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27 febbraio 2025

TRUE WEST, LA VITA DI SAM SHEPARD di Robert Greenfield (Jimenez)

Bello, intrigante, intelligente, rustico, mai volgare, coraggioso, affamato della vita... potrei continuare con righe su righe per descrivere Sam Shepard, uno dei più grandi autori cinematografici e teatrali di sempre. 
E questa bellissima biografia riesce a restituirne l'anima, la mente e il cuore, con una sapiente scrittura, mai agiografica, attenta al lettore, capace di restituire i sapori e i suoni di un'epoca in cui "vinceva" ancora il fattore umano.
La California era ancora la nuova frontiera dove tutto sembrava possibile, il vero West dove prevaleva ancora lo spirito del fuorilegge. Negli anni, questa sensibilità permeò il suo lavoro, consentendogli di mettere in scena una visione della vita americana mai vista prima sul palco
Un'infanzia minata dal padre alcolista, una New York piena di insidie che gli ispira i primi rudimenti della sua arte.
C’erano così tante voci che non sapevo da dove cominciare. Era splendido, davvero. Mi sentivo come una specie di strano stenografo. Di sicuro c’erano delle cose là fuori e io mi sono limitato a mettere per iscritto
La frequentazione di miti (Dylan, Smith, Antonioni, il figlio di Mingus) che iniziarono a segnare l'immaginario collettivo proprio in quegli anni.
La voglia di esistere bruciando l'impossibile e nel contempo di resistere allo stigma paterno.
Ho due parti in me che sono proprio incompatibili. Una è totalmente indisciplinata e vuole solo darsi all’avventura. L’altra ha quest’aria da vita ordinata e disciplinata
Un libro che è una vita che sono racconti che è una giostra di splendide sensazioni, che appena hai chiuso un capitolo vuoi subito leggere il successivo.
Dove leggi nomi che devono i primi passi anche grazie a lui: Gary Sinise, John Malkovich, Ed Harris, Ethan Hawke, Sean Penn, Nick Nolte, Philip Seymour Hoffman.
Dove incontri momenti oscuri e altri pieni di luce. Dove capisci quanto si possa essere geniali e autentici senza sembrare diversi o eccezionali.
Sam Shepard è un nome veramente importante per la Storia dell'Umanità, e questo libro ce lo ricorda con toni semplici, mai retorici, sempre attenti alla realtà dei fatti

01 luglio 2020

TESTIMONY di Robbie Robertson

Leader indiscusso della Band, sodale del primo Bob Dylan "elettrico", curatore del commento musicale di alcuni dei capolavori indiscussi di Martin Scorsese, Robbie Robertson è stato uno dei "testimoni" più attendibili di un periodo storico - dal 1957 in poi - in cui la musica americana stava scoprendo se stessa, alla ricerca di nuove forme di espressione e di nuove realtà.
Un'autobiografia gustosa e ben scritta, un bellissimo libro che può essere letto anche da chi conosce poco o nulla della musica o dell'America di quegli anni.

Un viaggio turbinoso e affascinante che parte dai primi passi di Robertson fino a quel concerto d'addio della Band che fu poi incastonato nella storia della musica e del cinema dal film The Last Waltz, con la regia di Martin Scorsese.
Non c'è pagina che non desti sorprese e sorrisi, dove è facile incontrare Jimi Hendrix o Andy Warhol, i Beatles e Charles Mingus, David Crosby e il mitologico trio di cui fece parte anche Neil Young. Nomi, cognomi, locali, città, si affastellano dentro i ricordi nitidi e dolcemente ingenui di un Robertson ancora giovanissimo, che racconta ogni cosa con uno spirito puro e capace di meravigliarsi.
Si respira un modo di "pensare" musica fatto di condivisioni, di passioni, di amore e di sesso, di droga e di strumenti musicali innovativi, dov'è facile finire sul palco di qualche mito del futuro o di perdere per strada amici o speranze.
Ma il pregio più bello di questo libro è che non è un testo dannato, non vive di nostalgia da pensionato rancoroso, non rincorre l'autocelebrazione.
Raramente mi sono divertito e arricchito leggendo un'autobiografia musicale e raramente ho fermato la lettura per andare a riascoltare questo brano o a riscoprire quell'altro brano.
Quando ciclicamente certi critici ormai ingrigiti tirano fuori il libro natalizio che racconta la classifica dei propri dischi preferiti - del secolo, del millennio, gli imperdibili - buttatelo via da una parte e acquistate invece testi come questo. Arricchirete la vostra passione musicale ma anche la vostra anima.

06 ottobre 2017

Pietropaoli, "The Princess", una recensione per immagin(azion)i

La Principessa di Pietropaoli sa di passeggiata sorniona in giro per la città, dove spunti e idee sembrano capitare per caso, senza alcun scopo intenzionale.
Godere delle cose belle, senza dare loro chissà quale significato pedante, dove l’essenza della musica vive di cenni, quasi soffusi, con poche ma giuste note: un panorama ricco di suggestioni, mai pesanti, mai indolenti.
Il cd si apre con una Jealous Guy suonata di pomeriggio primaverile, alla luce di birre chiare fresche e leggere. Mazzariello pennella poche dolci note, mentre SuperEnzo e Paternesi lo coccolano quel giusto, in attesa di brindare alla sera che si avvicina.
Segue poi un “mediterraneo” A Hard Rain's A Gonna Fall, dove per fortuna svanisce il biasichio della (a volte, diciamolo) voce insopportabile di Bob Dylan, per dare giusto spazio a un Mazzariello che suona ottimamente senza sparare virtuosismi prevedibili.
Dopodiché, giriamo in notturna, con una Night and Day che sembra suonare le note mancanti del capolavoro di Porter. Confesso che è un’attitudine che trovo sempre rischiosa: smontare un classico e proporlo sotto altre vesti, appartiene a un jazzismo che potrebbe risultare addirittura stucchevole. Il trio di Pietropaoli, invece, evita le curve più pericolose e raggiunge momenti di ghiotta rarefazione.
Arriviamo a quei giri tipici di Pietropaoli, Scaleno Beat, dove io mi perdo un po’ troppo, forse anche a causa del batterismo pieno di piatti di Paternesi. È l’unico brano in cui smetto di passeggiare perché qualcuno al cellulare mi sta distraendo. Preferisco di gran lunga le altre due perle di SuperEnzo, The Princess (6) e Supereroa (7), decisamente intriganti e piene di idee (specie la prima).
Secondo me, il perno su cui l’intero cd posa le sue solide basi narrative è il quinto brano, una dolcissima cover di Father Son, altrimenti stucchevole componimento di Peter Gabriel. Pietropaoli e Mazzariello la smontano e ricompongono, aiutati da una batteria che a tratti ricorda un tamburino militare (una scelta coraggiosa che sa di futuro). Di se per stesso, è un brano pericoloso, che poteva diventare una buccia di banana: qui, invece, è un capolavoro. Se il pianoforte avesse un dio, qui Mazzariello diventa il suo sacerdote più credibile. Da ascoltare e riascoltare più volte.
L’ottavo brano è la Philadelphia di Neil Young: anche se non conoscete la trama del film, riuscite a sentire i passi convulsi di Tom Hanks alle prese con una malattia che allora non dava scampo. C’è anche molta speranza, molta ariosità; ma lo struggimento la fa da padrone. E sta bene.
E sta altrettanto bene affrontare senza remore le note rugginose dell’Eddie Vedder di The End. Qui il trio di Pietropaoli riesce a far sorridere una canzone che altrimenti ci butterebbe dentro a grotte buie e umide. Onestamente, non so come siano riusciti nell’impresa, ma almeno - e una volta tanto - i Pearl Jam non sono tristi.
Il cd si conclude con una God Only Knows inizialmente struggente, poi pensierosa e quindi solare. Brian Wilson ringrazia, e chi ha passeggiato con il trio di Pietropaoli, pure.
Da anni penso che SuperEnzo sia arrivato a un punto della sua carriera in cui potrebbe smettere di osare, di raccontarsi e di raccontare; e, invece, lui continua a camminare, sorridente e umile, pronto a lanciare sfide senza strafare, pronto anche a fermarsi per fare due chiacchiere, anche e solo per ascoltarti, per poi riprendere a (in)seguire neanche lui sa cosa.

07 ottobre 2014

Le biciclette bianche di Joe Boyd

La mia musica e gli anni Sessanta, recita il sottotitolo.
Ma più che un noioso elenco di nostalgie, questo piccolo gioiello autobiografico è un voler indicare al lettore cosa veramente siano stati gli anni Sessanta extra bitols; senza cioè quella fastidiosa celebrazione ad oltranza dei quattro di Liverpool, di cui francamente non se ne può più.
Joe Boyd ha incrociato, prodotto o masticato personaggi come Jimi Hendrix, Bob Dylan, Nick Drake, Fairport Convention, Muddy Waters, Martin Carthy, John Martyn, Richard Thompson, Bob Marley, Steve Winwood, Steve Howe, Miles Davis, The Incredible String Band... e i primissimi Pink Floyd.
Per il suo UFO Club passarono i giovanissimi Michelangelo Antonioni e Monica Vitti, pronti a regalare al mondo del cinema pellicole indimenticabili. Sua fu anche la produzione del film Scandal - Il caso Profumo, dove sostanzialmente si respirava proprio il periodo di cui parla questo libro.
Onnivoro e curioso, Boyd incrocia anche Chris Blackwell, il papà della etichetta Island che darà spazio anche ai primi King Crimson e agli oggi sputtanati U2 (allora, invece, preziosi e genuini).
Insomma, queste pagine sono una gradevole passeggiata in un mondo che non c'è più: chi è meno nostalgico ma anche realista, capirà pure quanta differenza ci sia tra l'odierno proporre e produrre arte e quel modo invece originale e innovativo in cui vinceva ancora l'uomo e non la meccanica.
Unico difetto, una traduzione decisamente dozzinale.

24 maggio 2011

simple twist of dylan

Oggi compie 70 anni. Bob Dylan compie 70 anni.
Non è il mio preferito in assoluto, anche se - come ci si prova sempre, appena imbracciata una chitarra - mi sono cimentato con le sue canzoni più di una volta, senza mai minimamente sfiorarne neanche le sue peggiori versioni. Per riuscire a "somigliare" a Bob Dylan bisogna ingollare qualche lametta, mezzo litro di sturalavandini, fumare un sigaro cubano illegale, insultare la propria donna, assumere una faccia da "chissenefregadivoiedelmondo", con l'aria di chi manda a quel paese pure dio... e allora, forse forse forse, potrete cantare una sua canzone.
Ma non basta. E non basterà mai.
Forse è per questo che lo stesso Dylan tende a complicare i suoi limiti portando avanti un sempreterno live, sfidando tutto e tutti, destabilizzando quegli idioti che provano a cantargli dietro, e lui ogni volta cambia versione.
Dice: qual è la tua canzone preferita in assoluto?
Simple Twist Of Fate, che domande!


They sat together in the park
As the evening sky grew dark,
She looked at him and he felt a spark tingle to his bones.
'Twas then he felt alone and wished that he'd gone straight
And watched out for a simple twist of fate.

They walked along by the old canal
A little confused, I remember well
And stopped into a strange hotel with a neon burnin' bright.
He felt the heat of the night hit him like a freight train
Moving with a simple twist of fate.

A saxophone someplace far off played
As she was walkin' by the arcade.
As the light bust through a beat-up shade where he was wakin' up,
She dropped a coin into the cup of a blind man at the gate
And forgot about a simple twist of fate.

He woke up, the room was bare
He didn't see her anywhere.
He told himself he didn't care, pushed the window open wide,
Felt an emptiness inside to which he just could not relate
Brought on by a simple twist of fate.

He hears the ticking of the clocks
And walks along with a parrot that talks,
Hunts her down by the waterfront docks where the sailers all come in.
Maybe she'll pick him out again, how long must he wait
Once more for a simple twist of fate.

People tell me it's a sin
To know and feel too much within.
I still believe she was my twin, but I lost the ring.
She was born in spring, but I was born too late
Blame it on a simple twist of fate.

28 novembre 2007

Joe Henry

Giro sempre per l'aere, alla ricerca di suoni che soddisfino la mia costante fame musicale.
Alla fine, gira che ti rigira, scopro sempre le realtà veramente innovative in ambienti antichi, sperduti nel tempo, polverosi di vissuto, dove gli uomini sorseggiano gustose sigarette e le donne accarezzano gambe lisce e profumate. E guardano verso il vuoto, dove dal buio della stanza intrisa di legno senti una voce lontana che ti concilia con te stesso.
Joe Henry appartiene a quelle voci che ti sono amiche anche se non le hai mai incontrate. È famoso più per essere il cognato di Madonna che per la sua forza musicale.
In questi giorni, timidamente ma inesorabilmente, è uscito il suo ultimo (capo)lavoro: Civilians. Ve ne consiglio l'acquisto ad occhi chiusi.
All'inizio vi sembrerà il fratello gemello di Tom Waits o di Bob Dylan. Ma del primo ha sdrammatizzato il languorismo ad ogni costo; del secondo ha sfrondato l'arroganza.
Il video che segue è un rapido assaggio di una delle sue canzoni più belle (Our Song,
qui anche in mp3), con tanto di intervista di contorno.


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