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08 febbraio 2009

sermone sul caso Englaro

Carissimo,

come stai?

Ti mando in allegato il sermone che ho pronunciato stamattina a partire dal testo proposto per oggi dal lezionario, ma che mi ha permesso di parlare di una situazione attuale che sta a cuore a molti.

Il Vaticano non può avere il monopolio su questa e su altre questioni e sarebbe importante che la gente comprendesse che ci sono cristiani che la vedono in modo diverso e che sono solidali con Beppino Englaro e sua moglie Saturna.

Un saluto affettuoso!

past. Sergio Manna 

 

 

Marco 1:29-31

Care sorelle e cari fratelli,

in questo breve episodio Marco ci racconta uno dei primi miracoli di Gesù.

Una donna è a letto afflitta dalla malattia. Gesù arriva, le prende la mano, la libera dalla febbre e la guarisce.

La donna è la suocera di Pietro che subito si alza e si mette a servirli.

C’è chi ha voluto fare una lettura malevola di questo miracolo.

Si tratterebbe di una guarigione maschilista, dettata da bassi bisogni primari.

Gesù e i suoi hanno fame e allora val la pena di guarire la suocera di Pietro, che altrimenti chi preparerà il pranzo?

Naturalmente fare una simile lettura vuol dire applicare categorie di pensiero moderne ad un racconto del I secolo.

In realtà, per la mentalità dell’epoca, quando c’erano ospiti di riguardo era considerato come un grande onore il poterli servire.

Era un privilegio farlo;  un privilegio ed un onore che toccavano alla donna più anziana della casa.

E dunque, per la suocera di Pietro, l’essere ammalata proprio nel giorno in cui un famoso maestro era ospite in casa sua era sicuramente motivo di dispiacere.

Doveva pesarle molto il non poter esercitare l’onore e il privilegio che le spettava, di manifestare l’ospitalità a Gesù mediante il servizio che le competeva in quanto donna più anziana della casa.

E dunque, a bene vedere, Gesù nel guarirla rivela grande attenzione e sensibilità; le restituisce il suo ruolo, la sua posizione.

La guarigione che egli opera non ha soltanto un effetto fisico; ne ha anche uno di carattere sociale, perché reintegra la persona, le restituisce il suo status, la sua posizione, la sua funzione.

Non si tratta di un atto maschilista, ma di un’azione liberatrice che nasce dalla sensibilità e dall’attenzione ai bisogni della persona.

Ecco, qui c’è un punto importante che tocca anche l’attualità.

Essere sensibili e attenti ai bisogni delle persone e compiere gesti di liberazione.

Leggendo questa pagina del Vangelo non ho potuto fare a meno di pensare ad un’altra donna costretta a letto e impossibilitata a muoversi, per la quale però non sembra esserci alcuna guarigione possibile.

Mi riferisco a Eluana Englaro e al clamore suscitato dalla decisione della Corte d’Appello, confermata poi dalla Cassazione, di autorizzare l’interruzione dell’alimentazione forzata e degli altri supporti che la mantengono artificialmente in vita.

Eluana è in stato vegetativo permanente da 17 anni, inchiodata ad un letto, priva di coscienza, prigioniera di un corpo che è diventato il suo sarcofago.

Nel suo caso non sembra esserci alcuna possibilità di risveglio, di ritorno alla vita.

È vero che c’è anche ci esce dal coma. È vero che a Bologna esiste una Casa dei risvegli, dove vengono ricoverate persone in stato vegetativo permanente.

Ma se entro un anno tali persone non si risvegliano si rinuncia a seguirle, perché dopo un anno le speranze diventano troppo scarse.

Per  Eluana di anni ne sono passati ben 17 e ciò che si sta prolungando nel suo caso non è la vita; semmai l’agonia.

Quale gesto liberatorio richiederebbero in questo caso  l’attenzione e la sensibilità ai bisogni della persona?

I familiari di Eluana chiedono dal 1992 che l’alimentazione forzata venga interrotta affinché la loro figlia possa andarsene in pace.

Eluana stessa, prima dell’incidente che l’ha ridotta in quello stato, aveva chiaramente  manifestato  la volontà di non essere tenuta in vita artificialmente se le fosse accaduto qualcosa. L’aver visto un amico in coma l’aveva portata a quella decisione.

Il tribunale, dopo aver esaminato ogni cosa, ha dato finalmente ragione ad Eluana e ai suoi genitori.

Ma la chiesa cattolica e i politici che dipendono troppo dal voto di quest’ultima gridano allo scandalo e non si vergognano di pronunciare parole durissime contro il padre di Eluana e contro quanti intendono, nel rispetto della legge e dell’articolo 32 della Costituzione,  rispettare l’autonomia e la volontà della persona.

Volano parole grosse: si parla di omicidio, di assassinio.

Beppino Englaro, un uomo consumato dal dolore, viene definito con arroganza come un padre snaturato.

E tutto questo nel nome di Dio.

Nessun rispetto per il dolore di quest’uomo e di sua moglie.

Nessun rispetto, nessuna sensibilità, nessuna attenzione ai bisogni della persona.

Autorevoli specialisti affermano che Eluana non soffrirà, perché le funzioni superiori del suo cervello sono intaccate e dunque non può provare né fame, né sete, né dolore; sensazioni che richiedono l’elaborazione della coscienza, cioè proprio ciò che manca a chi ha lesioni cerebrali come quelle di Eluana e si trova in stato vegetativo permanete.

Ma altri specialisti, messi in campo dall’associazione dei medici cattolici, insorgono e prospettano per Eluana una morte atroce: un farla morire di fame e di sete, quasi si trattasse di una persona perfettamente cosciente che viene chiusa in una stanza senza cibo né acqua fino alla morte.

Naturalmente non è così, ma evocare questo tipo di immagini fa certamente effetto sull’opinione pubblica.

A quanto pare anche il governo  ha deciso di cavalcare l’onda e sembra intenzionato a impedire, tramite un decreto, ciò che un tribunale ha legittimamente autorizzato.

E in tutto questo si fa uso e abuso del nome di Dio.

Io ho la sensazione che in fondo a chi ha trasformato questa situazione dolorosa in una battaglia ideologica non importi nulla né di Dio né di Eluana.

E tuttavia voglio provare, soltanto per un momento, a credere alle tesi di chi sostiene che con la sospensione dell’alimentazione forzata e dell’idratazione artificiale Eluana soffrirà.

Questo vorrebbe dire che Eluana sarà cosciente di quello che le sta avvenendo.

Ma allora se sarà consapevole che sta morendo di fame e di sete, vorrà anche dire che è stata consapevole della propria condizione per tutti questi lunghissimi diciassette anni; consapevole di essere in un corpo che non può muoversi, che non può reagire, che non può comunicare in nessun modo con l’esterno, che non può manifestare emozioni, che non può controllare la in alcun modo le proprie funzioni; un corpo divenuto come una sorta di sarcofago.  E in più con la consapevolezza di essere tenuta in quelle condizioni contro il proprio volere, avendo a suo tempo dichiarato apertamente di preferire la morte a tutto questo.

Sarebbe pazzesco!

Come vi sentireste voi se vi trovaste al posto di Eluana e se foste consapevoli di essere in quella situazione da 17 anni?

Vorreste forse rimanerci per altri 40 anni (come vorrebbero i sedicenti “paladini della vita”) o non preferireste piuttosto che quella tortura finisse, anche se si trattasse di morire di fame e di sete?

Cosa considerereste più atroce la morte o non piuttosto il prolungamento forzato della  vita in quelle condizioni?

A ciascuno la sua risposta.  

Da credente evangelico io penso che in questi come i altri casi debba valere ciò che Gesù ha detto ai suoi discepoli, tanto in positivo quanto in negativo:  “Fa agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”, “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”.

Cosa vorremmo per noi stessi se ci trovassimo al posto di Eluana?

Il rispetto della nostra volontà o che la nostra volontà venga calpestata?

Se c’è una cosa che mi è diventata quanto mai chiara in questi giorni è la necessità assoluta che nel nostro paese si arrivi al più presto ad una legge seria sul testamento biologico, affinché casi come questo di Eluana (quale che sia il suo esito) non abbiano a ripetersi.

La gerarchia cattolica nel nostro paese appare come un blocco monolitico deciso a difendere la vita anche a costo di prolungare l’agonia di una persona fino all’inverosimile.

In Germania, invece, il cardinale Karl Lehmann, presidente della conferenza episcopale cattolica, insieme a Manfred Koch, presidente del consiglio delle chiese evangeliche tedesche, ha distribuito, un paio di mesi fa, nel duomo di Muenster, un esempio di testamento biologico che riconosce l’autodeterminazione della persona e il suo diritto di rifiutare tutte le procedure che non servono a migliorare la qualità della vita ma soltanto a dilazionare la morte.

Non si capisce perché Ratzinger e i suoi non possano prendere esempio dai loro colleghi tedeschi.

C’è ancora una cosa che mi lascia perplesso nell’atteggiamento di molti cattolici.

Tutto questo attaccamento alla vita, questo volerne impedire la fine naturale in ogni modo, mi sembra davvero in contraddizione con l’affermazione di credere nella resurrezione, in una vita oltre la vita, nell’esistenza del paradiso.

Tutto questo accanimento sul povero corpo di Eluana mi pare indegno da parte di persone che dicono di credere in un Dio misericordioso capace di liberare dalla sofferenza e accogliere chi muore nel suo regno.

Per vie naturali Eluana Englaro se ne sarebbe andata in pace già nel 1992; con metodi artificiali la sua vita è diventata un calvario per ben 17 anni.

L’agire del Signore Gesù Cristo è stato sempre caratterizzato dall’attenzione alla persona, ai suoi bisogni: un agire orientato alla liberazione.

E allora, da credente, mi chiedo (e vorrei chiedere a coloro che stanno manifestando fuori dalla clinica di Udine) cosa sarebbe davvero liberatorio per Eluana; cosa manifesterebbe davvero attenzione alla sua persona e ai suoi bisogni.

Ho iniziato riflettendo su Gesù che prende per mano la suocera di Pietro, la libera dalla febbre e l’aiuta ad alzarsi.

Voglio concludere ora con un’ immagine diversa ma simile.

M’immagino Cristo seduto ai piedi del letto di Eluana, che le prende la mano e finalmente la libera da quel corpo divenuto il sarcofago nel quale è stata prigioniera per gli ultimi 17 anni; immagino Gesù che la libera e l’aiuta ad alzarsi per portarla con sé e donarle finalmente pace e riposo in attesa della resurrezione.

Oggi accenderò una candela e la metterò davanti alla finestra del mio studio e questa sarà la mia preghiera. Spero possa essere anche la vostra.

AMEN

 

05 giugno 2007

Un pastore valdese
e il filmato della BBC

Caro Alessandro,
ti ringrazio molto per il tuo invito ad intervenire, ma purtroppo sono molto preso da troppe cose [...]. Non ho visto Annozero di Michele Santoro, perché quella sera avevo la riunione del nostro consiglio, ma avevo già guardato il documento della BBC su Youtube. Cosa vuoi che si aggiunga?
È agghiacciante!
Posso solo dirti che mentre in Italia per parlare dei casi di pedofilia legati ai sacerdoti si è dovuta fare una faticaccia immane (con TG dieciminuti andato in onda la sera prima di Annozero in funzione apologetico-compensatoria a favore della chiesa cattolica); in America, dove ho lavorato come cappellano ospedaliero, i giornalisti erano liberi di parlarne, i telegiornali non tacevano le notizie, i politici non facevano loro pressioni indebite, e gli alti prelati cattolici erano costretti a rispondere alle coraggiose domande che venivano loro rivolte, senza potersi sottrarre.
Questo la dice lunga su quanto potere ancora, purtroppo, abbia la gerarchia cattolica in Italia e su quanto servili i nostri politici e i giornalisti (con qualche bella eccezione, tipo Santoro) siano verso di essa. Eppure il nostro dovrebbe essere uno stato laico.
Quelli di pedofilia sono e restano reati penale gravissimi,che vanno giudicati dai tribunali laici e non da quelli ecclesiastici.
Perciò l'atteggiamento della chiesa cattolica è stato assolutamente errato e antievangelico. Un reato penale resta tale anche se a commetterlo è un prete ed è dunque gravissimo tutelare i preti (e addirittura trasferirli di parrocchia in parrocchia moltiplicando gli orrori) e impedire alle vittime di parlare e di ricevere giustizia.
Un caro saluto!
Sergio Manna


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13 dicembre 2006

Il caso Welby e la coscienza cristiana

Eccovi l'intervento integrale del bellissimo intervento del pastore Sergio Manna. È ricco di informazioni e di elementi che francamente non conoscevo, e che arricchiscono la qualità del dibattito e le ragioni di chi difende l'eutanasia. Buona lettura


"NO" è davvero l’unica risposta cristiana possibile
alla domanda di eutanasia?

È dallo scorso mese di settembre, dopo la lettera indirizzata da Pergiorgio Welby al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che in Italia è tornato il dibattito sul tema dell’eutanasia. Guardando i programmi televisivi, o leggendo i quotidiani che hanno trattato la questione, sembrerebbe che esista un’unica risposta cristiana a chi chiede di poter interrompere la propria esistenza a causa di una malattia che non abbia prospettive di miglioramento e che comporti sofferenze intollerabili; questa risposta sarebbe quella del magistero cattolico: un no fermo e deciso.
Ma è proprio vero che non esista, in una prospettiva cristiana, un’altra risposta possibile? In questo articolo vorrei condividere alcune opinioni che sento fortemente e che mi vengono non soltanto dall’approfondimento dei documenti elaborati dal “Gruppo di lavoro sui problemi etici posti dalla scienza[1], ma anche e soprattutto dalla mia pratica pastorale di cappellano clinico.
Innanzi tutto vorrei fare una premessa. Non tutte le richieste di eutanasia sono davvero tali. Molte persone chiedono di essere aiutate a morire semplicemente perché nel nostro Paese il dolore fisico non viene adeguatamente trattato. In uno studio del 2002 l’Italia era al 101esimo posto nel mondo per somministrazione di morfina ai malati gravi, subito dopo l’Eritrea.
Non credo che le cose siano molto cambiate negli ultimi anni. Sebbene la morfina sia il farmaco più efficace nella terapia del dolore, siamo ancora scandalosamente indietro nel suo utilizzo. Si preferisce, quando va bene, l’utilizzo della codeina, che ne è un derivato ma non ne ha la stessa efficacia e costa addirittura di più.
Quanti malati che muoiono bestemmiando e chiedono di farla finita per le sofferenze atroci che devono sopportare, potrebbero invece andarsene in pace se il loro dolore venisse correttamente trattato?
Sono convinto che un adeguato uso dei farmaci analgesici, primo fra tutti la morfina, ridurrebbe di molto le richieste di eutanasia.
E tuttavia rimangono quei casi in cui neppure i più potenti oppiacei risolvono il problema; casi in cui ai dolori fisici si aggiungono le sofferenze esistenziali, spirituali, psicologiche, che non vengono meno neppure con la preghiera, con un adeguato accompagnamento pastorale o psicologico, con l’amorevole sostegno di amici e parenti.
Non si tratta di ragionare a partire da principi astratti. Bisogna confrontarsi con i casi concreti, con le sofferenze vere di persone reali.
Come porci allora di fronte a Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare in fase molto avanzata, che chiede di essere aiutato a morire serenamente anziché dover convivere con la prospettiva angosciosa di un’atroce morte per soffocamento?
Può esservi, in una prospettiva cristiana, una risposta diversa da quella del magistero cattolico?
La risposta cattolica Welby la conosce bene, e infatti la riporta nella sua lettera al Presidente della Repubblica, aggiungendovi però i motivi per i quali non la ritiene soddisfacente: <<Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui.
Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’ – io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico
>>[2].
Ritengo che le critiche di Welby alla posizione ufficiale cattolica siano pertinenti e che quel suo richiamo alla pietas sia condivisibile non soltanto dal laico (nel senso del non credente), ma anche dal cristiano, a qualunque confessione appartenga.
Le moderne tecnologie ci permettono oggi di prolungare, fino all’inversosimile, delle esistenze che per vie “naturali” si sarebbero già concluse da lungo tempo[3]. E allora, si tratta veramente di prolungamento della vita o non ci troviamo, piuttosto, di fronte al prolungamento dell’agonia?
Il giorno in cui anche in Italia (come già avviene in tanti Paesi civili) sarà possibile compilare il Testamento Biologico[4], con il quale ciascuna persona potrà decidere per se stessa quali trattamenti medici accettare e quali rifiutare, potendo finalmente respingere in piena coscienza quelle pratiche il cui scopo sia il mero prolungamento dei propri giorni, potremo forse avere una riduzione ulteriore dei casi in cui le persone chiedono l’eutanasia. Ci auguriamo che quel giorno venga presto e dovremmo fare tutto quanto è in nostro potere affinché un tale giorno arrivi davvero!
Nel frattempo, però, quale risposta dare alla richiesta di Piergiorgio Welby?
Esiste una risposta cristiana altra, rispetto al no assoluto e immodificabile dichiarato dal magistero cattolico?
Da cristiano evangelico credo che ci siano almeno due parole di Gesù che possono guidare la nostra riflessione in vista di una risposta: “ama il prossimo tuo come te stesso[5] e “come volete che gli uomini facciano a voi, fate voi pure a loro[6].
Sappiamo che alla domanda “chi è il mio prossimo?” Gesù rispose con la parabola del samaritano[7], come a ricordare che il mio prossimo è anche colui che non la pensa come me, che non ha il mio stesso sistema di credenze e valori. E allora, non è detto che la visione etica o bioetica di una chiesa vada accettata da tutti o imposta a tutti, indipendentemente dal loro credo o in assenza di un credo. Amore per il prossimo significa, dunque, anche prenderne sul serio le domande, anche quelle scomode, e non valutarle o, peggio ancora, ignorarle a partire da principi generali fissi e immutabili.
Fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi, nel caso di Piergiorgio Welby, significa metterci davvero nei suoi panni per qualche giorno e solo allora cercare di dare una risposta che non sia spietata, cioè priva di quella pietas da lui invocata. Paradossalmente, nella situazione di Welby, la pietas, o, se preferiamo, la carità cristiana, potrebbe trovarsi non già in un rifiuto perentorio, assoluto, alla sua richiesta di por fine alle proprie sofferenze, bensì proprio nell’accoglienza di quella sua volontà.
E allora, se io fossi nei panni di Welby, vorrei che quella mia richiesta, cui da solo non posso rispondere, venisse accolta e rispettata; se mi trovassi nelle sue condizioni, vorrei che domani venisse fatto a me ciò che egli richiede oggi per se stesso.

Termino con le parole conclusive del documento del Gruppo di lavoro sui problemi etici posti dalla scienza che rispecchiano in pieno il mio pensiero e il mio sentire:

Da quale parte sta il Dio della vita e della promessa? Dalla parte del non-senso del dolore acuto di un malato inguaribile o dalla parte del suo umano desiderio di morire? Per quanto paradossale possa essere, in una tale situazione accogliere la domanda di morte significa accogliere la domanda della vita, accogliere il diritto di morire coscientemente la propria morte. Il medico che accoglie questa domanda del malato inguaribile l’accoglie all’interno di un lungo processo di cura e di relazioni. Il medico che si rende disponibile al suicidio assistito o all’eutanasia non commette un crimine, non viola alcuna legge divina, compie un gesto umano, di profondo rispetto, a difesa di quella vita che ha un nome e una storia di relazioni.”[8]

Sergio Manna
Pastore valdese

Pomaretto, 5 dicembre 2006

[1] Costituito dalla Tavola Valdese nel 1992, ha elaborato i seguenti documenti, posti all’attenzione delle chiese e poi pubblicati dalla casa editrice Claudiana: Bioetica, Aborto, Eutanasia (1998), Procreazione medicalmente assistita (1999). Utile anche la lettura di Giovanna Pons, Progresso scientifico e bioetica, 1999, Claudiana.
[2] Lettera di Piergorgio Welby al Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano, settembre 2006
[3] Cfr. anche il caso di Eluana Englaro, in stato vegetativo permanente in seguito ad incidente stradale avvenuto il 18 gennaio del 1992 e tenuta artificialmente in vita ancora oggi, nonostante il parere contrario dei genitori. La British Medical Association e la American Academy of Neurology sostengono che, in casi come questi, sia lecito sospendere la nutrizione e l’idratazione artificiale perché prolungare la sopravvivenza oltre i dodici mesi sarebbe accanimento terapeutico. Eluana è in quello stato da quasi quindici anni.
[4]Fin dai primi anni ’90 veniva distribuito ai pazienti dell’Ospedale Evangelico Villa Betania di Napoli un’eccellente esempio di testamento biologico elaborato dall’allora cappellano, il pastore evangelico battista Massimo Aprile. Ne esistono oggi altri ottimi esempi su internet.
[5] Marco12:31
[6] Luca 6:31
[7] Luca10:25-37
[8] “Eutanasia e suicidio assistito”, in Bioetica, Aborto, Eutanasia, Claudiana, Torino, 1998, p.90

13 febbraio 2006

le vignette "blasfeme" viste da un laico

Ricevo da Mik, un caro amico (altrettanto dotto e arguto), questo intervento laico sulla questione delle vignette "blasfeme".
Vale la pena avventurarsi in questo post, credetemi.
Buona lettura,
minimAle

Una risata ci seppellirà. Una vignetta, volendo, anche…
Oggi viviamo in un mondo senza ironia, uno di quei mondi che in un altro pianeta s’ambienterebbe benissimo in un racconto di (alien)Asimov, quei mondi, per intenderci, dove ci sono i mostri (noi), dove qualunque cosa arrivasse da fuori sarebbe preda di temibili fiere. Altro che la guerra dei mondi. Siamo formichine che fanno la guerra al loro mondo (il quale ha da tempo deciso di sterminarci, e ubi maior…). Ho letto, su questo blog, di dotte, umane, sentimentali, corrette dissertazioni. E vorrei personalmente classificarle come inutili. È forse l’unico modo per riconoscere il loro valore. Valore effimero in un mondo che ha sistematicamente crocefisso profeti, abbruciato filosofi, violentato scienziati (Alan Touring per citarne uno), ignorato sibille mentre ha esaltato condottieri feroci, adulato prostitute (e sto pensando a qualcosa di più interessante di Alba Parietti), idolatrato dittature e glorificato lo shopping.
Si obbietterà, immagino, da più parti che Hollywood(Planet) ci offre musica, arti, scienze, filosofie e fitness. Nulla da eccepire. Banalità le mie considerazioni, banalità le obiezioni. Intanto consentitemi un conato. La mattina quando apro i giornali, il pomeriggio quando navigo in rete, la sera quando vedo i cinegiornali (avete letto bene… cine… sono montati, la cronaca istantanea è filtrata da Clemente Mimun), la notte quando non riesco a vedere le stelle perché un lampione saetta luce al sodio dentro i miei occhi.
Chiunque potrebbe spiegare meglio di me cosa siano tolleranza e intolleranza, guerra e pace, amore e sesso… anche Loredana Lecciso (credo lo abbia fatto recentemente su RaiUno). Nessuno, purtroppo, riesce ancora a somministrarmi un emetico contro il conato che la mattina, il pomeriggio, la sera e la notte m’affligge.
E allora vivo, ingrasso, leggo, non pratico fitness, ascolto (poco) e parlo (molto, ma molto poco con me stesso), convinto che una risata ci seppellirà. Quella di Dio osservando la Chiesa cattolica apostolica romana, quella di Allah osservando Hamas, quella del prossimo uragano osservando Mr. Bush, quella della Verità osservando Berlusconi. Con la risata finale della Morte osservando il sottoscritto (è parecchio che ti seguo, caro…).
Se Maometto, insieme alle schiere di vergini che attendono i martiri, avesse avuto tempo di vedere la vignetta (funzionerà il fax da quelle parti?) probabilmente esclamerebbe ‘cretino!’. Non credo perderebbe un solo istante della contemplazione dell’Eterno telegrafando a Bin Laden le proprie rimostranze. Se il Misericordioso si degnasse, anche solo per un istante, di osservare la parte del pianeta di propria competenza credo tornerebbe immediatamente a giocare a carte con Visnù. Esclamando ‘chi si contenta gode’. E piazzerebbe una scala a incastro fenomenale (anche se ho l’impressione che le partite finiscano sempre in parità… tra onniscenti non c’è gusto).
Io credo ci abbiano creati (il Caso o la Necessità) solo per dimostrare che nulla è perfetto. Che si può ridere della morte, che si può piangere per amore e che gli spinelli lasciano più mal di testa che erezioni decenti. E che si può ridere anche del divino, tanto loro (Dio, il Misericordioso, Visnù e Zeus) restano e noi andiamo…(dove? Questo sarebbe confortante… il viaggio terreno dell’uomo è come un Cervia-Ravenna con Trenitalia, pessimo).
Mi perdoni il pastore valdese Sergio, insieme a don Paolo, ma preferirei mangiare con loro una buona ribollita piuttosto che rattristarci dell’ineluttabile stupidità umana (nota: non sto scherzando… quando volete, dove volete… pago io e prometto di farlo con soldi sudati e non frodati al fisco. minimAle paga per sé, perché chi ha il coraggio di un blog deve avere il coraggio delle conseguenze).
Le loro riflessioni sono talmente ineccepibili e intonate da essere tristemente silenziose. In un mondo fonoassorbente (dove una donna su 5 è, tra l’altro, scontenta del proprio assorbente, così recitano migliaia di poster che tappezzano Roma in questi giorni vicino a Berlusconi), le voci di Sergio e Paolo sono come quelle di Giovanni nel deserto, Cristo sulla croce e Roncalli da un famoso balcone. Fonoassorbite. O al massimo coperte da una prima serata su RaiUno. Si trattava solo di un paio di vignette. Ridiamoci sopra o giriamo pagina (se non v’han fatto sorridere). Il resto è solo fuffa. In attesa della risata che ci seppellirà.
Mik
PS Caro Sergio Manna, mi scriverebbe cortesemente? Avrei delle curiosità in merito a Pietro Valdo che mi farebbe piacere soddisfare…

11 febbraio 2006

le vignette "blasfeme" viste da un pastore valdese

Qualche post fa, ho inserito una bellissima lettera di un pastore valdese (parzialmente pubblicata da Repubblica) che riscosse lodi e approvazioni anche da parte di laici o atei (come il sottoscritto).
Ebbene, dopo mia esplicita richiesta, Sergio mi ha scritto questo breve e illuminante intervento sul caso delle vignette blasfeme.
Ovviamente non voglio aggiungere nulla, se non una doverosa precisazione: quando qualcuno mi regala interventi come questo, non vuole dire automaticamente che approvi il resto del mio blog. Questa è una palestra di confronti, tant'è che domani leggerete un pensiero in merito, questa volta da parte di un sacerdote cattolico.

Caro Alessandro L.,
non avrei molto da aggiungere a quello che scrive oggi su La Repubblica Michele Serra nella sua rubrica L'amaca, ma qualcosa te la dico lo stesso.
Credo che la satira sia una cosa salutare e la sua tolleranza è indice di democrazia. L'espulsione di Luttazzi dalla TV italiana (tanto per citare un caso di casa nostra) è dunque un esempio di quanto poco democratico sia il regime berlusconiano.
Detto questo, bisogna però aggiungere che anche la satira dovrebbe porsi dei limiti (preferibilmente da se stessa). Scherzare troppo sul "sacro" può diventare offensivo e avere conseguenze nefaste in ambienti già di per sé non educati alla tolleranza.
Una fede come quella islamica (che rispetto) vieta in maniera assoluta la rappresentazione di Dio o di Maometto. Sfidare quel divieto è già problematico; rappresentare addirittura il profeta dell'Islam con una bomba in testa, quasi a riaffermare l'assurda equazione Islam=Terrorismo non è affatto saggio e ne abbiamo visto gli effetti.
Naturalmente, molte delle reazioni violente sono state pilotate ad arte da qualche burattinaio (le vignette erano infatti state pubblicate diversi mesi fa), ma ciò non toglie nulla al fatto che quelle vignette andavano evitate. Da noi in occidente si può scherzare su tutto, anche sulla religione (vedi i vari Benigni, Covatta etc.) e molti religiosi, me incluso, sanno riderne di gusto, quando non si sorpassa limite.
Di fatto, le vignette hanno evidentemente sorpassato quel limite per chi appartiene alla fede islamica. Credo che la cosa fondamentale, cui dovremmo sempre fare attenzione, è che non possiamo pretendere di applicare i nostri criteri a culture e religioni diverse dalle nostre, alrimenti pecchiamo di etnocentrismo.
Questo è quanto è accaduto con le vignette in questione e molti ne hanno saputo approfittare per fini iniqui: sia quelle fazioni integraliste islamiche propense a fomentare odio e violenza contro l'occidente, sia le varie organizzazioni razziste e xenofobe qui in Europa (dalla squallida Lega Nord ai partiti di estrema destra, incluso quello che in Danimarca vede aumentare i consensi proprio grazie alle violenze di questi giorni).
In ultima analisi, queste vignette cosa hanno prodotto e chi ci ha guadagnato? Basterebbe, a mio giudizio, riflettere su questa domanda per comprendere che la pubblicazione di quelle vignette è stato un grave errore.
Un caro saluto
Sergio Manna

19 gennaio 2006

perché Dio permette la sofferenza?

Come ho già sottolineato nel precedente post, non sono un credente, ma resto sempre affascinato dalla straordinaria competenza e conoscenza che caratterizza certi religiosi non per forza "famosi".

Da mesi, ormai, nella pagina dei commenti di Repubblica, Corrado Augias sta portando avanti un lungo e fascinoso confronto sulla fede, che sta coinvolgendo semplici lettrici e lettori, come anche persone competenti e illuminate, di ogni estrazione sociale e - soprattutto - credenti o laiche.

Mercoledì scorso, è apparsa una bellissima lettera di Sergio Manna, un pastore valdese che ha aggiunto il proprio contributo che qui pubblico integralmente, non costretto cioè dalle giuste e legittime leggi editoriali che spesso sintetizzano i contributi dei lettori per oggettive ragioni di spazio.

Ringrazio il pastore che mi ha autorizzato alla pubblicazione e che mi ha espressamente richiesto di lasciare la sua firma oltreché il suo account.

minimAle

Caro Augias,

sono un pastore valdese e le scrivo a proposito della lettera di un lettore e della sua conseguente risposta. Lei ha ragione nel dire che sulle domande poste dal lettore, e dunque sulla questione della teodicea, "nessuno ha finora saputo trovare una risposta soddisfacente". Premetto perciò che la mia non intende essere quella risposta soddisfacente, che in questo mondo non c’è. Ma entrambi i vostri contributi si concludono con il richiamo all'angoscia e dunque vorrei intervenire per questo.

Mi permetto di suggerire al lettore la lettura di un libro che affronta le tematiche da lui enunciate e denunciate. L’autore non è un teologo o un filosofo che si metta a ragionare in astratto sul problema della teodicea con l’unico intento di giustificare e riabilitare Dio. È un rabbino, Harold S. Kushner, che fa sulla sua pelle l’esperienza del giusto che soffre ingiustamente: il figlio gli muore a 14 anni per una malattia terribile che si chiama progeria e che porta il corpo di chi ne è affetto ad invecchiare e giungere alla morte precocissimamente. Alla morte del figlio il rabbino si rende conto che nessuna delle risposte tradizionali della fede gli è di conforto, incluse le risposte che lui aveva a suo tempo dato da rabbino sia dal pulpito che nei colloqui privati con credenti che si sentivano colpiti ingiustamente da lutti, malattie o catastrofi e chiedevano "perché Dio l’ha permesso?".

Il libro, in traduzione italiana, si intitola appunto "Ma cosa ho fatto per meritare questo?" (il cui titolo originale è invece "When bad things happen to good people"). Prendendo spunto dalla sua esperienza e rileggendo il libro biblico di Giobbe (per eccellenza nella Bibbia ebraica il giusto che soffre ingiustamente), Kushner riflette sulla questione della bontà, della giustizia e della onnipotenza di Dio (un po’ come Hans Jonas, da lei giustamente citato), arrivando a dire che nel caso di Giobbe, come in tutti i casi che richiamano la questione della teodicea (e dunque anche le questioni richiamate dal lettore e da lei stesso) diventa evidente che Dio non può essere tutte e tre le cose: buono, giusto e onnipotente.

Se è onnipotente, bastano le questioni richiamate dal lettore per affermare che non è né buono né giusto. Se invece è buono e giusto dovremo allora rinunciare all’idea che sia onnipotente. E a questa rinuncia arriva Kushner. Non so se posso far mie fino in fondo le sue conclusioni sulla non onnipotenza di Dio; mi piace però che il suo libro non si concluda con un lamento angoscioso e angosciato.

Alla domanda dov’è Dio nella nostra sofferenza e nelle ingiuste tragedie che colpiscono il nostro prossimo e il mondo, Kushner risponde che Dio è colui che ci da la forza di affrontarle e superarle, colui che ha dato la forza agli ebrei sopravvissuti agli orrori dei lager nazisti di ricostruirsi una vita e andare avanti, che ha dato a lui e a tante persone la forza di riprendersi da esperienze di lutto e dolore dalle quali non avrebbero mai pensato di poter uscire; Dio è colui che ispira tante persone a dedicarsi alla cura di coloro che sono colpiti dalle tragedie che la vita comporta, e il miracolo che talvolta Dio compie e di riportare la speranza in situazioni di cupa disperazione.

Da pastore valdese sono stato per anni cappellano ospedaliero e ho fatto esperienza di tutto questo. Ho compreso che la domanda "perché Dio mi fa questo?", molto spesso, più che una domanda sulla teodicea è una richiesta d’aiuto e che la mia risposta non deve consistere nel tentativo di giustificare Dio, come fanno gli amici di Giobbe, ma nello stare accanto a chi soffre, accettandone e talvolta perfino condividendone le bestemmie. Mi è già capitato di vedere come persone gravemente e ingiustamente colpite da mali terribili che maledicevano Dio, come vedendo in lui l’origine dei propri mali, siano poi giunte a riconoscerlo non più e non tanto nella loro malattia, o nella mancanza di guarigione, quanto piuttosto nella presenza costante di coloro che le hanno accompagnate, aiutate e sostenute, con amore, pazienza, rispetto, senza alcuna forma di giudizio o pregiudizio.

Non ho visto tante guarigioni miracolose, ho visto però quest’altro genere di miracoli: persone la cui unica preghiera poteva essere "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?" (Salmo 22,1) che hanno concluso la propria esistenza dicendo "Anima mia, benedici il Signore" (Salmo 103,1). So bene che purtroppo in molti casi la vita si conclude comunque con quel grido terribile: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?", sono anche le ultime parole di Gesù sulla croce, ma da credente mi consola il fatto che la risposta di Dio a quella preghiera, per Gesù come per noi, esiste e si chiama resurrezione.

Sergio Manna (pastore valdese) ser.manna@tin.it