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16 aprile 2020

luis sepulveda

Nel 1995 la sarcoidosi si presentò nel mio organismo senza fiatare: dal 5 maggio in poi, fu un susseguirsi di problemi di salute sempre più gravi e dolorosi.
Soprattutto perché passai almeno cinque mesi circondato da un'inconsistenza medica dovuta al semplice fatto che nessuno aveva capito cosa avessi, né come mai i risultati delle analisi fornissero informazioni contraddittorie, a volte sconvolgenti.
Lì scoprii la mia capacità di resistere alle difficoltà. 
Leggevo.
Leggevo parecchio. Almeno un libro al giorno.
E fu in quei giorni che lo scoprii. 
Quella sua scrittura così asciutta ma evocativa, dove il lettore è al centro della narrazione e le storie lo circondano con affetto e empatia.
Era una lettura agile ma anche avvolgente, dove sentivi accanto a te l'odore delle sigarette fumate dallo scrittore, quell'alito che dalle 6 del pomeriggio sa anche di birra e amicizia, che ci sono tante cose da dirti e devi fermarti a ogni pagina per girarti intorno e cercare il volto di chi sta scrivendo.
Era un omone enorme. 
O almeno così mi sembrò quando lo incontrai una volta uscito da uno dei miei ciclici ricoveri. Era un incontro letterario, dove in genere si fanno domande ripetute e ripetitive. 
Appena finito l'incontro, gli andai incontro. Mi accolse con uno sguardo storto ma anche curioso. Quando la traduttrice gli chiarì perché gli dovevo tanto, sorrise: con la sua mano piena di dita afferrò una penna e mi autografò Il mondo alla fine del mondo.
Ne lessi un altro paio, ma poi l'ho perso di vista. Forse perché quando un amico ti è stato inconsapevolmente così accanto quando stavi proprio male, dopo quasi ti vergogni di quello che sei stato con lui, dei tuoi cedimenti, del tuo esserti affidato totalmente a lui.
Ovvio che lui tutto questo non poteva saperlo, ma il patto che lettore e scrittore stringono è un patto che non puoi spiegare in alcun modo.
Continuavo a comprare i suoi libri anche se sapevo che non li avrei più letti: era un modo come un altro per dirgli "grazie".
Oggi è morto, Luis Sepulveda è morto. 
E mi dispiace tantissimo.

19 marzo 2011

ogni uomo è giapponese, non manco di nulla

Sto provando quasi un dolore fisico nell'assistere al dramma giapponese.
Nella testa rivivo tutto quelle volte che ho incontrato questa straordinaria cultura, restandone sempre e solo ammaliato, affascinato, invidioso quasi.
Ricordo 15 abbondanti anni fa, quando, ricoverato per quasi 5 mesi, ancora non erano certi se fosse un cancro o la sarcoidosi, e io leggevo quasi un libro al giorno. Non so per quale motivo caddi dentro La pioggia nera di Masuji Ibuse, tipico romanzo dopobomba (quella vera, e non quella ipotizzata dal vate Philip K. Dick), ricco di suggestioni e di umanità.
E che dire della Donna di sabbia di Kobo Abe? O dei capolavori "minori" di Mishima, che proprio in quegli anni venivano ricicciati da tutti, alla disperata ricerca di qualcosa all'altezza del Padiglione o della Maschera.
Il Giappone, che volevo visitare a Natale prossimo.
Il Giappone, che guardandolo nei film di guerra, non riuscivo mai a parteggiare contro: tifavo - questo sì - per gli eroi americani; ma mai riuscivo a "odiare" il nemico, come invece facevo con i "perfidi" nazisti.
Il Giappone, che ricordo quella mostra ad Arezzo sul periodo Edo, che gustai per due giorni consecutivi, imparando tante di quelle cose, che però la mia - la nostra - cultura così egoista ed individualista, impedisce poi di saper perlomeno ripetere, se non seguire, imitare.
Il Giappone, sono i tocchi di pianoforte di Sakamoto, che rende apprezzabili le altrimenti dolenti e monotone ballate di David Sylvian.
Il Giappone, che guida a sinistra, che si inchina sempre e ovunque, che è Takeshi Kitano, con quei film mirabili e delicati, anche quando parlano di mafia.
Il Giappone, che è Takashi Miike e il suo dirompente cinematografare così proiettato verso il futuro.
Il Giappone, che è Kurosawa, quando andai al Mignon a vedere i Sette samurai, e conobbi il compagno di mia madre. O quando seguivo le lezioni di Marotti alla Sapienza gustando inediti di questo straordinario maestro del persempre.
Il Giappone, che è Toshiro Mifune che chiede il permesso a Charles Bronson di uccidere Alain Delon, e per questo titubare si becca una pallottola nella pancia, e muore. E allora Bronson consegnerà al suo posto la preziosa katana.
Il Giappone, che legge più libri di chiunque altro al mondo, ma che poi li butta per mancanza di spazio.
Il Giappone, che adesso fanno la fila ordinata anche durante le evacuazioni, rispettando le distanze di sicurezza.
Il Giappone, che la gente ha fame ma non ha soldi; e allora i negozianti concedono comunque credito, perché sanno che la gente tornerà per pagare il dovuto.
Il Giappone, che sa sopravvivere e soffrire con immensa dignità.
Il Giappone, che vorrei abbracciare con tutto il mio spirito.

Message from Ryuichi Sakamoto

23 settembre 2010

la vena unida, jamas sera vencida

Il reparto di Chirurgia Generale è una sorta di catena di montaggio: un giorno entri, il giorno dopo ti operano, il terzo giorno a casetta. Io sono rimasto un po' di più per precauzioni dovute alla mia sarcoidosi: ma sono stato un'eccezione. E di malati ne ho visti transitare. Haivoglia.
Un bel giorno arriva un vecchietto peruviano di 80 anni. Gli devono togliere delle vene varicose grosse come autostrade. Parla solo spagnolo. Il suo chirurgo e gli infermieri parlano solo italiano: lo scambio di battute ha il sapore di un'opera beckettiana.
Evidentemente in sala preoperatoria ha incontrato una delle mie monache, perché durante la notte postoperatoria la flebo salta via dalla mano, e da vecchietto mezzo rotto si trasforma in un muscoloso Carrie lo sguardo di Satana. Sangue ovunque, infermieri svogliati che lo ignorano, un pavimento rosso e anche puzzolente del piscio che sta perdendo per la paura, lui che ulula in spagnolo e io immobilizzato da catetere e flebo che gli dico para, para, para suonando contemporanemente il campanello. Finalmente arriva qualche infermiere meno svogliato che gli rimette a posto l'ago, pulisce la stanza con lo sguardo e ci raccomanda di dormire... con quel puzzo, con quel pazzo.

22 settembre 2010

il paziente è solo un malato

Tra le tante frasi convenute nel variegato vocabolario degli infermieri figura sicuramente tra i primi posti il motto "il paziente è un paziente". E cioè: noi siamo coloro che curano, lui quello che va curato; ogni sua ingerenza va ignorata.
Legittimo e giusto sicuramente - specie in un contesto nazionalpopolano, ma non dovrebbe valere per quegli ambiti oggettivi in cui non è il paziente che sta parlando, ma una persona con dei diritti e delle esigenze indipendenti dal suo status temporaneo.
Per cui se io sottolineo che sono destrorso, che non uso mai la sinistra, e che presumibilmente dovrò tenere a lungo la flebo, ha più senso mettere la flebo nel braccio sinistro, e consentirmi una degenza perlomeno composta (chennesò: farsi la barba o un bidet da soli è una grande conquista psicologica e di amor proprio).
Se nel gomito ho delle evidenti vene fradice, ha più senso infilarmi la flebo sulla mano - generalmente rischioso/doloroso ma non nel mio caso, specie quando lì uno ha delle vene grandi come una casa.
Se poi i medici mi trattano esplicitamente alla pari, sottolineando ai presenti sia la mia compostezza che una certa esperienza ospedaliera, tu come infermiere in fase preoperatoria ne devi rendere conto: siamo alleati per superare un problema, non nemici.
E, infatti, cos'hanno fatto le due monache preposte alla mia preparazione? All'inizio hanno ceduto alle mie richieste infilando contemporaneamente due flebo a casaccio sul braccio sinistro e poi un'altra sul dorso della mano sinistra, causandomi un ematoma che ancora pulsa nel suo verdume subepiteliale; poi dichiarandomi sconfitto - e grazie - hanno brutalmente sfondato il gomito del braccio destro in maniera così grossolana che per due giorni l'ago ha premuto sul nervo regalandomi continue scosse.
E oltre al danno, la beffa: quand'ho osato urlare "cazzo" per il dolore causatomi da quella totale mancanza di professionalità, mi è stato detto "niente parolacce qua dentro".
Amen.

21 settembre 2010

il filo del mio catetere

Appena uscito dalla sala operatoria ho proferito la fatidica frase che farebbe tanto commuovere le lettrici di Novella 2000: "dite a mia moglie che sto bene"; l'anestesista mi guarda di sguincio e mi chiede come contattarla, e io snocciolo nitidamente il suo numero di cellulare con tanto di prefisso europeo. Insomma, ne ero uscito alla grande, perlomeno nella fase immediatamente postoperatoria, quella notoriamente cruciale.
Fatto sta che avevo un freddo pancifero da urlo, come tutte le volte che si esce da un'operazione, qualsiasi essa sia.
Arrivo nella mia sontuosa camera, vengo fatto accomodare nel mio letto e mi accorgo del problema: mi hanno messo un catetere. Quisquilie, direte voi. E invece no: ho una vescica piccola, e soffro di cistiti da abuso di cortisone; è facilissimo infiammarmi il pipo e tutto ciò che ne fa parte. Lo segnalo immediatamente all'infermiere, che - con imprevista professionalità - fa accorrere addirittura il chirurgo che mi ha operato. Niente da fare: la natura dell'operazione e del tipo di anestesia lo obbligano a farmi tenere ben fisso il catetere, per almeno otto ore. E vabbé: vorrà dire che starò tirato come un calzino secco per una giornata. Poco male.
Però ho freddo. Chiedo ad una infermiera una coperta, pregandola però di porgermela, perché mi hanno messo la flebo a casaccio, e se poco poco mi ci butta la coperta sopra succede un pandemonio (vi dirò cosa sono riusciti a combinare ad un altro malato). Niente da fare: vuole fare la cretina - davanti a mia madre e alla migliore amica di mia moglie - e si atteggia a Madame Curie del bidet.
Parla e gesticola, parla e gesticola, parla e gesticola, parla e gesticola, parla e gesticola, parla e gesticola, parla e gesticola... e inciampa sul mio catetere.

20 settembre 2010

il costo della salute

Di questa lunga esperienza ospedaliera ne racconterò tante. Ma forse quella che dovrebbe far riflettere è la quantità assordante di sprechi che un malato vive sulla propria pelle, che anziché confortarlo per tanta messe di guaritori al suo servizio, lo disorientano ancor più. 
Appena arrivato all'Ospedale Romano (non dico il nome, ma notoriamente è costruito sopra il più antico hospitales che si conosca in Europa; basta e avanza...), nessun medico o paramedico o portantino si è minimamente proccupato di eventuali mie peculiarità di qualsivoglia sorta. Per due giorni e mezzo sono stato, insomma, alla mercé di me stesso e dei mille rischi che si corrono quando si è malati.
Certo, la stanza era divisa per quattro letti accuratamente sseparabili da potenziali tende, da frigoriferi e televisiori personali, da un bagno eccellente... una prigione dorata, insomma: ma - appunto- dove sarebbe prevista un minimo di accoglienza perlomeno preventiva, ho ricevuto solo il silenzio di un'assenza professionale veramente sconfortante.
Nodo centrale del tutto: nessun specializzando mi ha fatto un'anamnesi di entrata. Nessuno. Come capita, invece, in qualsivoglia ospedale di qualsivoglia condizione in qualsivoglia giorno della settimana.
La mattina del lunedì tre medici medici e un presumibile caposala sono entrati nella stanza, senza salutare né tantomeno senza presentarsi, e dandomi le spalle hanno stabilito che mi avrebbero operato ad un'ernia... mentre il mio problema era di ben altro tipo.
Nel pomeriggio un altro medico ancora ha preso in dote la mia documentazione pregressa, interpretandola a modo suo e senza interrogarmi, restituendomela poco dopo senza proferire neanche un vaffanculo di ruolo.
Poi un altro medico mi ha fatto un'anamnesi dozzinale solo dopo quattro giorni, rileggendosi la documentazione pregressa, e reinterpretandola a modo suo, intervistandomi sì, ma sulla Rai.
Poi un altro medico mi ha fatto una visita di controllo neurologico, ribadendo esattamente quanto era scritto in documenti vecchi di tre giorni.
Poi un altro medico mi ha fatto la visita per stabilire l'anestesia.
Poi un altro medico mi ha fatto l'anestesia.
Poi un altro medico mi ha operato.
Poi un altro medico mi ha dimesso.
Quanti posti assegnati, eh? 

25 agosto 2008

la potenza del corpo

Il corpo, non solo quello umano. Ma anche lo "spirito di corpo", che in molti dovreste sperimentare prima di continuare a tediarvi nelle vostre scarne vite.
Da oggi sono un supereroe, perché ho vissuto un'esperienza rara e unica che auguro a tutti di potervi inventare, tanto costa poco e tanto è facile da organizzare: una gita in bicicletta.
In sei giorni, ho percorso 370 chilometri lungo il Danubio, dall'austriaca Vienna, passando per la slovacca Bratislava, per finire all'ungherese Budapest.
370 chilometri in cui ho imparato a conoscere il mio corpo - e lo "spirito di corpo", senza mai perdere contatto con la realtà, ma leggendola da un punto di vista totalmente nuovo, come se fosse la prima volta.
Ogni volta che stavo per cedere, ogni volta che disperavo, ogni volta che sentivo il ginocchio dolorare terribilmente. Ogni volta che la salita si presentava più alta e perigliosa, ogni volta che la strada mordeva tutte le mie membra più recondite, ogni volta che sentivo crollarmi dentro le mie energie... c'erano due persone accanto a me.
Sempre.
Mia moglie o Alberto, un gigante emiliano dal cuore generoso di un bambino maturo e sorridente, che mi aspettavano, mi coccolavano, mi suggerivano, mi sorridevano.
Erano come una luce nel buio di uno sforzo mai intrapreso prima, impossibile per chi ha la sarcoidosi come me, perché il cuore è disperato, i polmoni affaticati, le giunture sfibrate e sfibranti.
E allora senti che avere accanto qualcuno, silente ma presente, che sa darti gioia e coraggio, significa che forse c'è ancora qualcuno che sa esistere e non sopravvivere a se stesso.
Eppoi... che mangiate, ragazzi, che mangiate!
Perché il corpo brucia come una macina. 4 litri d'acqua in 6 ore senza mai andare in bagno. Primo, secondo, terzo, dolce e caffè sia a pranzo che a cena, magari rubando anche dal piatto di mia moglie... il corpo brucia, eccome se brucia.
Non c'è niente di più bello che mangiare con persone belle, una famiglia intorno al cuore di quest'uomo, mia moglie che sorride anche quando dorme, e una bicicletta che non si romperà mai.
Io da oggi sono un supereroe, perché ho conosciuto veri esseri umani.

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