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20 maggio 2020

intorno A PROPOSITO DI NIENTE di Woody Allen (La Nave di Teseo)

Bella questa autobiografia di Woody Allen. Ci sono dei momenti in cui la traduzione perde di coerenza, ma nell'insieme è un libro divertente, godibile, interessante, curioso e ricco di riferimenti vasti, eterogenei, che soddisfano ogni possibile livello sociale e intellettuale (o anche non-intellettuale).
Mi ha piacevolmente meravigliato questa sua capacità di farmi sorridere in ogni frase - dalla prima all'ultima pagina, con quel suo gusto ironico sempre sottotono, mai esagerato o noioso. Per essere un ragazzo del 1935, riuscire ad essere ancora così spiritoso e originale, fa impressione.
Per carità, immagino ci sia anche del "mestiere", ma è pur sempre un muscolo che bisogna saper usare - e senza tanti gigionismi.
No, non mi sto dimenticando degli scandali che hanno circondato questo genio straordinario. Tant'è che ero tentato di suggerirvi di saltare dalla pagina 222 fino alla 294, perché sono chiaramente pagine tristi e amare (e forse di rivalsa) contro Mia Farrow.
Per onestà intellettuale, devo confessarvi tre cose.
1) Non amo tutti i film di Woody Allen; oltretutto trovo addirittura stucchevole questa sua petulante superproduzione cinematografica.
2) Non credo che Mia Farrow sia un'attrice: non sopporto le donne nevrasteniche, sempre sul punto di una crisi, incapaci di lavorare per sottrazione; attitudini che a mio avviso ha sempre pescato dalla sua reale personalità, platealmente poco serena.

3) Ho una certa difficoltà ad accettare il processo mediatico che ha condannato Allen alla Gora dell'Eterno Fetore ben prima che alcune parti delle sentenze avrebbero dovuto instillare qualche dubbio anche alla più giustizialista delle femministe. E già, se leggete l'intero svolgimento della vicenda (qui o qui, a seconda della vostra confidenza con l'inglese), ci sono interi passaggi che chiaramente propendono per una Mia Farrow decisamente fuori registro. 
Il problema di Allen... anzi, i problemi di Allen sono stati due: primo, è un maschio, e in questi tempi di #MeToo basta un nonnulla per finire dalla parte sbagliata della barricata; secondo, la distanza con l'età Soon-Yi fa comunque impressione.
Anche qui, però, voglio fare l'avvocato del diavolo. Nel mio ambiente conosco almeno due colleghe (note abbastanza) che disprezzarono pubblicamente Allen per questo motivo, ma che poi gratta gratta scoprii che sono state sposate anche loro col "nonnetto" della situazione. "Nonnetto" dal quale hanno poi divorziato dopo dieci anni dalla nascita dei nipot... figli. Figli che, per dire, non hanno mai potuto giocare a calcio col padre "nonnetto" per non infierire sulla fisiologica osteoporosi dovuta all'età.
Per carità, l'ipocrisia alberga ovunque; ma quello che ritengo insopportabile è che la storia di queste due persone è nota, e che quando tuonavano pubblicamente contro Allen nessuno glielo rinfacciò.
Ho scoperto anche (ma ci voleva poco, va detto) che Soon-Yi era ventiduenne quando si scambiarono il primissimo bacio, che non era la figlia adottiva di Allen ma del compositore/direttore André Previn, e che Allen non ha mai vissuto a casa Farrow, neanche nei momenti di massima tensione amorosa.
Lo so, sto uscendo fuori dalla recensione del libro. 
Ma purtroppo c'è stata una vulgata comune e frequente che ha deciso che addirittura il libro non andava pubblicato (gli stessi che lavoravano per Berlusconi e poi tuonavano contro il suo conflitto d'interessi), che non va venduto, che non va letto, che non va recensito.
Anche qui, segnalo che sono le stesse persone che hanno applaudito la rilettura "professionale" di Mengele (sì, proprio lui) o che stimano quei conduttori radiofonici revisionisti (figli di pseudopartigiani e nipoti di fascioassassini), o fanno finta di nulla di fronte ai curatori di rassegne culturali che invitano le case editrici postfasciste col pretesto che anche loro hanno diritto d'espressione.
L'Italia è un paese terribilmente bigotto e ipocrita; anche io sono caduto nella trappola del dibattito trasversale, che purtroppo non può nobilitare a dovere la qualità di questa autobiografia.
Complimenti, quindi, a Elisabetta Sgarbi che l'ha pubblicato, complimenti a Woody Allen per come scrive e per come ha vissuto, complimenti a voi se acquisterete questo libro e lo leggerete. 
Farlo o non farlo non aggiunge nulla alle vere o presunte colpe di Woody Allen: resta un grandissimo artista, le cui ombre personali vanno comunque considerate a parte... eppoi, guardate che lo so che avete Céline tra i vostri scrittori preferiti!

16 dicembre 2019

colori e qualità di STORIA DI UN MATRIMONIO

Se aspirate a diventare autori o attori, questo è il film che fa per voi.
Non c'è nulla fuori posto. 
Anzi, se non fosse che quest'anno ho assistito a pochi film, mi viene da dire che nel suo genere è il migliore che abbia mai visto dai tempi di Carnage.
Innanzitutto, i tempi narrativi: perfetti sotto ogni punto di vista, sia sul piano tecnico che su quello dei contenuti. Chiaramente figlio di una versione per teatro, mantiene ben salda la sua forza cinematografica con un uso sapiente e intelligente della telecamera: movimento o staticità conformi esattamente all'incedere della narrazione, tanto che non distraggono mai lo spettatore, accompagnandolo addirittura dentro i dialoghi e/o la recitazione non verbale.
Poi, il montaggio: mai fine a se stesso, sempre pronto a mantenere i piano-sequenza quando diventa fondamentale concentrarsi sulla recitazione.
I dialoghi! Da segnare almeno tre: lo splendido monologo della Johansson con la sua futura avvocata; lo scontro tra gli avvocati; il successivo furioso litigio tra i due divorziandi.
E, a proposito di questo litigio, seguite la scenografia e i costumi. Driver è vestito con la stessa gamma di colori della sua cucina; la Johansson, invece, ha la stessa nuance del salotto. I loro scontri verbali, fatti di invasioni e di rese, di urla e di silenzi, di movimenti e di tracolli... sono anche continui sconfinamenti di colore e di territorio: complimenti al regista che ha congegnato un simile sottotesto; veramente complimenti!
I protagonisti sono monumentali, tutti e cinque: lei è sontuosa, felpata, ricca di sfumature; lui è incredibilmente attento a mantenere autentica la misura delle sue fragilità; Alan Alda commuove nel suo aplomb agé, così ingenuo e onesto; Ray Liotta è caricato con i giusti pallettoni del figlio di puttana che deve essere; Laura Dern è un'avvocata infida e disincantata così credibile che sembra lo sia stata da sempre.
La recitazione dei protagonisti, insomma, non gigioneggia, non è didascalica, non si lascia andare a voci in maschera impostate che farfugliano principi in cui non credono: è tutto così genuino e naturale, così doloroso e credibile, che per due ore e mezza lo spettatore entra dentro altri mondi e altre realtà, isolandosi spontaneamente dalle proprie, quasi senza accorgersene.
A latere, voglio segnare come - nonostante un paio di sequenze debitrici - non stiamo di fronte al dramma borghese alla Woody Allen, di quei borghesi lontani dalla reale realtà. Qui si parla di sentimenti, di sentimenti veri, di quelli che possono provare ricchi o poveri, colti o ignoranti. 
Del resto, il personaggio di Adam Driver deve combattere anche con la sua precarietà economica, che ha un apprezzabile peso narrativo e mantiene viva la sottotrama che si risolve nel finale.
Da vedere assolutamente in lingua originale.