati e presi. Omoni con le mani piene di dita che adesso soccombevano alla presbiopia o alla calvizie, nascondendo gli occhiali da lettura dietro quelli da sole o tingendosi i tre capelli rimasti con lucido da scarpe comprato dai cinesi.
Gente de' popolo che guardava mia moglie e il sottoscritto con una curiosa miscela di bonaria tolleranza: noi, borghesucci viziati, perbene, profumati, laureati... figuriamoci noi della Rai, osservati a distanza come bestie rare - da amare e odiare al tempo stesso.
Un giorno, il Roscio non riesce più a scaricare uno dei suoi giochetti preferiti dallo smartphone. Mi chiede aiuto. Ma poi chiede anche aiuto a mia moglie per un problema sulla carta di credito. 
Era anche un po' in imbarazzo perché tra le foto conservate c'erano anche quelle della figlia: temeva che avremmo pensato fossero di origine dubbia... figuriamoci, un pezzo di pane così che perde tempo dietro donnine svestite.
Insomma, in dieci minuti riusciamo a svolgere i nostri favori con perizia e affidabilità. Lui ci guarda come se avessimo inventato la penicillina, ci offre due ciambelle grosse come uno stadio e un caffè bollente. Ci ringrazia in maniera plateale, davanti ai suoi amici, che immediatamente cambiano sguardo: da oscuri rappresentanti di una classe fastidiosa diventiamo gli eroi della giornata, della settimana, del mese e dell'anno.
Da quel giorno, ogni volta che lo incontravo, il Roscio si sbracciava sorridente con tanto affetto e amicizia. E io mi sentivo veramente fuori da questa autenticità, che invece farebbe tanto bene alla mia presunzione.
Sono almeno cinque anni che il Roscio vive fuori Roma. 
Chissà come sta vivendo questa quarantena.

10 aprile 2020

Coronavirus, l'avevo previsto

Adesso, a distanza di tempo, posso dirlo senza sembrare cinico o opportunista: tutto quello che stiamo vivendo, io l'avevo previsto nel mio romanzo "L'ombra dietro al muro".
A suo tempo la presentazione puntava sulle reali intenzioni del mio testo: raccontare a mio modo quello che provo per la mia signora; e l'unico modo che conosco è usare le mille passioni che affollano il mio psicostrambo cervello e disporle come un romanzo fantapoetico.
Va detto che fantapoetico è una definizione di una mia collega, che peraltro mi garantì grande pubblicità tra le sue amicizie influenti, ma poi se ne dimenticò.
Certo, adesso potrei modificare la presentazione con un furbo ammiccare a quanto sta accadendo, magari con un riferimento letterario che ancora nessuno ha usato: l'amore ai tempi del coronavirus... originale, eh?
In estrema sintesi: per non si sa quale motivo, tutte le persone cominciano a sparire; al loro posto, delle amimiche entità che io chiamo "quelli là". Purtroppo, però, sparisce anche mia moglie.
Nella seconda parte del testo, la cerco disperatamente finché non mi imbatto in un gruppo di resistenti, che però... eccetera eccetera.
Onestamente, sembra più avventuroso a raccontarlo così che a leggerlo. Anzi, abuso di varie sperimentazioni letterarie e di citazioni più o meno colte (l'aereo che passa, il telefono che squilla, l'elenco telefonico), che ai più possono (giustamente!) sfuggire, ma che a me diverte un mondo buttare là... addirittura l'orario della sveglia è un omaggio a un filmetto di Zack Snider, butto dentro anche una frase di Byron e molte altre cose.
La grande soddisfazione che registrai fu una richiesta di mio suocero: per il suoi 70 anni volle regalarne una copia ad ognuno degli invitati... da quel giorno non gli rivolgono più la parola :-)
Il romanzo finisce e non finisce. Ma non è questo il punto: il punto è che molte cose che rendo come allegoriche, qui stanno accadendo sul serio.
Non è un invito all'acquisto, per carità, ma almeno mi sono tolto la soddisfazione di dirlo. 
Del resto, in un altro romanzo di molti anni fa ipotizzavo lo streaming e l'e-book prima ancora che se ne parlasse così diffusamente come in questi ultimi lustri.
Una cosa è certa: auguriamoci che nella realtà non si finisca tutti qui assediati a Testaccio, come nel romanzo, perché col cavolo che smonto le mie librerie per farvi dormire a casa mia...

15 marzo 2020

Coronavirus, da un disastro, la Bellezza

Secondo voi, si può passare da un vulcano e arrivare a Kirk Douglas? 
E, soprattutto: perché?!
Aprile 1815, Indonesia. Il vulcano Tambora esplode, letteralmente, raggiungendo il livello 7 dell’indice di esplosività vulcanica; Pompei fu del 2, così vi fate un’idea. La sua attività dura fino all’agosto dello stesso anno, generando tsunami più o meno rilevanti - nonché una quantità incommensurabile di materiale vulcanico che raggiunge l’atmosfera e lentamente avvolge l’intero globo. Le vittime sono 12.000, ma non possiamo certo calcolare quelle successive al disastro ambientale che ne consegue, come inondazioni e siccità. L’anno successivo, infatti, è il celebre “anno senza estate”. 
In pochi mesi, progressivamente anche il cielo di tutta Europa diventa così terso da ispirare al pittore William Turner quei suoi magnifici tramonti.
Ma non è il solo artista a restare affascinato da quella situazione.
Infatti, nel 1816, nella Villa Diodati in Svizzera , si ritrovano tre letterati e un loro attendente: influenzati da quel clima così evocativo e appassionati da dozzinali racconti gotici tedeschi, vogliono scriverne di nuovi, scambiandosi idee ma anche sfidandosi a chi scriverà l’opera migliore.
Ne parla - molto a modo suo! - Ken Russell nel poco riuscito film Gothic (1986), di cui si salva giusto la colonna sonora di Thomas Dolby, già produttore dei Prefab Sprout e pioniere di un’elettronica senza frontiere e pregiudizi.
Il più noto tra questi è George Byron, immenso poeta, padre di Ada (già, proprio quella cui è dedicato l’omonimo algoritmo). Byron scrive Darkness, uno dei poemi più belli della Storia, non solo inglese. 
Se non siete influenzabili da temi così imponenti, vale la pena leggerlo; altrimenti, aspettate la fine di questa crisi. L’edizione italiana con la migliore traduzione è quella Einaudi, purtroppo fuori catalogo.
Il suo attendente, Jon Polidori, scrive un brevissimo libello dal titolo Il vampiro. Secondo l’elegante saggio dell’antropologo culturale Vito Teti, sarebbe stato lo stesso Byron ad avergli buttato giù una bozza dozzinale. Comunque sia, l’inquietante figura è chiaramente ispirata al sommo poeta… in maniera chiaramente sprezzante, visto che Polidori non amava certo il suo padrone.
Poi abbiamo Percy Shelley: scrive Il Prometeo liberato, forse l’unica datata tra le idee di quel simposio; per quanto bella, ha uno stile sin troppo ottocentesco. Shelley è seppellito nel Cimitero Acattolico di Testaccio, accanto a Keats (quello dell’Urna greca, per intenderci), Gramsci (cui Pasolini ha dedicato un bellissimo poema) e… Camilleri.
La vera sorpresa ce la regala sua moglie, Mary Wollstonecraft. Femminista ante litteram, bella, intelligente e colta, scrive Frankenstein. A seguire quel matto di Russell, la trama sarebbe condizionata da un presunto aborto spontaneo; fatto sta che quel capolavoro dovrebbe girare anche per i nostri licei, se solo in Italia crescessimo un pochino e la smettessimo di circoscrivere tutto in generi sprezzanti.
Fin qui, tutto bene, ma manca Kirk Douglas, peraltro morto recentemente a soli 100 anni.
Lo sappiamo, è stato protagonista di eccellenti pellicole, non ultima lo Spartacus di Kubrick, le cui difficoltà produttive vengono raccontate con rara ironia proprio da Douglas in questo simpatico testo.
Ma c’è un’opera meno nota che lo vede tra i protagonisti: Lettera a tre mogli (1949) di Joseph L. Mankiewicz (sofisticato regista di capolavori come Eva contro Eva, Cleopatra, Un americano tranquillo, per dire). Diciamo placidamente che la trama è stata alquanto abusata, non ultimo dalla serie Desperate Housewives (anche se qui la lettera è in realtà una voce fuori campo di una quarta amica ormai morta).
La trama è semplice, liquida e lineare: una donna invia una lettera, appunto, a tre mogli, scrivendo che ha avuto una relazione con uno dei mariti. La sua voce fuori campo è una sfida alle regole cinematografiche, visto che notoriamente è sinonimo di debolezza strutturale (Viale del tramonto è l’eccezione che conferma la regola): eppure è una formula vincente e accattivante, tanto da vincere l’Oscar per la regia e la sceneggiatura non originale.
Kirk Douglas interpreta un professore squattrinato, fiero della sua passione per la cultura, ma chiaramente messo da parte perché “intellettuale”. Ad un certo punto, verso la fine del film, quando scorge una delle protagoniste scendere lentamente le scale, così elegante e sensuale, declama: “She walks in beauty, like the night / of cloudless climes and starry skies…”, Ella cammina radiosa come la notte, di climi tersi e di cieli stellati… è una poesia di Byron, proprio lui. 
Ce l’abbiamo fatta: dal Tambora siamo arrivati a Kirk Douglas!
Dimenticavo. Per i malati di Star Trek: tale poesia viene declamata anche da Spock nel terzo episodio della terza stagione della cosiddetta Serie Originale.
Insomma, da un disastro come quello del vulcano Tambora, l’Umanità ha saputo reagire con la Bellezza. Basta volerlo.

12 marzo 2020

Coronavirus, un ramoscello di rosmarino

Sabato scorso, mia moglie ed io ci siamo messi diligentemente in fila davanti al supermercato, con una sportina di cotone a testa: dovevamo fare poca spesa - e poi non avevamo certo l'aria di quelli che avrebbero preso d'assalto il supermercato, tanto che siamo passati quasi inosservati mentre ci incastonavamo tra le altre persone in attesa.
Dal nulla, si avvicina una signora, di quelle che provano a essere curate, cui manca però il senso dell'estetica: non è che due pallotte di trucco sulle guance e un rimmel dozzinale inciso a forza attorno agli occhi ti trasformino in milf megagnocca; ma lei ci credeva con tutti i sentimenti. E poi era vestita come se avesse litigato con la parte più elegante del suo armadio di balza cinese.
Ha guardato la ragazza che monitorava i transiti, poi la fila (ormai lunghetta), poi la ragazza e poi la fila: "devo prendere solo un ramoscello di rosmarino", ha detto, come fosse la necessità del Pianeta, come si sentiva Luke Skywalker prima di mettere il missile risolutivo nel culo della Morte Nera.
Sembrava che quel ramoscello di rosmarino fosse la soluzione di tutti i suoi problemi. Mi immaginavo lei che torna a casa, il marito vecchio e maschilista che aspetta il pranzo, come un despota marchiato a fuoco dal livore per una vita fallita; lei costernata che gli chiede scusa se ha dimenticato il rosmarino, lui che neanche la guarda, borbottando cose tipo "sei sempre la solita".
Era disperata questa signora, e si voltava continuamente intorno alla ricerca di una soluzione, magari scolpita nella facciata di qualche palazzo, oppure disegnata da qualche sbilenco writer de' noantri.
La fila era sempre più corposa, e molto disciplinata, a parte una vecchia sulle stampelle che tossicchiava sommessamente senza coprirsi la bocca... ecco, però va detto che questa signora faceva la fila ordinatamente, nonostante il buonsenso civico avrebbe dovuto farla passare per prima.
Ma se non facevamo distrattamente passare lei, figuriamoci la quasi-milf alla ricerca del rosmarino perduto.
Insomma, alla fine si è alzata una sola voce, di quelle che trovi giusto a Rete4 durante le trasmissioni nazionalsovraniste: "anche noi abbiamo poca roba da comprare e però siamo in fila ordinatamente".
La quasi milf del rosmarino perduto ci ha guardati spaesata, forse perché abbiamo usato il suo metro di giudizio, quello che usava lei nei tempi normali.
Ma questi tempi, tanto normali non sono. Un po' mi sono sentito in colpa, un po' ho pensato che è proprio in queste situazioni che non dobbiamo sbracarci.
Sicuramente in qualche casa di Testaccio c'è un arrosto cotto senza rosmarino.

09 marzo 2020

il COVID-19 che abbiamo coltivato per anni

Alle origini di un disastro ci sono sempre uno o più modelli di riferimento. Ed è quasi ridicolo meravigliarsi o far finta di non conoscere le origini del caos, perché il caos ha sempre una sua struttura - e questi modelli sono alla base della coerenza di questa struttura.

Un modello preso a caso è il tasso di alfabetizzazione di un Paese. L'Italia lo ha molto alto (femmine 99,9%; maschi 99,7%), ma da correlare a una scuola dell'obbligo che fa sorridere (fino a 16 anni) e con tassi di abbandono scolastico sconfortanti: la percentuale di uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione vede il 14% dei giovani; si tratta di quei ragazzi tra i 18 e i 24 anni che hanno lasciato la scuola dopo aver al massimo raggiunto la licenza media.

A questo, aggiungiamo che il 28% degli italiani è analfabeta funzionale. 


L'80% dei nostri ragazzi legge un libro, ma solo nelle famiglie in cui tale abitudine è già presente; altrimenti scendiamo al 38%.

Abitudine alla lettura che però crolla quando si va dai 40 anni in su: la media italiana vede solo il 41% degli italiani leggere almeno un libro l'anno, ma solo il 12% legge un libro al mese.

Neanche è una questione di prezzi, considerato che sussiste anche l'e-book. Ma qui si verifica un altro problema, collaterale ma significativo: 18 milioni di italiani non hanno internet; 10 milioni non navigano. Quale delle due torte veda unità sovrapposte, è difficile dirlo; ma i due dati sono sconfortanti.


L'Italia è il Paese che confonde Foibe e Shoah, mettendole sullo stesso piano. L'Italia è il Paese dove il quotidiano più venduto stampa 200.000 copie/dì; che poi non significa "acquistate". 

L'Italia è il Paese con solo il 26% degli italiani tra i 25 e i 34 anni in possesso di un diploma universitario. Siamo penultimi nella UE; l'ultimo è la Romania

E abbiamo parlato di numeri attuali. 

Per non andare tanto per il sottile, Democrazia Cristiana e Partito Comunista si sono spartiti l'ignoranza del Paese: anziché debellarla, l'hanno prima compatita e poi indirizzata, mantenendo, per esempio, una condivisa visione antiscientifica che è sempre sopravvissuta a se stessa. Oggi trova il suo alveo culturale nei no-vax, ma è assai più diffusa, sottile e impercettibile.

Ignoranza scientifica e arroganza popolana: mettetele insieme e avrete la gente per strada, anziché dentro le case.

Del resto, anche la Cultura ha subìto un trattamento a dir poco disonesto. Anziché farla percepire come un "piacere", un "gioco", un "diletto", con buona pace di chi asserisce il contrario, la Sinistra si è sempre eretta a sua unica sacerdotessa, con i risultati che respiriamo ogni giorno.


Anziché accompagnare le persone verso la Cultura, la Sinistra l''ha trasformata in una sua rocca da dover "spiegare" agli ignoranti, con scelte intellettuali che privilegiano amici e conoscenti, furberie e incomprensibilità, trasformando ogni senso artistico in una pesante e pedante rottura di coglioni.


Esiste poi un territorio neutro che vede autotutelarsi una trasversale élite di élitari, senza distinguo di tessere. Due bambocci fanno il tiro a segno sulla testa di una povera disgraziata? Scatta la protezione bilaterale.


Al Concorso faccio passare tuo figlio? Bene, ricordatelo quando sarà il mio turno; altrimenti tiro fuori dal cilindro il ricorso al Tar.

Del resto, il Terrorismo italiano ha visto sin troppi irresponsabili giochicchiare con il futuro del Paese, per il solo gusto di giocare a guardia e ladri con coetanei di fazione opposta.


Ne sa qualcosa Calabresi, contro il cui padre si sono scatenati fior di nomi che fino a un lustro fa ci scassavano i coglioni col loro ditino moraleggiante, mentre invece negli anni '70 auguravano la morte alle Istituzioni.

E perché? Perché, come insegna Tomasi di Lampedusa, l'uomo che rappresenta l'ordine non è visto come amico e protettore, ma come simbolo dell'invadenza dello Stato.

Confondiamo le cose con il loro utilizzo, con una facilità così disarmante e totalizzante, che a volte anche il più puro ed idealista cade nella trappola dell'equivoco.

Ma è per primo il nostro Stato di parte ed elitario a mischiare sapientemente doveri e capricci, porcherie e senso dell'istituzione. 

Il grillismo ha confuso i territori, reputando inutile la Sostanza della Formazione, senza invece combattere l'Apparenza dell'Ipocrisia.

Ma, scusate, quando Renzi correva verso il suo Sole, non si comportava allo stesso modo? Regole, buona educazione e rispetto per l'etica: tutte cose belle, ma negli altri.
Io sono io e voi non contate un cazzo, al netto che poi i social lo hanno involontariamente aiutato.

L'Informazione italiana non controlla il Potere, ma lo accompagna o lo dileggia a seconda delle convenienze, generando partitismi che attraverso i social hanno raggiunto modelli soffocanti. Mi ha fatto quasi pena Repubblica (mio ormai ex quotidiano): fino a ieri titolava bordate di panico sul COVID-19; e poi d'un tratto invita alla calma. E nessuno a dirgli quant'è stato ridicolo.


La Criminalità organizzata presidia intere aree dell'Italia (non solo) del Sud? Bene, boicottiamo i calimeri della Magistratura che provano veramente a colpire.

E tutti a dire che però manca lo Stato, manca la Cultura, manca la Scuola. E chi lo dice, magari vivacchia implementando i suoi legittimi guadagni da scrittore con serie televisive che favoleggiano sulla violenza anziché su chi questa violenza la combatte.

Non esiste un solo provvedimento di un qualsivoglia governo - da che sono in vita (1966), che abbia aumentato le spese per la Ricerca, per la Scuola e per la Sanità.


Non ricordo un solo politico che abbia avuto anche il coraggio (magari diplomatico ma fermo e deciso) di dire chiaramente che siamo un popolo con una maggioranza di furbi, di egoisti, di maleducati - e che quindi le regole vanno fatte rispettare con l'urlo anziché con la persuasione.


Il nostro modello di vita è individualista, autoreferenziale, familista e basato sul ricatto reciproco. 

In pochi dicono quello che va detto o agiscono come bisogna agire, perché comunque c'è sempre un granello di sabbia sporca nell'ingranaggio della coscienza comune.

I sindacati italiani proteggono i lavoratori ma non il lavoro. E quando il lavoratore approfitta dei suoi diritti, mai che se ne discostino, figuriamoci.

I nostri figli sono maleducati e incoscienti perché siamo dei genitori incapaci di imporre la disciplina; e se ci prova la scuola - come dovrebbe, volano botte sul professore diligente. 


Applichiamo il metodo educativo steineriano come fosse acqua da bere. 

Non importa se tuo figlio sfascia il bene comune o rompe i coglioni ai pensionati del piano di sotto, perché arriverà sempre lo psicologo da Triennale che ti dirà che i figli sono fragili e che vanno accompagnati. Oppure si presenta l'intellettuale con la fiatella e la barba di un giorno, che saprà avvolgere di paroloni concilianti la tua viltà di genitore senza nerbo.

Siamo schiavi di un finto perbenismo culturale per cui tiriamo fuori i nostri diritti per scansare i nostri doveri. E soprattutto una certa Sinistra - cui purtroppo appartengo - pretende dagli altri oneri e obblighi che non valgono per sé.


I cinema vanno chiusi? E Moretti si fa la sua foto nella sala vuota, perché lui è fico. Anziché invitare alla calma e ipotizzare forme nuove di cultura condivisa, fa il suo bel gesto provocatorio - che se l'avesse fatto la Meloni, tutti a biasimarla.

Del resto, basta andare alla Piazza di Testaccio, per vedere i figli di certi fichetti correre allegri a infettare nonni e passanti.

Siamo il Paese che urla contro l'odio online, ma che ha un'ignoranza digitale che grida vendetta. 

Il primo che si sveglia, spara la sua bella cazzata, senza neanche aver guardato la copertina dei moniti inascoltati di Shoshana Zuboff.

Un Paese perbene è la Nuova Zelanda. Quando ci fu la strage di Christchurch, la Prima Ministra Jacinda Ardern andò ad abbracciare i musulmani del suo Paese anziché lasciarli isolati; e i suoi concittadini la appoggiarono.


Un Paese perbene è come il Giappone: purtroppo molte persone morirono durante lo tsunami del 2011 perché intente ad accompagnare i propri anziani al sicuro: erano troppo lenti e furono travolti inesorabilmente. Noi gli anziani li consideriamo una perdita accettabile.

Un Paese perbene è come reagì la Norvegia quando un folle massacrò a Utoia settantasette bambini: l'intero arco parlamentare invitò a non cercare vendetta, a mantenere comunque vivo il modello di superdemocrazia che caratterizza quell'incantevole Stato.


Qui in Italia, qualche irresponsabile manina fa circolare secretate bozze di un serio provvedimento del Governo, e i giornalisti lo fanno girare immediatamente senza magari imitare i colleghi anglosassoni, che di fronte a casi analoghi fermano le rotative e concordano col Governo stesso come gestire una tale fuga di informazioni.

E adesso abbiamo un provvedimento che fa acqua da tutte le parti perché frutto di ridicole trattative per timori elettorali.

Siamo il Paese Fascista che si vergogna di essere Fascista, ma che corteggia i Fascisti; ma che quando circola una notizia di restrizioni temporanee per il bene di tutti, grida al Fascismo.

Per finire, il dato che dimentichiamo sempre: l'evasione fiscale nel nostro Paese vale il 12% del PIL, più di 100 miliardi di euro. 

E vi meravigliate se centinaia di idioti scappano da Milano per andare ad infettare il Sud?
E vi meravigliate se i milanesi si ostinano a passeggiare sui Navigli o i compagnucci romani di San Lorenzo a perpetuare la loro birrosa movida, imitati dai viziatelli dell'opposto Ponte Milvio?


Ma di cosa parliamo?


08 ottobre 2013

Porticus Aemilia di Testaccio, l'inizio della fine

Il monumento di cui vi parlai qualche giorno fa - e su cui nessun giornalista ha ancora fatto un servizio/indagine - è stato già colpito: come si vede dalla foto, qualche beota ha sventrato l'entrata provvisoria.
Viste queste premesse, se passa l'incosciente e scriteriata idea di trasformare il Porticus in un'area giochi, che fine faranno le antiche vestigia romane?
Perché non parlarne adesso che la cosa è ancora evitabile?
Perché aspettare il danno?
Veltroni trasformò il Circo Massimo in un'area per cani, trasformandolo nella latrina a cielo aperto che è oggi, anziché in un gioiello prezioso da curare e valorizzare. Vogliamo continuare lungo questa strada oppure alzare la testa?
Il Porticus Aemilia di Testaccio rischia la stessa identica fine, con il silenzioso placet di giornalisti e politici.

02 ottobre 2013

a Roma si aprono gli scavi per poi violentare la Storia

A Testaccio esiste una bellissima testimonianza della Roma più antica: il Porticus Aemilia, l’ultimo resto di una struttura ben più complessa che si collegava al porto romano (quello che oggi si intravede dal Ponte Sublicio).
Per anni, l’area che accoglieva queste vestigia fu contesa tra un privato e il Comune, finché un bel giorno al primo è stata concessa la costruzione di un minigarage all’aperto in cambio della “restituzione” ai romani del resto.
Ci sono voluti ulteriori anni prima che venissero effettuati degli scavi mirati e scrupolosi.
Adesso che sono stati finalmente portati parzialmente a termine, grazie anche al contributo dei nederlandesi (!), ho scoperto che lo spettacolo è già finito: la terra verrà rimessa al suo posto, le testimonianze preromane dimenticate giusto nelle foto degli archeologi… il tutto tornerà ad essere una macilenta serie di archi affogati tra palazzoni anni ’50 e un traffico sempre più caotico.
Ma c’è di più: intorno a questi archi così preziosi, sopra quindi le testimonianze ormai sotterrate, verrà strutturato un parco giochi per bambini, aperto dalle 8:00 alle 20:00, con tanto di stradina laterale che si affaccerà anche a una scuola, i cui alunni non verranno certo controllati durante il transito.
Insomma, tutto a discrezione della buona educazione di chi ci passerà, con il legittimo dubbio che i bambini che giocheranno intorno a quelle bellissime mura non potranno certo avere le stesse accortezze dei grandi… grandi che ovviamente non potranno essere romani; considerato già come trattiamo il resto di Roma.
Quelli del Rione non lo sanno; credono, cioè, che finalmente avremo un'area archeologica, sicuramente limitata a pochi metri quadri, ma di sicuro impatto turistico e che renderà viva una parte di Testaccio altrimenti destinata al nulla.
E tutto questo solo per mancanza di fondi? 

24 luglio 2013

la sensibilità

Tutti sono sensibili.
Anche chi consideriamo una bestia.
Perché la sensibilità è un attitudine neutra. Prendiamo come esempio la pellicola fotografica, che appunto è "sensibile": può impressionare il sorriso di un bambino o una bomba atomica.
Stabilita questa ovvietà, c'è però un passo successivo da fare, che forse è addirittura banale: esiste una misura della sensibilità che può essere soggettiva (io piango per Il paziente inglese, tu per l'inno della tua squadra; eguale dignità, quindi), ma esiste anche un valore assoluto della sensibilità (che più o meno forzatamente deve essere condiviso).
Sensibilità come valore è fare silenzio in chiesa, anche se non si crede.
Sensibilità come valore è non rubare il posto di un disabile.
Sensibilità come valore è riconoscere il diritto di chi ci sta di fronte, e rispettarlo indipendentemente dal nostro tornaconto e dalla sua condizione.
Ma siamo ancora nel banale, lo so e me ne scuso.
Ebbene, se durante un gioco di qualsivoglia tipo, ci lasciamo andare, sta alla nostra sensibilità stabilire i limiti dei nostri eccessi o sta alla sensibilità come valore assoluto?
Ecco, io credo, sono convinto, che in questo caso queste due interpretazioni debbano coincidere na-tu-ral-men-te, senza tante chiacchiere.
E credo anche che chi viola questa sensibilità come valore debba essere punito e messo in condizioni di non avere gli stessi diritti di chi, invece, questa sensibilità come valore ce l'ha.
Per dire: usare una condizione sessuale come insulto; usare una scelta religiosa come insulto; usare una provenienza geografica come insulto... non sono scelte sensibili, né tantomeno ascrivibili a una qualsivoglia forma di sensibilità.
Ebbene, la notte scorsa a Testaccio è accaduta qualcosa di molto grave: se ci fosse stato ancora Alemanno come sindaco, Repubblica - e i giornali che menano moralismi a go-go - si sarebbero fatti in quattro per esprimere sdegno e condanna. E, invece, la cosa è letteralmente passata inosservata, avallando di fatto la non sensibilità dei 500 teppisti che hanno lanciato bombe carta e imbrattato le mura pubbliche con scritte indegne e bestiali.
E di tutte quelle porcate che ho visto compiere dalla teppaglia, quella che mi fa ancora soffrire è quell'aver usato come fosse un insulto il cognome di un poliziotto ucciso dalla teppaglia catanese.
Filippo Raciti fu ucciso nel 2007 a lavandinate in faccia (ripeto: lavandinate in faccia), mentre cercava di sedare una megarissa a ridosso dello stadio del Catania.
Immaginate la scena. 
Immaginate queste bestie che sghignazzano mentre vedono un loro amico colpire a morte questo ragazzo. 
Immaginate la moglie e i famigliari di Filippo Raciti che a loro volta immaginano questa terribile scena.
E poi guardate questa scritta. 
Cosa suggerisce la sensibilità? La vostra, eh!




23 luglio 2013

l'ennesimo sgarbo alla città di Roma

Ieri sera, verso le 22:00 e qualcosa, si è consumato a Testaccio l'ennesima manifestazione sgarbata e incivile da parte di un nutrito gruppo di teppisti travestiti da tifosi.
Con la scusa di festeggiare non so quale ricorrenza della squadra di calcio della Roma, simpatici figuri hanno lanciato bombe carta, insultando le opposte tifoserie con urla antisemite, omofobiche, razziste (soprattutto, contro albanesi) e ributtanti allusioni all'agente Raciti, ucciso nel 2007 durante scontri con teppaglia del Catania.
Curioso che il tutto sia stato consentito a due-isolati-due dalla residenza privata del nostro premier.
Curioso che nessun giornale ne abbia ancora parlato, nonostante il fuggi fuggi generale di turisti e passanti di fronte al lancio continuo di bombe carta.
Curioso che la cosa passerà sotto silenzio come passano continuamente schifezze come questa.
Le foto testimoniano il giorno dopo. Dubito che la società sportiva farà qualche dichiarazione, se non aggiungendo che si è trattato di una minoranza. Dubito che la società sportiva cercherà almeno di ripulire le mura dell'intero Rione, alcune ripulite da pochissimo con spese dedotte dalle nostre tasse.