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03 settembre 2025

LA MIA VITA di Friedrich Nietzsche (Adelphi)

Fin dalla prima giovinezza, Nietzsche cominciò a raccontarsi a sé stesso, quasi provando quello strumento che, all’apice della sua vita, avrebbe dato i prodigiosi accordi di Ecce homo

Non avendo pregiudizi nei confronti di Nietzsche, ho letto il primo libro di questo mirabile cofanettone: nonostante l'intento esplicitamente autobiografico, è già possibile incontrare pensieri, parole e opere del filosofo, veramente dense e interessanti. 
A latere, si percepisce subito quanto Nietzsche abbia influenzato il pensiero di Roberto Calasso, il papà di Adelphi cui ho dedicato una dozzina delle mie recensioni. Un conto è averlo letto nelle interviste del compianto editore, un conto è assaporarlo direttamente.
Sicuramente, questo La mia vita non è un'operazione onanistica o egocentrica, ma la leva ideale per entrare con una certa "naturalezza" nel pensiero di Nietzsche, senza doverlo interpretare, senza cioè arrovellarsi dentro gli aforismi dei suoi saggi. 
Uno specchio è la vita
Riconoscer sé stessi
In questo specchio riflessi
È la cosa più ambita
Tralasciando la breve parte dedicata alla sua infanzia, ho trovato illuminante il lungo raccontare il percorso di studi che lo porterà a diventare un accademico stimato e apprezzato.
Spaventa e sgomenta quanto le generazioni come la sua - a un'età in cui il cervello maschile generalmente vaga senza meta - abbiano studiato e assorbito saggi e lezioni con una profondità e intensità che le nostre al massimo potrebbero abbozzare giusto all'università.
Certo, c'è anche un influsso caratteriale (Fin da bambino, io cercavo la solitudine, e mi trovavo meglio là dove potevo abbandonarmi indisturbato a me stesso), ma i programmi scolastici erano quelli; non ci sta niente da fare.
Tra le tante descrizioni e narrazioni, risalta la passione di Nietzsche per la musica: Dio ci ha dato la musica in primo luogo per indirizzarci verso l'alto. La musica raduna in sé tutte le virtù: sa essere nobile e scherzosa, sa rallegrarci e ammansire l'animo più rozzo, con la dolcezza delle sue note melanconiche [...] La musica rallegra scaccia i pensieri tristi [...] Con le sue note, l'arte musicale è spesso più eloquente della poesia con le parole.
L'ottica religiosa di Nietzsche sopra accennata, è costante: Ho vissuto ormai tante esperienze, liete e tristi, che mi hanno rasserenato e afflitto, ma in ogni cosa Iddio mi ha guidato sicuro [...] Ho preso nel mio intimo la salda decisione di dedicarmi per sempre al suo servizio.
Questo esser sempre così rigorosi si riscontra persino quando descrive la fine delle vacanze, con questi versi:
Svanir deve la vita
E la rosa appassire
Se vuoi vederla un dì
Gioiosa rifiorire
Versi che mi hanno ricordato la lapide che Rilke scriverà per sé stesso: Rosa / pura contraddizione / La gioia di essere sonno di nessuno / sotto tante palpebre.
Prendendo come spunto proprio le vacanze, ecco un pensiero rivolto ai più giovani: Giovane, usa bene il tempo delle tue vacanze, non studiando, bensì in giubilante riposo, cosicché, quando la tempesta si avvicina e la rombante voce del tuono annuncia la fine del tempo delle rose, tu parta di buon animo - ma zitto! Non sono uno che veda fuggir la primavera senza piangere, e stento a comprendere come si possa tornare volentieri a imprigionarsi nei propri ceppi. Ma ormai la mia massima è: goditi la vita così come ti si offre, e non pensare alle fatiche future.
C'è, poi, un passaggio che mi ha colpito più di tutti gli altri, perché rende nobile e strutturato un pensiero che ho scritto in questo libro, ma senza la stessa accuratezza. Nietzsche è convinto che non esista l'inedito, il non creato: I concetti astratti sono da considerarsi i creatori di ogni essere? No, al di là della materia, dello spazio, del tempo, si ergono le fonti originarie della vita, che debbono essere più alti e spirituali, la capacità vitale dev'essere infinita, la forza creatrice illimitata.
Generalmente, suggerisco se leggere o no certi libri: in questo caso, il testo in sé mi ha appassionato molto, ma non saprei dirvi se sia "obbligatorio" farlo. Sicuramente, di Nietzsche vanno letti ben altri testi. Tanto, entro il 2026 avrò sicuramente finito il cofanettone. Seguitemi: ne riparliamo.

17 ottobre 2024

IL CUORE SELVAGGIO DELLA NATURA di David Quammen

Ci sono ancora grandi paesaggi e grandi possibilità in tutto il mondo. Il cuore selvaggio della natura è intrinseco all'estensione, alla connessione, alla diversità e ai processi dei grandi ecosistemi. Finché noi esseri umani riconosceremo questa realtà, la rispetteremo e ci sforzeremo di preservare quegli elementi tramite iniziative appassionate e sagge come quelle che ho descritto nel libro, in mezzo a luoghi magnifici che comprendono quelli ritratti in queste pagine ma anche altri, il cuore continuerà a battere
Confesso che ho trovato più avvincente questa chiosa invece del libro nella sua totalità
Nato come collazione dei migliori articoli che Quammen ha scritto nel corso degli anni per il National Geographic, è un testo diviso involontariamente a metà (letteralmente: anche nel numero delle pagine): la prima, è troppo legata al servizio fotografico di riferimento (assente in questo libro), e quindi non ha né nerbo né potenza evocativa; la seconda, si regge da sola e ha dei momenti avvincenti contro altri quasi normali.
Non è sicuramente il miglior Quammen.

11 ottobre 2023

UN MONDO SENZA CONFINI di William Atkins (Adelphi)

Libro strano, questo di William Atkins: parte benissimo per le prime 100 pagine; poi, come se impantanato, inchioda la narrazione e si ferma, perdendo di slancio, minando l'interesse del lettore.
Eppure, l'argomento - i deserti - è avvincente, ricco di sfumature e di opportunità, non solo narrative nel senso classico del termine. 
Su Internazionale leggo che quella di Atkins è una «fuga verso i deserti [che] non va considerata come scoperta ma come recupero, il suo è un impulso ascetico».
Sarà, ma dalla 101esima pagina in poi, ho smesso di sottolineare, di appassionarmi, sfogliando con una certa fretta le pagine restanti. Certo, qua e là ci sono guizzi e una scrittura avvolgente, ma sono pochi e spesso di mestiere.
Che dire? A me non ha detto un granché; alla critica ufficiale, invece, è piaciuto. Fate un po' voi.

31 agosto 2023

I VIOLINI DI SAINT-JACQUES di Patrick Leigh Fermor (Adelphi)

Adoro la scrittura di Patrick Leigh Fermor: i suoi libri di viaggio sono scritti benissimo e sono pieni di cose saporite, sostanziose, avvincenti, belle e leggendarie.
Però questo è un romanzo, e i romanzi vanno scritti in maniera diversa.
Capisco la scelta di Adelphi di pubblicare la strenna completa dei suoi scritti, ma questo non è all'altezza del suo trittico o di Mani o di Rumelia.
Solo le ultime venti pagine prendono il lettore per il bavero e lo sbattono al muro, rubandogli l'anima e lo sguardo. Ma non so se consigliarvelo spassionatamente.
Per cui: se amate Fermor senza requie, comprate questo libro. Se non lo conoscete, iniziate, invece, con Mani o col trittico.

30 agosto 2023

PENSIERI DELLA MOSCA CON LA TESTA STORTA di Giorgio Vallortigara (Adelphi)

La domanda di partenza di questo piccolo gioiello è "quando possiamo parlare di coscienza"?
La risposta la copioincollo dalla sinossi, per evitare di fare un torto all'autore con un mio riassunto superficiale:

"Distaccandosi dai modelli oggi più comuni nell’ambito delle neuroscienze e della filosofia della mente, egli avanza la tesi originale che le forme basilari dell’attività cognitiva non abbiano bisogno di grandi cervelli, e che il surplus neurologico che si osserva in alcuni animali, tra cui gli esseri umani, sia al servizio dei magazzini di memoria e non dei processi del pensiero o della coscienza. Il substrato più plausibile per l’insorgere di quest’ultima va piuttosto ricercato in una caratteristica essenziale delle cellule, la capacità di sentire. Una capacità che si sarebbe manifestata per la prima volta quando, con l’acquisizione del movimento volontario, gli organismi elementari hanno avvertito la necessità di distinguere tra la stimolazione prodotta dalla propria attività e quella procurata dal mondo esterno, l’altro da sé"

Fidatevi, è un libro bellissimo, di quelli che personalmente ho messo nell'area "rileggilo meglio!".
È un viaggio nel mondo della neuroscienza, nei cervelli di molti animali (alcuni insospettabili), nell'evoluzione delle scienze cognitive.
Un libro sicuramente complesso, ma non complicato, in cui l'autore dimostra pazienza e rispetto nei confronti del suo lettore, senza mai spingere l'acceleratore della sapienza, proponendo per gradi (sempre argomentati e documentati) una progressione di considerazioni veramente avvincente.

31 agosto 2022

IL TEMPO SACRO DELLE CAVERNE di Gwenn Rigal (Adelphi)

Le pitture primitive, queste sconosciute.
Era animismo? Oppure una strategia di caccia stilizzata? Magari un rito di passaggio? Forse arte per arte? Haivostomai un approccio religioso?
Le domande sono spontanee, e tante altre ve ne saranno venute in mente.
Questo libro fa il punto della situazione, in maniera chiara, dettagliata, documentata e ricca di riferimenti precisi e di qualità.
L'autore è stato per anni guida e interprete nella celebre grotta di Lascaux e ha un approccio molto conciliante.
Sicuramente, non è un saggio - ed è un pregio; però in alcuni punti aggiunge troppi riferimenti che possono disorientare.
Comunque è un libro godibile, a tratti divertente, spesso avvincente, che può essere letto anche da chi non ha il pallino per gli uomini preistorici.  

24 gennaio 2022

I PERFEZIONISTI di Simon Winchester (Hoepli)

Simon Winchester è un autore conosciuto anche dai lettori Adelphi, perché ne rappresenta appieno quell'afflato di bibliotechismo senza confini che tanto caratterizza la creatura del compianto Calasso: basta leggere i suoi "Atlantico" o "Il professore e il pazzo" per rendersene conto.
In questo caso, invece, è stato ospitato dalla prestigiosa Hoepli (quella del "Primo avviamento alla conoscenza della radio" che tanto caratterizzò la mia infanzia), per un motivo implicito, almeno secondo la mia presunzione: questo splendido "I perfezionisti" è molto tecnico, forse troppo. Attenzione: NON è un difetto. Ma se poco poco vi fidate delle mie recensioni, tenete conto che potrebbe avere dei momenti per pochi eletti o comunque per addetti ai lavori. Personalmente, ci sono passato comunque sopra; ma c'è chi, invece, potrebbe restarci impantanato.
Si parla di: John Wilkinson, con il ferro ebbe un rapporto quasi sentimentale; Joseph Bramah, inventore della stilografica, dei bariloni per tenere la birra fresca, dei lucchetti, dei contabanconote; Henry Maudslay, con il suo micrometro arrivò quasi all'accuratezza assoluta; Honoré Blanc, padre del fucile moderno; Joseph Whitworth, introdusse lo standard di misurazione delle viti; Rolss-Royce e Ford, due modi opposti di concepire l'automobile; Frank Whittle, inventore del motore a reazione; Leitz Oskar Barnack, ovvero la Leica, la macchina fotografica più migliore ancora assai; Jim Crocker, "aggiustò" il telescopio Hubble; il GPS; i chip moderni.  
Da leggere più e più volte la prefazione: la differenza tra accuratezza e precisione sono la chiave per comprendere meglio questo libro, ma anche per vivere meglio nel mondo del lavoro e della propria quotidianità.

17 settembre 2021

RUMELIA di Patrick Leigh Fermor (Adelphi)

Parlare di un libro Adelphi,dopo la morte della sua anima, non è facile. E parlare ancora una volta di uno dei miei autori preferiti, Patrick Leigh Fermor, può risultare addirittura stucchevole, me ne rendo conto.
Però questo Rumelia è magico, forse più di Mani, sicuramente più del quasi trittico che ha reso il compianto Paddy un'icona di questi libri di viaggi (che poi è quasi riduttivo catalogarli così).
La Rumelia è quella parte della Grecia del Nord che va dal Bosforo all’Adriatico e dalla Macedonia al golfo di Corinto. Conserva nel suo cuore uno spirito duttile ma antico, in cui convergono tradizioni ataviche e tradizioni assimilate. Forse dovrei scrivere "conservava", visto che lo stesso Fermor è consapevole di quanto sia flebile la luce che lo accompagna dentro questo territorio così saporito e denso di cose da assorbire.
Il suo viaggiare per caso ci porta tra pastori, nomadi e monasteri, o all'inseguimento di un paio di scarpe appartenute a Byron, o dentro le ormai turisticizzate meteore, o fino alla magia di Creta.
Quella di Fermor non è solo una letteratura di viaggio, ma un compendio di digressioni, di considerazioni, di racconti di racconti di racconti, di volti levigati e di donne colorate, di boschi senza confini e di terra aspra e sassosa. 
Ci si perde e ci si ritrova, seduti in penombra ad assaporare spezie e yogurt e carne e alcol e voci e suoni, dentro il mistero di una cultura senza tempo, divorando il libro fino alla fine, sperando che non finisca mai.

03 settembre 2021

CAMMINANDO FRA I BOSCHI E L'ACQUA di Nick Hunt (Neri Pozza)

Una delle differenze che ho riscontrato tra Bruce Chatwin e Patrick Leigh Fermor, è che nei racconti di viaggio del primo il mondo esiste solo grazie a lui, ma poi, appena voltata pagina tutto svanisce, e al suo posto appaiono altri luoghi altrettanto evanescenti; nei racconti del secondo, è l'autore che svanisce dentro le sue storie, i suoi certosini racconti, la sua passione per il dettaglio, per la Storia e le storie, per le singole persone ma anche per l'insieme delle loro usanze culturali.
Due modi diversi di raccontare il mondo, che adoro e apprezzo in egual modo. Del resto, i due furono anche amici: guarda caso, Chatwin volle che le sue ceneri venissero sparse in un posto fascinoso della Grecia che aveva scoperto proprio grazie a Fermor.
Poi ci sono scrittori come Nick Hunt, innamorati del viaggio e innamorati di queste figure mitiche e mitizzate, che hanno l'arguzia e l'intelligenza di non cercare di essere diversi da queste ombre così immense. E, infatti, Hunt ha percorso lustri dopo lo stesso identico itinerario che Fermor aveva percorso/raccontato in due (e mezzo) dei suoi libri, passando per Olanda, Germania, Austria, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Turchia. 
Il suo pregevole libro, insomma, non rincorre Fermor né la nostalgia, ma presenta il presente di quei luoghi e di quei percorsi, con tutte le sue contraddizioni figlie del modernismo, della caduta del Muro, del melting culturale che consuma ogni diversità e smussa ogni dolce contraddizione. Un libro che scorre via con coraggio e pulizia, anche con la consapevole consapevolezza che niente potrà mai essere meraviglioso e unico come meravigliosi e unici erano invece gli scorci ancestrali raccontati da Fermor.
C'è un rito, un omaggio quasi, che Hunt celebra ogni volta che termina idealmente i lunghi percorsi raccontati in ognuno dei due libri e mezzo: prende la sua copia, masticata da mille letture e centinaia di sottolineature, e la cala nell'acqua del Danubio, abbandonandola al suo destino.
In fondo, la Memoria più bella è quella che portiamo nei ricordi della sola nostra mente, così ricchi di contraddizioni e così spudoratamente inclini ad affievolirsi tra le pieghe dell'età.

30 agosto 2021

leggere l'ULISSE di Joyce insieme a Nabokov (Adelphi)

Costretto dalla pandemia a vacanze stanziali a un'ora di auto da casa, la scorsa estate mi ero cimentato nell'endeca-opera di Calasso; questa estate, invece, mi sono voluto concentrare su un volume che occhieggia dalla mia biblioteca sin dal 1977, da quando morì il suo legittimo proprietario, il mio nonno materno: l'Ulisse di Joyce, nell'evocativa edizione dei Medusa della Mondadori. Curioso che di quest'uomo, così mitizzato dai miei occhi di bambino, abbia come unica testimonianza tangibile un testo così complesso che neanche aveva letto.
Paradossalmente, la mia difficoltà a esprimere una qualsivoglia critica sta quindi più nell'affettuoso rispetto nei confronti di mio nonno che nel confrontarmi con i sacri numi della critica di sempre; mi sentirei in difetto più nei suoi confronti che in quelli di chi è moltissimamente molto più colto e dotto di me.
Fatto sta che ho affrontato questa lettura facendomi aiutare da Nabokov: il suo saggio adelphiano è una potenziale bussola per districarsi dentro i supertecnicismi di Joyce. A uno come il sottoscritto, cui generalmente la trama interessa nulla, è stato invece necessario avere proprio un'idea di trama per entrare dentro un mondo così complesso, se non addirittura complicato.
Dall'alto della mia ignoranza, pur sempre cautelata dall'affetto per il proprietario originale, appena chiusa l'ultima pagina è scaturita immediata una e una sola domanda: perché?
Perché?
Perché Joyce ha scritto questo libro? 
Perché deve essere letto? 
Perché è definito un classico?
Onestamente, sono rimasto piacevolmente sedotto e impressionato solo dall'ultimo capitolo, quello del lungo monologo di Molly - oltre quaranta pagine senz'alcuna punteggiatura. Il resto del testo è stato un faticoso e quasi irritante muoversi dentro mille incognite, senza chiavi e senza uscita, dove l'unica costante della mia mente era concentrarsi - fino allo spasmodico dolore mentale - per evitare di sembrare un provincialotto presuntuoso che non riesce ad assaporare il buon vino accontentandosi di quello in tetrapak.
Se i suddetti "perché" sono velleitari e da supponente ignorante, la domanda che mi sta ancora appiccicata addosso - e che non riesco a eludere, è una quasi-locuzione, più banale ma anche meno esauribile: a cosa serve una scrittura così difficile?
A me viene spontaneamente in mente l'esergo di Oscar Wilde, quando nel Dorian Gray scrive che «tutta l'Arte è perfettamente inutile». Ecco, posta così mi sta bene. Il problema è che nell'Ulisse l'inutilità non ritorna utile o inutile a nessuno, neanche al lettore più acritico.
Vogliamo allora provare a parlare di esercizio di stile? Ci sto, tanto che ho amato Queneau e Marinetti e Perec e tutti quegli astri letterari che sanno usare il sapore delle parole senza trasformarle in pietanze. Il gusto dell'abuso di un termine è cosa metafisica e benvenuta. Ma qui, nell'Ulisse, siamo di fronte a uno scrittore che scrive per se stesso.
Ecco, forse, il limite di Joyce: così attento allo specchio della sua bravura da dimenticarsi del lettore, costringendolo neanche a seguirlo o a inseguirlo, semmai a cercarlo. E a cercarlo al buio, bendato e senza neanche sapere il perché.
Ritorniamo, quindi, alla domanda iniziale, ma rivolgendola a me stesso: perché dovevo leggere l'Ulisse di Joyce?

21 luglio 2021

QUANDO LA TERRA AVEVA DUE LUNE di Erik Asphaug (Adelphi)

La Luna, "nostra signora" (come diceva Byron), come diamine si è formata? È una di quelle domande di sempre che coinvolge l'immaginazione collettiva più di altre.
Forse perché in fondo lei sta lassù, ma non troppo distante da noi; sicuramente perché da Méliès in poi, la Storia del Cinema l'ha raccontata in mille modi diversi, tutti coinvolgenti e tutti affascinanti.
Questo libro di Erik Asphaug non è però un saggio psico-antropologico o cinematografico, ma un tentativo scientifico di dare una risposta scientifica a un dilemma così variopinto. 
Diciamo subito che è suggestiva l'idea che si sia formata dopo lo scontro con un planetoide chiamato Theia. Ancor più suggestiva è la dolce capacità dell'autore di saperci spiegare che comunque il passaggio delle comete e degli asteroidi abbia condizionato anche geneticamente la vita sulla Terra. Meravigliosa, infine, l'idea di raccontare queste scoperte da metà libro in poi, non prima cioè di aver fornito un ragguaglio divulgativo sull'astronomia e l'astrofisica.
Però credo che il libro si perda un po' quando l'autore, generando troppe aspettative e indicando troppe strade senza fine, non conclude nitidamente il suo viaggio. E non è che non lo faccia perché comunque i dubbi restano e fanno parte del mestiere: non lo fa perché sembra quasi voluto, come fosse uno studiato "difetto" stilistico.
Insomma, è un libro godibilissimo e anche divertente per chi è poco avvezzo a questi argomenti e li vuole però accarezzare in qualche modo; forse lo è un po' di meno per chi, invece, è un addetto ai lavori. 

11 giugno 2021

KOH-I-NUR di William Dalrymple e Anita Anand (Adelphi)

Quelli della mia generazione ricordano con una certa emozione le bellissime matite Koh-I-Noor: gli astucci, l'odore, il sapore (le mordicchiavi, sentendoti poi in colpa per avere rovinato la grazia di quell'aspetto). Che poi fossero anche le migliori, era secondario. Solo per caso, vent'anni fa scoprii che si chiamavano così proprio ispirandosi al famoso diamante. "Ai miei tempi" non c'era internet e certe informazioni erano meno facili da trovare.
Questo libro parla proprio del diamante
La prima parte, sulle origini indiane della pietra, è affidata allo storico William Dalrymple (classe 1965), che ha lavorato anche su materiale inedito o di difficile reperibilità; la seconda parte, invece, racconta il come e il perché sia attualmente e ancora in possesso della Corona Inglese, ed è affidata alla briosa penna della giornalista Anita Anand (classe 1972), guarda caso di famiglia indiana.
Non so per quale meccanismo mentale, ma durante la lettura della prima parte mi sono quasi annoiato: violenze, tradimenti, uccisioni, senza soluzione di continuità; più che una narrazione, sembra un elenco raccontato con uno stile asciutto e tutt'altro che empatico. Aggiungete che la nostra supponenza occidentale ci impedisce di discernere e memorizzare i nomi indiani, e la distrazione è andata a mille.
La seconda parte, invece, mi ha divertito molto, sia per lo stile che per il racconto. Magari, e appunto, è sempre colpa della supponenza occidentale che in questo caso si è ritrovata a casa sua, ma sicuramente è anche merito della Anand che ha saputo tenere in pugno la mia attenzione fino alla fine.
L'apparato iconografico è di primissima scelta. 

09 giugno 2021

LE CIVETTE IMPOSSIBILI di Brian Phillips (Adelphi)

Benvenuti in una ottimale rappresentazione dei non-saggi tanto cari ad Adelphi: questo libro, infatti, è un quasi reportage, un quasi viaggio, un quasi racconto di tante realtà totalmente diverse tra loro, che si legge tutto d'un fiato e che si dimentica con una certa facilità.
No, non è un difetto, anzi: semmai è la formula esatta per godere del gusto della lettura senza perdere tempo dietro sottotesti e moralismi d'effetto.
Lui è uno scrittore pop con un certo seguito; i capitoli sono una collazione di esperienze, raccontate con gusto ed entusiasmo.
Si va dalle gare con le slitte e si finisce dentro la corte di Elisabetta II, passando per una caccia alla caccia della tigre o a una serie di divertenti recensioni personalizzate di Star Trek o X-Files, senza però dimenticarsi della vera Area 51.
Ho trovato alcuni capitoli quasi scialbi, ma in linea generale è un libro decisamente estivo che non ha la pretesa della pesantezza né lo stigma della leggerezza. Se poi 20 euro vi sembrano troppi, c'è sempre la versione per e-book.

15 marzo 2021

L'ORDINE DEGLI ASSASSINI di Marshall G.S. Hodgson (Adelphi)

Chi sono gli assassini? Perché venivano chiamati in questo modo? Ma, soprattutto, che peso hanno avuto nella Storia dell'Islam?
Scritto negli anni 50, e pubblicato da Adelphi pochi anni fa, questo splendido saggio è forse più per addetti ai lavori, ma fino ad un certo punto: se ci si lascia andare senza porsi domande e senza correre dietro a certe complessità, è uno splendido compendio di Storia e Filosofia di una religione che non conosciamo mai abbastanza.
Innanzitutto, la cosa più facile: anche e solo andando a intuito, è chiaro che gli assassini non facessero uso di droghe, perlomeno per uccidere. L'hashish non eccita, semmai rilassa - e in alcuni casi rincoglionisce. E, infatti, il vero nome dei componenti questa setta è Naziriti, nati intorno all'anno Mille da uno scisma dell'Ismailismo, a sua volta ramo consistente del movimento sciita.
Il libro è quasi diviso in tre parti, dove la prima è tendenzialmente storica, la seconda quasi del tutto dialettica, la terza (la più breve) contenente alcuni dei testi naziriti più probanti.
Facendo una sintesi semplicistica e dozzinale, viene da dire che il movimento sciita, in tutte le sue possibili divergenze, aveva al centro della sua prosa spirituale l'individuo, mentre il sunnismo puntava più all'essenza della figura di Allah.
Colpisce, insomma, che mentre il sunnismo riusciva ad amalgamarsi con le diverse realtà che incontrava, lo sciismo privilegiava il pensatore del momento, la figura che riusciva ad esprimere una visione dell'Islam più coraggiosa o addirittura rivoluzionaria. Ecco perché alla lunga la sunna ha retto alle insidie del tempo: perché duttile e incline a non accodarsi a una singola figura, potenzialmente limitata dal corso della vita (e delle numerose guerre intestine e/o esterne).
Fatto sta che le figure trattate, i momenti storici descritti - e anche una certa passione dell'autore, aiutano a comprendere questo mondo così variegato e dignitoso di cui purtroppo abbiamo una visione relativa e settaria.

11 febbraio 2021

LA TAVOLETTA DEI DESTINI di Roberto Calasso (Adelphi)

Ultimo pannello dell'endecaopera di Roberto Calasso, questo breve quasi-romanzo ha almeno tre caratteristiche che lo differenziamo radicalmente da tutte le opere precedenti: è totalmente privo di bibliografia; ha i tempi narrativi apparentemente in progress; non risente di alcuna digressione. La domanda che viene spontanea è: perché?
Non essendo nella testa dell'autore, e non amando le speculazioni, posso solo pensare che la trama possa aiutarci in qualche modo. 
Che poi, parlare di "trama" non è del tutto appropriato. 
In realtà, infatti, è il racconto dell'incontro tra due figure mitiche e mistiche decisamente distanti tra loro, sia sul piano culturale che su quello gnoseologico: Utnapishtim e Sindbad; il salvatore degli uomini (e quindi premiato con l'Eternità e un'isola tutta per sé) e il primo esploratore.
Ma anche un uomo di acqua dolce e un giovane di acqua salata: «Sei venuto dal mare, Sindbad, non dalla laguna. Sei incrostato di acqua salmastra. Io vivo nel punto dove sgorgano le acque dolci del profondo e si uniscono alla confluenza dei fiumi. Parliamo due lingue di ceppo diverso, ma entrambi veneriamo ciò che è liquido. Tu hai viaggiato per giungere qui, senza saperlo. Io ti ho sempre aspettato».
Un incontro in cui, come da tradizione orientale, si dipana un racconto di racconti, a loro volta figli di altri racconti, di origine incerta, poco chiari nella forma e nella sostanza.
Il vero protagonista è sicuramente Utnapishtim, padre e figlio di una quantità incommensurabile di storie, che esordisce raccontando le differenti anime dei primissimi dèi: «non erano tutti uguali. C'erano dèi superiori e dèi inferiori. Quelli superiori si erano ritirati in cielo: avevano lasciato quelli inferiori a penare sulla Terra. Era inevitabile che un giorno si rivoltassero. Gli uomini avrebbero imparato da loro». Un po' come possiamo leggere in Cadmo e Armonia, mi sembra.
Questo comportamento contraddittorio (quasi sprezzante) con gli uomini, inevitabilmente avrà libero sfogo nel Diluvio. In un primo momento, gli dèi vogliono liberarsi totalmente degli uomini, ma poi grazie a una serie di complicate eccezioni, tipiche di queste leggende così lontane, all'ultimo momento uno di loro dispone che proprio il nostro oratore potrà costruire un'arca per salvare se stesso e gli animali.
Quello che è più evidente, quasi costante nel libro, è che tra gli dèi sussistano contraddizioni e differenze di ogni tipo: la più interessante riguarda la figura di Ishtar, un prototipo di donna cui viene concesso ogni possibile affronto nei confronti degli stessi dèi, e ogni possibile confronto con gli uomini. 
Ishtar sa come esprimere la sua forza; forza che in parte le viene dal possesso delle regole (affini a quelle di cui si parla ne L'ardore); regole che seguono il flusso di una serie di narrazioni che si intreccia e i infittisce. 
Ishtar, insomma, è donna e dea e anche involontaria demiurgo di un modo di concepire il potere divino così potente e arrogante da non temere la Morte.
Ma qui commette il suo errore, perché proprio nel provare a discendere negli Inferi perché crede di poterne uscire incolume, subirà una condizione di perenne sospensione, dissimile dalla morte ma non certo vicina alla vita.
In una delle sue rare narrazioni, Sindbad risponde raccontando una delle origini del Cacciatore celeste; non certo quella raccontata da Calasso nell'omonimo testo, ma una precedente ad essa, più violenta e tutt'altro che romantica; storia che comunque sposta l'idea di morte verso una condizione astrale, in cui ci si trasforma in altro piuttosto che disvanire del tutto.
Inevitabile, quindi, pensare a figure che riescano a conciliare il vivere terreno con le contraddizioni degli dèi. E qui scorgiamo Gilgamesh, l'unico che oltre a Sindbad ha incontrato Utnapishtim. 
La figura di questo protoeroe è tra le più affascinanti che conosca, perché porta già in sé tutti gli archetipi sia degli eroi a venire che di una serie di punti fermi che incontriamo spesso, anche nelle narrazioni meno complesse: forza, etica, verginità, devozione alla Natura, rispetto dell'onore, amore per gli esseri umani.
Altra figura costante, in parte accennata all'inizio di questa recensione, è l'acqua, qui narrata tramite figure di dèi complesse e affascinanti.
Ma cosa rappresenta la tavoletta del titolo? L'ordine. «Finché era custodita dagli dèi superiori, si sapeva come celebrare i riti e attuare la legge. Se non era presente, tutto si dissestava [...] Comunque era qualcosa di esterno a loro, un talismano da tenere appeso al petto. Quindi qualcosa che si può smarrire da un momento all'altro. E allora anche i supremi tra gli dèi superiori precipitavano nel non sapere [...] Gli dèi superiori non erano l'ordine. E neppure avevano elaborato l'ordine».
La Tavoletta dei destini, insomma, «concentrava in un minimo spazio orizzontale l'asse che attraversava il cielo».
E come vivevano gli dèi superiori quando ancora non possedevano tale Tavoletta? «Non dominavano l'ordine. L'ordine li precedeva, li sovrastava. Erano dèi, ma non compiutamente sovrani». Come in Ka, insomma.
E perché "dei destini"? «La necessità non significa. Il destino significa. I destini sono un ordine che significa e si sovrappone alla necessità, punto per punto, passo per passo».
Siamo di fronte, insomma, a un libro che ricuce alcune speculazioni contenute in alcuni dei saggi nodali precedenti. Come in un cerchio magico, viene da pensare, dove gli dèi «che hai incontrato e che incontrerai, ovunque, di là da tutti i mari, sono fatti della stessa sostanza. C'è una grande matassa lucente che rotola e continuamente si lascia dietro qualche pezzo. E quei pezzi sono altre matasse lucenti, che continuano a rotolare e a loro volta si lasciano dietro altre più piccole matasse lucenti». 
E gli uomini, anzi Utnapishtim, anzi Calasso, non conoscono risposte: si sono disabituati a chiedere risposte, perché il mondo non è fatto per dare risposte.


10 febbraio 2021

LA VALLE OSCURA di Anna Wiener (Adelphi)

Una giovane ragazza con preparazione umanista cerca e trova lavoro in un mondo che nulla a che vedere con la sua attitudine, dove imperano invece ingegneri informatici, carrieristi e sviluppatori, e per ben 306 pagine si lamenta di non trovare empatia, calore umano e parità di genere.
E lo fa con toni lamentosi, autocommiserativi e senza un lampo che fosse uno di curiosità o di accoglienza. Subisce ogni possibile evento - come càpita alla figura dello shlemiel (nitidamente contestualizzata in questo ritaglio del compianto Franco La Polla), senza porsi una domanda iniziale: ma cosa ti aspettavi da questo mondo?
Può anche essere che io stia ragionando per preconcetti, ma mai mi aspetterei da uno sviluppatore rampante e individualista un ragionamento articolato sulla poesia di Rilke. E comunque non lo pretenderei.
Non si capisce, insomma, perché questa personalissima e soggettiva discesa negli inferi di San Francisco - che è più l'inadeguatezza personale di accettare altri mondi, debba essere assoluta e addirittura usata come esempio nobile di denuncia di un sistema. Allora sono molto meglio le durissime parole (ma documentate!) di Shoshana Zuboff.
È vero che stiamo parlando di anni prima rispetto alla ormai diffusa consapevolezza della pericolosità del mondo virtuale, e in fondo quello di Anna Wiener è una sorta di reportage dagli inizi, quando tutto sembrava altro; ma il suo approccio e il battage pubblicitario che l'ha supportata sono decisamente stridenti ed esagerati.
Onestamente, da Adelphi non mi aspettavo un testo simile, così antipatico e infantile, specie dalla collana Fabula, che spesso ospita testi gioiello o comunque da tenere ben stretti.

08 febbraio 2021

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO di Benjamín Labatut (Adelphi)

Raccontare la scienza moderna nei suoi veri percorsi, quelli fortuiti e quelli in cui parti da un punto per arrivare all'altro, ma l'altro è ben altro ancora rispetto sia a quello che ti aspetti che a quello che poi stabilirà la Storia.
In estrema sintesi...

... nel tentativo di riprodurre il carminio, un fabbricante di pigmenti crea fortuitamente il blu di Prussia, che con una serie di fortuite variazioni sul tema diventerà anche l'acido prussico (il cianuro insomma), che per altre fortuite variazioni diventerà un potente veleno usato dai nazisti contro gli ebrei, compresa la famiglia di chi aveva contribuito a fabbricarlo in grande scala.
... la vera o presunta storia di Schwarzschild, lo scienziato e sognatore che comprese per primo la natura dei buchi neri.
... la vita di Grothendieck, matematico che (ri)conosciamo all'ombra di Mochizuchi, insigne quanto complicato studioso giapponese, autore di una formula non ancora del tutto compresa il tutta la sua profondità.
... la sempreverde ascesa all'Olimpo di Heisenberg, la sua devozione a Bohr, il suo conflitto con Schrödinger, che a sua volta combatté contro la sua pallida salute.

Insomma, l'operazione di Benjamín Labatut è - come recita Adelphi stessa - un «meraviglioso intrico di racconti, lasciando scegliere a noi quale filo tirare, e se seguirlo fino alle estreme conseguenze», che però ha in sé un limite: soprattutto nel capitolo dedicato alla fisica quantistica (quasi metà del libro), le ennenumerose matrioske narrative che si agganciano l'un con l'altra, sono scritte con sudamericana disinvoltura, cedendo il campo all'amore per le parole, ma non alla esauriente ed esplicita comprensione/conclusione dell'intreccio.
Ci si perde per strada più di una volta; soprattutto i ritmi e le pause sono incoerenti. 
È un libro Adelphi, insomma, ma che nella seconda parte ha il limite del suo essere autoreferenziale.
Non so quanto possa piacere a un esperto di scienze; e, per ignoranza personale, non so immaginare quanto possa attirare chi dalla narrazione scientifica cerca solo l'aneddoto argomentato.
Sicuramente si lascia leggere tutto d'un fiato, ma non riesco proprio a dargli più di un 6.

01 febbraio 2021

IL LIBRO DI TUTTI I LIBRI di Roberto Calasso (Adelphi)

Decimo dei (per ora) undici pannelli della gustosa e multiforme opera in corso di Roberto Calasso, questo Libro di tutti i libri è denso, ricco, evocativo: tra tutti quelli del progetto, forse è il più lineare, senza quelle digressioni, quelle variazioni sul tema - o al di fuori di ogni schema, che intarsiano i pannelli precedenti. 
Non è "solo" un racconto della Bibbia, ma anche il manifesto di un modo di raccontare la religione in una maniera tutt'altro che dogmatica o laica, e nemmeno da studioso asettico: porta in sé, insomma, un metodo di approfondimento che si evolve nel suo stesso approfondire; un libro che cerca se stesso mentre lo leggi, insomma. 
La mia non è solo un'affermazione funambolica: è lo stesso autore che in un'autointervista ha chiarito come questo libro - concepito subito dopo Ka, obbligava a una tale vastità di capitoli così complessi e vasti, che a loro volta meritavano pannelli a parte, più strutturati, che si realizzeranno a partire da K. per finire con L'innominabile attuale
Siamo di fronte, insomma, a una "libro cornice", sulla cui lettura grava (o aiuta) l'aver letto l'intera opera fin qui pubblicata. Se, quindi, Kasch è il dito che indica la Luna - e l'intero opus generato è il percorso tra il dito e la Luna - questo Libro è la Luna stessa, nel disperato tentativo di capire «cosa vi accade» da un punto di vista che non si lasci influenzare dagli altri punti di vista.
Sin dai primi capitoli, che trascendono dall'analisi biblica, sono protagonisti Iahvé (ben oltre il suo simbolo religioso) e il suo complesso rapporto con la futura Israele: dall'imposizione di un re iniziale - che di fatto trasforma gli ebrei da popolo sacerdotale a un regno (con tutti le contraddizioni del caso), al concetto di popolo "eletto" - dove quell'eletto è in relazione al saper «far procedere le storie e la Storia».
Dal "peccato" del censimento ai tempi di David - che di fatto espone i viventi anche al male, all'autentica soggezione provata nei confronti della sapienza degli egizi. Dalle incredibili similitudini con l'India vedica, all'idea di libero arbitrio che tale in realtà non è.
Dal fatto che Iahvé abbia scelto un popolo minuscolo per una gigantesca opera di espansione religiosa prim'ancora che militare, all'idea che la parola "ebreo" non delimiti solo i figli d'Israele. E che dire della potenza simbolica della circoncisione? Circoncisione che però è anche limite al piacere sessuale... E che dire dell'assenza di Giobbe, più che della sua presunta pazienza?
Incredibili, poi, sono le ri-letture di alcuni temi biblici così potenti: l'idea del figlio primogenito come ripetizione del rapporto tra Iahvé e il suo popolo; il peso specifico della Pesaḥ (la futura Pasqua, insomma); il vero significato dell'Esodo o del vitello d'oro o delle proverbiali tavole della Legge; il triste destino di Mosè, che a un'attenta lettura può non essere considerato ebreo ma egiziano!
E qui si apre il primo dei due capitoli che apparentemente escono fuori dalla base di questo saggio: una digressione su Freud e la sua visione di simbolico cannibalismo paterno, che in un suo saggio mira proprio a minare le basi dei postulati ebraici. La figura di Mosè viene dilaniata e riproposta in una versione che nulla ha a che vedere con la tradizione d'Israele. A questo si aggiunge l'idea che non sia stato il popolo ebraico il primo a forgiare il metallo del monoteismo. 
Il secondo dei capitoli fuori dal sentiero di questo testo fa cenno all'undicesimo pannello, che inizierò a leggere tra qualche giorno.
Il saggio chiude con l'inizio della Bibbia e la sua naturale conclusione nell'idea di Messia come necessità antropologica prim'ancora che cristiana.
Calasso, insomma, ha dato l'ennesima prova della sua capacità di mettere in dubbio, di destrutturare, di risvegliare l'anima, ma senza lasciare macerie al suo passaggio o addirittura idee di plastica o convenienti: l'autore obbliga il lettore stesso a rivedere ogni possibile forma di conoscenza, non importa da quale prospettiva.



31 dicembre 2020

L'INNOMINABILE ATTUALE di Roberto Calasso (Adelphi)

Nono pannello di un'opera tutt'ora in corso, questo breve ma entusiasmante saggio di Roberto Calasso andrebbe forse interpretato come capitolo aggiunto (ma indipendente) del primo pannello. Infatti, questo titolo così folgorante, innominabile attuale, compare come riga isolata tra i paragrafi isolati de La rovina di Kasch, quasi come fosse un avviso, una sentenza, un'analisi, un ossimoro, un'incredibile quantità di significati costretta dentro un articolo determinativo, un aggettivo e un sostantivo che quasi lo contrasta.
Già, solo su questo titolo potremmo discettare per ore, tale è la sua capacità di evocare argomenti, pensieri, suggestioni e filosofie, anche indipendenti dalle intenzioni di Calasso stesso. 
Premesso ciò, il saggio è suddiviso in soli tre capitoli, che suggerisco di leggere singolarmente e senza pause, e che qui racconto partendo dall'ultimo.
Il terzo è una chiosa quasi disarmante, racchiusa in due sole pagine, velatamente allusiva a un momento del sesto pannello, quelle Folie Baudelaire che tanto ci avevano portato nella profondità oscura ma non ombrosa del poeta francese. Chiosa che rimanda al presente, all'attuale insomma, innominabile o no che sia. Non posso certo citarne qualcosa, anche per non rovinarvi la sorpresa insita nella sua conclusione.
Il secondo capitolo è un ordinato quanto devastante elenco di eventi collaterali al lento procedere della Seconda Guerra Mondiale, all'annientamento del popolo ebraico, a una serie di rimandi più o meno concettuali a buona parte dei pannelli più teorici di questa opera incredibile di Calasso.
Letto senza fermarsi mai, è un capitolo che elenca la debolezza insita dell'Homo saecularis, ormai ben lontano da quelle nobili suggestioni che avevamo incontrato negli altri testi di Calasso.
Durante la descrizione delle ignominie tedesche, compare già un ipotetico link tra il precedente Cacciatore Celeste e il prossimo Libro di tutti i libri, quando cioè scrive: "I nazisti erano la tardiva rappresaglia del mondo animale verso la specie che ne aveva violato l'ordine; e gli ebrei erano i rappresentanti eletti di quella specie". È un passaggio che resta fermo su se stesso, perché la sospensione narrativa e quella emotiva sono tali che passa quasi inosservato.
Il primo capitolo è folgorante: non c'è paragrafo, riga, parola, spazio, che non siano condivisibili, che non costringano a una lettura-rilettura, sia per la densità che per l'acume con cui viene raccontato questo momento attuale, questa volta decisamente innominabile: "La sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere ogni giorno dove sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee si sdoppiano, i tessuti si sfilacciano, le prospettive oscillano. Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell'«innominabile attuale»".
E l'idea di come proceda questo mondo non è decisamente un complimento: "È un mondo frantumato anche per gli scienziati. Non ha un suo stile e li usa tutti".
A forzare la mano, un'affermazione del genere fa venire in mente che in una parte consistente della biblioteca adelphiana, la frantumazione - la quantizzazione, insomma - sia una costante editoriale, e non solo della Biblioteca Scientifica. Come se da sempre Calasso abbia sentito e senta l'esigenza di ricomporre questa frantumazione, di darle un senso, un'origine e un significato.
Altro elemento nodale dell'attuale è il terrorismo: "Fondamento del terrore è l'idea che soltanto l'uccisione offra la garanzia del significato. Tutto il resto appare labile, incerto, inadeguato [...] Come ogni pratica sacrificale, il terrorismo islamico si fonda sul significato. E quel significato concatena ad altri significati, tutti convergenti verso lo stesso motivo: l'odio per la società secolare".
Società secolare che "ha una paura tremenda di quella che è stata la sua più grande scoperta: l'alleggerimento, lo svincolarsi dagli obblighi rituali e confessionali. Invece di apprezzare questa situazione sospesa e prenderla come possibile inizio di nuove mosse, si precipita a ingabbiarsi nelle cause, buone o pessime che siano. E quelle cause sono innanzitutto palliativi".
Cause che sono palliativi. Come questa: "I secolaristi si accorsero che non erano soli. E che non occupavano tutto il mondo. Le procedure si applicavano ovunque, ma i secolaristi vivevano solo in una certa parte del pianeta - e neppure la maggior parte. Si sentirono improvvisamente assediati da stranieri, che chiamavano migranti. I quali volevano usare le loro procedure, ma continuavano a guardarli con l'occhio infido di chi si sente altrove".
Non resta che rivolgersi alla religione, alle chiese, alla Chiesa: "Homo saecularis applica precetti di eredità cristiana, ammorbiditi e edulcorati. Soluzione tiepida e pavida, si combina, in senso inverso, con il movimento in corso nella Chiesa stessa, che cerca sempre più di assimilarsi ad un ente assistenziale. Il risultato è che i secolaristi parlano con una compunzione da ecclesiastici e gli ecclesiasti ambiscono a farsi passare da professori di sociologia".
Il pensiero della società secolare, insomma, "è ciò che rimane dopo un processo di svuotamento progressivo, operante da un certo numero di millenni".
Non se la passa bene neanche la democrazia: "Rispetto a tutti gli altri regimi, la democrazia non è un pensiero specifico, ma un insieme di procedure, che si pretendono capaci di accogliere in sé qualsiasi pensiero, eccetto quello che si propone di rovesciare la democrazia stessa. Ed è questo il suo punto vulnerabile, come si dimostrò in Germania nel gennaio 1933 [...] La democrazia formale è senz'altro la più perfetta versione della democrazia, ma anche la più inapplicabile. Soprattutto quanto è stato superato un certo meridiano della Storia e le pressioni demografiche, etniche, psichiche diventano sopraffacenti. Allora risorge la chimera della democrazia diretta. Suo fondamento è l'odio per la mediazione, che facilmente diventa odio per il pensiero in sé, indissolubilmente legato alla mediazione".
L'innominabile attuale è anche (nella) tecnologia: "All'inizio del nuovo millennio, quando si stabilizzò l'impero digitale, divenne chiaro che controllo significava innanzitutto controllo dei dati. E la situazione si rovesciò. Quei dati non venivano più estratti a forza dall'alto, ma spontaneamente offerti dal basso, da innumerevoli individui. Ed erano la materia stessa su cui esercitare il controllo". Chissà se abbiamo capito quello che ho appena trascritto, perché è esattamente quello che andrebbe detto.
Bellissimo l'apologo sugli hacker, che ho citato anche in questa puntata di WikiRadio, andata in onda su Rai Radio3 l'11 novembre 2020: "La traduzione di hacker come «pirata informatico» è imprecisa e sviante perché ignora l’aspetto di operazione sulla forma che è insito nel termine inglese. Hacker è qualcuno che taglia, intacca, e - eventualmente - smonta, ricompone, frantuma una forma. Senza questa azione sulla forma non si dà hacking; la pirateria invece è un puro atto di aggressione e sottrazione […] Ogni software richiede operazioni di codifica universale e onnilaterale, Ogni codifica è una sostituzione. Ma anche la codifica può essere sostituita. E magari da un «codice maligno», come si usa dire nel gergo informatico. È questo il karman della digitalità. Chi di sostituzione ferisce, di sostituzione può facilmente perire".
Potrei scrivere decine e decine di citazioni vere e attuali; ma preferisco congedarmi con quelle due che ci riguardano da vicino, a noi pionieri della tecnologia, ma soprattutto ai ragazzi che sono cresciuti e cresceranno circondati da questo impalpabile attuale: "Un immane sconvolgimento psichico, che nessuno sarebbe in grado di circoscrivere, è stato provocato - e continua ad esserlo - dalla confluenza fra il digitale e il digitabile. Il sapere assume la forma di una singola enciclopedia, in perenne, proliferante espansione e in linea di principio digitabile. Enciclopedia che giustappone informazioni impeccabilmente veritiere e informazioni infondate, ugualmente accessibili e sullo stesso piano. Ciò che è digitabile appartiene a ciò che è famigliare, perché trattabile con affettuosa noncuranza. Il sapere perde prestigio e appare come fatto di voci - nel senso di voci di un'enciclopedia e di voci vaganti, incontrollabili".
L'affondo finale è disarmante (che poi spettacolizzare questa citazione con una premessa simile, conferma il postulato della citazione stessa): "C'è poi un altro aspetto, non meno dissestante, della disponibilità informatica. Chiunque si è trovato a poter produrre, senza alcun vincolo, parole e immagini, virtualmente divulgabili ovunque, per un pubblico illimitato. Tanto è bastato per suscitare un diffuso delirio di onnipotenza, ma non più come fenomeno clinico. Al contrario, come arricchimento della normalità. La mitomania è entrata a far parte del buon senso".


21 dicembre 2020

IL CACCIATORE CELESTE di Roberto Calasso (Adelphi)

Ottavo pannello della mirabile opera in fieri di Roberto Calasso, questo Cacciatore Celeste ha dei momenti di raro romanticismo, altri di una profondità intellettuale che inebria, altri ancora in cui l'autore indugia su alcuni momenti delle sue opere precedenti.
Libro straordinario e pieno di vita propria, in cui ogni tanto, però, sembrano entrare in conflitto il tema trattato e lo stile tipicamente "calassiano".
L'autore, infatti, procede per campate (come direbbe Rilke), ponendo sub-paragrafi dentro capitoli decisamente sistemici, costringendo il lettore a un gioco vorticoso di avanti/indietro tra una pagina e l'altra, tra un paragrafo e l'altro, tra un capitolo e l'altro. Non è un male, visto che poi è - appunto - lo stile cui ci ha abituati. Ma in questo contesto si corre il rischio di perdere l'insieme.
E in un certo senso, è Calasso stesso ad ammetterlo quando dice: "Si scrive un libro quando si  precisato qualcosa che si deve scoprire. Non si sa cos'è né dov'è, ma si sa che si deve trovarlo. Allora comincia la caccia. Si comincia a scrivere". ≪Comincia la caccia≫, appunto, sia per chi scrive che per chi legge; e come suggerisce anche l'idea filmica del cacciatore che abbiamo un po' tutti, molte volte ci aggiriamo tra frasi e concetti rovistando troppo nello stesso punto.
Sul perché si soffermi sull'idea del cacciatore, Calasso ne aveva già parlato in alcune delle sue opere precedenti - e che riassume così: "La caccia nasce come atto inevitabile, finisce come atto gratuito [...] Non si sa che cosa avviene fra il cacciatore e la preda quando si affrontano. È certo, però, che prima della caccia, il cacciatore compie gesti di devozione. E, dopo la caccia, sente l'esigenza di scaricarsi una colpa".
Il cacciatore come esempio di umanizzazione, di Homo (come dirà spesso in questo libro), come lenta e inesorabile negazione del suo rapporto con la Natura: "Quando si compì il distacco da qualcosa che si sarebbe chiamato animale da qualcosa che si sarebbe chiamato uomo, nessuno pensò che la sapienza - la vecchia e la nuova sapienza - potesse trovarsi se non in qualcuno che partecipasse alle due forme di vita".
Chi presidia, quindi, la relazione tra uomo e Natura? Chi riesce a mantenere il giusto equilibrio tra le due parti? Qui interviene una lettura interessante di una figura anch'essa vittima di una certa banalizzazione filmica: lo sciamano. "I mondi sono tre e gli uomini normalmente stanno in quello di mezzo. Lo sciamano, invece, in tutti e tre [...] Cacciatori e sciamani sono gli esseri più affini. Spesso parlano lo stesso linguaggio segreto, che poi è quello degli animali [...] Essere sciamani era un'altra vita che presupponeva l'offerta e la scomposizione del proprio corpo, così simile a quella che subivano gli animali sacrificati".
Ora, c'è un elemento che dobbiamo tenere a mente: l'oralità. Il ciclo di ogni evento si mantiene integro solo attraverso l'eredità orale: "Gli uomini diventano metafisici durante la caccia. L'agricoltura avrebbe aggiunto al pensiero soltanto un dato essenziale: il ritmo, l'alternarsi tra fiorire e appassire". Ma quando si arriva alla storicizzazione, questo equilibrio tra Homo e Natura viene meno: "Finché non venne inventata la scrittura, era impossibile fissare in una forma di storia ciò che accadeva". Chiaramente, anche i luoghi segnano la sconfitta di questa ciclicità, perché ogni forma di ritualizzazione (lo strumento attraverso cui sopravvive un'idea di ciclo) perde la sua forza naturale: "La città è il luogo ideale dove l'animale guida viene abbattuto".
Escluso lo sciamano, che comunque è Homo, la prima vera cultura europea istituzionalizzò l'idea del cacciatore attraverso una delle dee più interessanti del variegato panorama mitologico greco: Artemide, che "non si curò mai della caccia come opera civilizzatrice, che mirava a sterminare belve e mostri, bonificando la natura strapotente. Anzi, la avversava. Per la dea la caccia era un gioco che ricominciava ogni volta, monotono e invincibile".
In un solo caso, Artemide uccide senza volerlo, ma per colpa di un brutto tiro di Apollo: la vittima è l'amato Orione. Sarà la dea stessa a consegnare poi Orione al cielo, insieme al suo fido Sirio (il ≪cane maggiore≫), perché per gli dèi greci "Quando qualcuno non può più essere trasformato, ma va salvato, diventa astro".
Artemide è nodale perché condiziona anche la storia d'amore comunque travagliata tra Procri e Cefalo. "Figlia del re di Atene, innamorata di un giovane che veniva da un porto minore dell'Attica, Procri aveva vissuto in un periodo di guerre, quando per la prima volta gli Ateniesi si erano dati il nome di Ateniesi. Ciò che si tesseva in lei, sin dall'infanzia, era una ragnatela di emozioni: un giorno si sarebbero chiamati sentimenti. Ebbe a che fare con sovrani e con dee, ma la sua vicenda, da un capo all'altro, fu totalmente privata [...] Polignoto dipinse Procri offesa dalla gelosia e recriminante anche negli Inferi. L'arte di quei greci non compendiava soltanto il passato, ma già sbrogliava, filo per filo, la matassa di ciò che si sarebbe chiamato letteratura".
Inevitabilmente, con questo passaggio nel mondo greco, Calasso è quasi costretto ad affrontare anche la breve età degli eroi, cacciatori sotto altre spoglie, entrando dentro storie che hanno fatto parte anche del nostro immaginario collettivo, tra cui Giasone e il Vello d'Oro. Eroi cui va inserita in qualche modo, quasi incastrata, anche la figura di Odisseo, di quel suo essere ucciso dal figlio che aveva concepito con Circe; ucciso proprio all'indomani del suo ritorno ad Itaca, dove aveva trovato ad aspettarlo Penelope e Telemaco. E nonostante questo omicidio, sarà proprio Telegono a recarsi in Italia con il fratellastro e Circe.
Ecco, è su questi strappi narrativi che si rischia di perdere per strada il tema principale del saggio. Per fortuna, ci viene in soccorso il capitolo successivo ≪Sapienti e predatori≫: "La caccia è il luogo dove si svolge lo sdoppiamento primordiale, la divaricazione da cui tutte le altre discendono. La preda diventa cacciatore nel momento in cui uno sguardo si posa su un essere distinto da sé. In quello sguardo sorge il cacciatore, che fino a quel momento era stato un animale in mezzo agli altri. Era l'animale. Ora, diventando lo sguardo che osserva l'animale, era tenuto anche a ucciderlo".
All'inizio di questa recensione, e anche quindi del saggio, abbiamo incontrato la parola ≪colpa≫, che è quasi strumento di espiazione per l'essere diventati Homo: "Ci furono due peccati capitali: la separazione e l'imitazione. La separazione avvenne quando Homo decise di opporsi al continuum zoologico, prendendo alcuni animali al suo servizio e considerando gli altri come materiale potenzialmente utile per i suoi fini. L'imitazione quando Homo si avvicinò, nel suo comportamento, ai predatori. Una volta compiuto il passaggio alla predazione, Homo non sapeva come trattare quella nuova parte della sua natura. Scelse di circoscriverla nel suo significato letterale e di espanderla indefinitamente come metafora Inventò la caccia come attività non indispensabile, gratuita. Fu la prima arte per l'arte".
E dopo questa chiosa disarmante e anche "logica", Calasso aggiunge un corollario che diventa la pietra angolare della citazione precedente: "Nel regno animale, gli esseri continuavano a vivere come avevano sempre vissuto. Ripetevano immancabilmente gli stessi gesti. Quando Homo si trasformò in predatore, inferse una lesione in questo ordine delle cose. Da allora ogni uccisione fu anche un segnale che ravvivava il ricordo di quel passaggio. E intorno a quel ricordo si elaboravano altri gesti, ripetuti con regolarità. Il rito permetteva di non discostarsi troppo dagli altri viventi".
Interessante, quindi, stabilire il peso psicologico dell'essere diventato cacciatore: "L'uomo non è un predatore nato, ma un predatore acquisito [...] I predatori sono indifferenti agli animali che non uccidono. Non così Homo, che intendeva trarre profitto da tutti gli animali [...] Homo non era un carnivoro per costituzione, il passaggio alla dieta carnea fu un evento nella sua storia. Anzi, il primo evento precisabile".
Che l'Homo non sia all'altezza del ruolo che sta acquisendo, viene spiegato in questo modo: "Homo apprende più difficilmente e più lentamente rispetto agli altri animali [...] Se non disponesse di una radicale indeterminazione, Homo non potrebbe sviluppare le sue enormi capacità di imitazione. Il ritardo dello sviluppo accresce la potenzialità di sviluppi".
Ma cosa resta della Natura? "Da Descartes in poi, i grandi filosofi che si incontrano nei manuali hanno dato una prova meschina nel trattare degli animali. Più che un modo per pensarli, la filosofia era una strategia per difendersi dal doverli pensare".
Il saggio procede a grandi passi verso un momento a metà tra il mito e la filosofia. Per farlo, bisogna passare per Eracle, cacciatore ma anche figlio di un dio, eterno ma mortale, invincibile ma non indistruttibile: "Spesso gli eroi erano innanzitutto cacciatori. Al contrario di loro, per diventare eroe Eracle dovette rinnegare in sé il cacciatore [...] Anche se gli eroi erano figli o discendenti di Zeus e di una mortale, e questo li avvicinava nella vita agli dèi, al pari degli uomini incontravano la morte". Il secondo concepimento di Eracle è struggente e doloroso al tempo stesso. Mentre Zeus vi assiste, si rende conto che quel compromesso con l'Homo lo porterà dentro al mito, e quindi alla fine del suo ciclo.
L'altro baluardo della resistenza alla modernità è la metamorfosi. Di conseguenza, Calasso dedica un intero capitolo a Ovidio: "Le Metamorfosi sono storie dentro storie, incastonate, autosufficienti. Nella loro immediatezza, tutte potrebbero fare a meno delle altre. Ma ciascuna è illuminata dalla sua cornice e solo dalla cornice trae un significato ulteriore". Se non è lo sciamano, se non sono gli dèi, forse la lettura di Ovidio potrebbe salvarci dal nostro essere diventati Homo? Evidentemente no, come si evince in questo passaggio: "Durante il regno della Metamorfosi si diventa ciò che si era. Più tardi, un velo di opacità si era steso progressivamente sul mondo. Era venuto a cadere ogni rapporto tra ciò che si era e come si appariva".
Uno dei fari intellettuali cui Calasso sembra identificarsi, è la figura di Plotino, cui viene dedicato un capitolo che apparentemente si discosta dal tema del saggio. La sua fuga del solo verso il solo nasce dalla sua conoscenza diretta di quelle culture che abbiamo incontrato noi "calassiani" leggendo sia Ka che L'ardore: la non-conoscenza è superiore alla conoscenza; l'Uno è un non-essere, non è sostanza, non è vita. Il pensiero deve andare oltre se stesso, abolendosi, annientandosi, rifiutandosi. 
Il capitolo successivo affronta una cultura cui sia i greci che Plotino devono molto: gli egizi. Calasso li ricorda per quel loro incredibile rapporto che avevano con gli animali, vera e propria origine dei misteri greci. Erano "barbari", ma non nella accezione che crede la vulgata comune: "I barbari erano civiltà più antiche della Grecia, che avevano raggiunto una sapienza altissima e immobile". E qual è il nesso con il saggio che stiamo leggendo? "Mentre gli egizi cercarono di raggiungere la massima animalizzazione dell'uomo, la vita dei greci ruotava attorno a un cardine: il riconoscimento degli dèi". 
E quindi torniamo allo schema originario del saggio: "All'inizio: non c'era caccia senza il divino; non c'era il divino senza caccia. Poi venne un momento in cui la caccia non ebbe più nulla a che fare con il divino e ciò che veniva chiamato divino non aveva pressoché nulla a che fare con il divino".
Resta un'ultima chance, quindi, quando Calasso riconduce ai Misteri - mutuati proprio dagli egizi - l'ultima possibilità dell'Homo di ricongiungersi al ciclo, alla Natura: "I Misteri non sono una cosa che si possiede, come un pensiero; non sono qualcosa che si applica, come una formula. Sono un luogo che offre qualcosa di ulteriore ogni volta che vi si torna. Ma per tornarvi occorre allontanarsene, rientrare nella vita comune - e poi lasciarla di nuovo".