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22 settembre 2010

fare sesso per un esame universitario

Il 19 settembre scorso, su Repubblica appare questa lettera che ha dell'incredibile (qui per l'originale): una lettrice confessa di aver fatto sesso con un professore per passare un esame universitario... anche se poi mal gliene incolse, perché dovette sostenerlo con un assistente.
Vale però il doppio principio che da una parte la tipa ha ceduto a un ricatto senza alcuna forza coercitiva che la costringesse a farlo - quindi ha scelto di farlo; dall'altra c'è in giro un prof che usa la sua posizione per proporre schifezze simili, e sarebbe ora che qualcuno lo denunciasse.
Sono certo, certissimo, che le lettrici e i lettori di questo blog mai si abbasserebbero a mezzucci simili (da ambedue le prospettive, ovviamente), e che comunque il vostro sdegno non è dettato da sentimenti moralisticheggianti, quanto invece da una posizione che ho cercato di riassumere come segue, e che sinteticamente - molto sinteticamente - Augias ha riportato stamattina.
Su Repubblica trovate il mio brevissimo passaggio, qui ve lo regalo per intero.
A dispetto dei diffusi canoni moralisti ipocriti in salsa cattolica, la lettrice che ha fatto sesso col prof per superare un esame universitario non è una "prostituta", ma una ladra.
Una ladra perché ha scavalcato i colleghi studenti con l'astuzia anziché con il doveroso studio; una ladra perché ha ottenuto un conseguente lavoro anche grazie la macchia di questo furto, magari togliendo spazio a chi quel posto lo avrebbe ottenuto rispettando però le regole.
Sicuramente la sua coscienza (sempre che ne abbia una) le ha suggerito che pur vantandosi in maniera così patetica era meglio non firmarsi. Non si preoccupi la tipa: questo è un paese in cui i ladri sono ben che noti ed evidenti. La prossima volta che scriverà, osi firmarsi: sarà solo un'altra ladra nella lunga lista degli stranoti.
Alessandro Loppi

23 agosto 2010

l'ipocrisia di Vito Mancuso, solita salsa all'italiana

Caro Direttore,
Caro Augias,
Spettabile Redazione,


ho trovato perlomeno specioso, se non addirittura offensivo nei confronti dei lettori, l'intervento odierno di Vito Mancuso: anziché prendere una posizione netta, nitida e precisa riguardo il lavorare o no per la Mondadori berlusconiana, ha chiamato in una sorta di correità di massa altri prestigiosi intellettuali "non berlusconidi" che - appunto - con il loro intelletto sono il fiore all'occhiello di un'industaria culturale che di culturale non ha più niente, né tantomeno un vestito così sofisticato da meritare cotanti fiori.

Questo continuare a gigionare intorno a una decisione che andava presa da tempo è un modo furbo per cercare di risultare ai posteri perlomeno neutri nella scrivenda Storia dell'Italia prossima post berlusconiana (ma non post berlusconizzata) che si sta presentando all'orizzonte.

Non approfondisco più di tanto due fatti estremi che in parte mi riguardano, ma tengo però almeno a precisarli sommariamente: tutti si lavora per un principe - è pacifico e ovvio; e il dipendente mondadoriano certo non ha il privilegio del potersi sottrarre al padrone con la stessa facilità con cui può e dovrebbe un intellettuale che gli presta nome e doti; io nel mio piccolo ho detto il mio bel "no" chiaro e forte alla Mediolanum, perdendo di fatto l'opportunità di percepire il triplo di quanto guadagno adesso, ma guadagnandone in limpidezza e credibilità perlomeno ai miei occhi molto esigenti (che non è poco) o "intransingenti" (come ebbe a scrivermi una volta proprio lo stimato Ezio Mauro).

È facile, cioè, rigirare intorno all'argomento e trovare sempre una fuga comoda per non dirsi e sentirsi dire che da tempo gli intellettuali DOVEVANO abbandonare il Berlusconi editore, perché la situazione era facilmente compatibile (quasi comparabile) a quella sorta di giuramento obbligatorio cui furono sottoposti i professori universitari ai tempi del Fascismo. Lì era cosa palese, ma anche più difficile da combattere; qui era ed è impalpabile, ma le possibilità di sottrarsi a un simile equivoco c'erano, ed esprimersi attraverso un gesto così eclatante e eticamente doveroso avrebbe significato anticipare di molto tempo la crisi del modello berlusconiano che invece sta vacillando solo grazie a opportunistiche fronde interne.

Ma se volessimo restare nelle argomentazioni più spicciole, il romanesco che è in me esce con foga dallo stomaco e si chiede: ma questa Repubblica sempre così attenta e specifica nel cogliere in fallo la moralità altrui, che cosa sa dire ai suoi lettori quando metà dei suoi intellettuali lavora anche per la controparte? Non è forse un po' troppo facile fare le pulci agli altri e ignorare le proprie?

È un discorso che ho affrontato in parte anche con Michele Serra a proposito della Rai (dove peraltro lavoro), che prima ha accettato la tenzone e poi si è dileguato: siamo così pronti e forti nel denunciare la distruzione di una cultura assoluta per mano dei "berlusconidi", quando sotto sotto in realtà stiamo difendendo solo la nostra di cultura, e i componenti la nostra "cricca" di intellettuali - e di potenti che li proteggono - che, per restare nella mia esperienza diretta, di vittime ne hanno fatte in Rai tante quante il berlusconismo imperante.

Insomma, e concludo, la decisione di dire "no" al berlusconismo anche abbandonando la Mondadori (e i suoi simpatici corridoi così ben descritti dal Mancuso nostalgico) era cosa da prendere da tempo, quando ancora il mare era in tempesta. Adesso sa tanto di una solo verbale proclamazione di una fuga (sempre che anche gli altri facciano la stessa "scenetta") da una barca che non solo non affonderà ma che nonostante tutto sopravviverà proprio grazie alle leggi furbe del padrone.

Tutto questo dalle mie parti si chiama "ipocrisia".

Un caro saluto,
Alessandro Loppi

13 gennaio 2010

fighetti all'opera

In questi giorni si parla di Craxi, tra una via da (NON) dovergli dedicare e letture più o meno storiche. Un "fenomeno" va analizzato per quello che suscita, per quelli che lo suscitano, per quelli che lo hanno suscitato, per quello che ha suscitato. E Craxi è un "fenomeno" molto complesso e complicato.
I tempi sono ancora prematuri per affrontare la sua figura in toto, ne sono convintissimo (anche se l'unico che ci ha capito qualcosa resterà sempre Giorgio Bocca), ma già Augias si era mosso con troppa prudenza, elegante ma fuori luogo; ora i soliti tre (due figli di papà e un bambino petulante) giocano a chi armeggia meglio con le pinze dell'occorrenza e della convenienza (argomenti zero, of course), insultando più o meno implicitamente chiunque non la pensi come loro (as usual). Meno male che il '77 è fuoco passato, altrimenti chissà come avrebbero difeso le loro idee...

16 dicembre 2009

ateismo è libertà

Mi sfugge come sia sfuggito il 10 dicembre scorso il lungo intervento di Vito Mancuso su Repubblica. Scritto a ridosso di un convegno internazionale promosso dal Progetto Culturale della Cei con il patrocinio del Comune di Roma, ripassa la lezione del difficile rapporto che la Chiesa ha con il progresso.
Tra le premesse della lunga prolusione, il compagno di libri di Augias scrive:
La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l'ateismo materialista. Tale era l'impresa della modernità, caratterizzata dal porre l'assoluto nello stato-partito o nel positivismo scientista, ma questi ideali sono crollati e oggi gli uomini sono sempre più lontani dall'ateismo teoreticamente impegnato. Gli odierni alfieri dell'ateismo vogliono distruggere la religione proprio mentre si connota il presente come "rivincita di Dio", anzi la vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono il ritorno, ma i loro stessi libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di Dio.
Non immaginavo si potessero scrivere tante sciocchezze in così poche righe, credetemi.
Andiamo per brevi punti:
  • confondere l'ateismo materialista tipico del sovietismo con le ragioni di chi non crede in dio, è un'operazione furba e maliziosa, che relega le antiche motivazioni degli atei solo dentro al ristretto fulcro della dittatura stalinista
  • confondere la modernità con l'afflato negativo del sovietismo materialista è un'altra scorrettezza dialettica e storica. Ateismo e stalinismo e modernità si saranno pure incontrati, ma ridurre tutti e tre nella stessa stanza, in spazi storici limitati e limitanti, è addirittura ipocrita
  • a latere: modernità e modernismo (brechtianamente parlando) sono due cose diverse. La confusione di Mancuso è sinonimo o di povertà di argomenti o di scorrettezza in nuce, voluta e ricercata (e quindi dialetticamente o giornalisticamente immorale, fate voi)
  • l'"ateismo teoricamente impegnato" NON è l'ateismo vero e proprio che il signor Mancuso butta in caciara alla grande. L'ateismo se è "impegnato" non può essere ateismo, perché l'ateo non si impegna ad imporre niente a nessuno, e vuole/pretende/ha-diritto che anche le religioni facciano lo stesso (cioè che non entrino nelle nostre case a giudicarci di continuo)
  • "Impegnarsi" significherebbe, insomma, il voler stabilire dei parametri di idoneità e priorità morale che l'ateo non può praticare: sconfesserebbe il suo non voler vivere sotto credenze (o non credenze) e di conseguenza il suo non volerle imporre
  • "Gli odierni alfieri dell'ateismo" NON vogliono "distruggere la religione", caro il nostro Mancuso. La religione è cosa nobile e rispettabile: il cattolicesimo, invece, è un'ipocrisia che di religioso ha ben poco, anzi (e di popoli ne ha distrutti, haivoglia)
  • e comunque l'ateo non vuole neanche "distruggere" il cattolicesimo. Riportiamo l'Italia ai tempi sociali di Federico II, e Mancuso vedrà come sia possibile una civile convivenza tra le varie religioni, e anche con atei, sufisti e agnostici. L'ateismo è una scelta privata come privata dovrebbe essere la scelta religiosa. Solo che i religiosi s'impongono al mondo; gli atei non fanno nient'altro che difendere i propri spazi (peraltro in ordine sparso e senza fare i furbetti con l'otto per mille dei cittadini)
  • questa religione cattolica non è certo la "rivincita di dio", anzi: la chiesa è in crisi, il Vaticano è in crisi. Non solo per questioni pedofile (che sarebbe facile tirare in ballo), ma per un'incongruenza visibilissima tra ciò che esiste e ciò che dovrebbe esistere: in mezzo c'è un papa troppo dotto per capire la quotidianità, troppo chiuso per saperla interpretare, troppo arrogante per capire che sarebbe ora di dare spazio alle diversità (non solo quelle omosessuali, s'intende)
  • e se Mancuso vuole vedere invece tra i soli credenti la presunta "rivincita di dio", sbaglia della grossa: politicamente, eticamente e geopoliticamente i paesi con il più alto tasso di credenti dichiarati, sono anche i più retrogadi scientificamente, socialmente e legislativamente... e poco attenti alla moralità (vere e necessarie, s'intende) dei propri governanti
  • gli atei vorrebbero "distruggere la rivincita di dio" proprio perché ne percepiscono il ritorno? E quando mai! L'ateo spera anche nella spiritualità e nella religione, perché l'ateismo è una forma di sperimentazione continua, di viaggiare infinito, di porsi continuamente dubbi, di approfondire ogni singolo atomo delle cose esistenti e di quelle che potranno esistere. Più religiosità c'è nel mondo, e più sarà possibile frequentare i cuori e le menti di chi non conosciamo; più invece i granitici monoteismi continueranno la loro strada verso l'arroganza e la protervia, e con più facilità la povertà spirituale spargerà il proprio sale tra le menti delle persone
  • i "libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di dio"?!? Vorrei scomodare Bombolo, se premettete (tanto è la profondità dell'argomentare di Mancuso): se mi documento me meni, se non mi documento mi meni; allora menami e la facciamo finita. La prima sciocchezza che mi dicono le persone quando scoprono che sono ateo è "prima devi leggere la Bibbia; poi dopo puoi dire di essere ateo". Al che ci si chiede se loro l'abbiano già fatto... In realtà a me sembra che i libri usciti in questi anni non abbiamo mai attaccato la religione ma gli abusi e l'arroganza del Vaticano (c'è un libretto sui rapporti tra Mafia e chiesa, tra Nazismo e chiesa, tra speculazioni finanziarie (e non solo) e chiesa, tra Berlusconi e chiesa). La domanda è: dov'è l'"attacco" alla religione? Dov'è la "rivincita di dio"? Eppoi: quantunque e qualora fossero veri i deliri di Mancuso, se dio è forte, se una religione è forte, se i suoi credenti sono forti, perché scomodarsi a denunciare un attacco che non potrebbe sortire effetto alcuno? 
  • al di là di queste considerazioni, Mancuso crede che parlare di qualcosa significhi attribuirle una "rivincita"? E allora gli ebrei che parlano della Shoah fanno "rivincere" Hitler? Ma che razza di argomentazioni di partenza usa, signor Mancuso?
Il resto del testo lo trovate qui. Vivaddio (è il caso di dirlo) ci sono meno fesserie di queste di partenza. Ma se questa è la profondità delle persone che devono parlare di fede e ateismo, siamo veramente messi male. Certo, c'è il citato equivoco che per farlo bisogna esserne competenti. Due allora sono le considerazioni: Mancuso non conosce l'"altra sponda"; l'"altra sponda" sa perfettamente che la stretta competenza, il teologismo bibliotecario, la polverosità della dottrina, non hanno lo stesso sapore delle strade e delle genti.
A volte le istruzioni pr l'uso della spiritualità sono così strumentalmente complesse e complicate, che viene voglia di ridere in chiesa durante la funzione.
Ancora una volta Repubblica ha dato fiato a chi poteva dire la sua: avessi scritto io certe cose, o voi, Ezio Mauro ci avrebbe sbattuto la porta in faccia.
E se dio esistesse, in questo preciso istante farebbe saltare la corrente per qualche minuto a casa di Vito Mancuso. Così s'impara.

28 maggio 2009

la mia lettera su Repubblica (la sporcizia di Roma)

Oggi nella rubrica dei commenti di Repubblica appare un'altra mia contumelia sulla sporcizia di Roma, cui Augias dà una risposta comunque interessante.

Intanto vi propongo la mia lettera (nella sua versione integrale); appena il sito rende disponibile la risposta di Augias, aggiornerò questo post (citando la fonte, come uso fare sempre):

Caro Augias,
a me piacerebbe - mi creda: con affetto - che Repubblica ammettesse di essere stata un po’ di parte nei confronti della sporcizia romana. Ho girato TUTTE le principali capitali europee (anche quelle dell’est) e mai ho riscontrato lo schifo che viviamo noi romani da almeno vent’anni. I romani sono zozzoni, senza tanti giochi di parole. Però le responsabilità morali e istituzionali sono anche di Rutelli e Veltroni, ammettiamolo una buona volta!
È inutile tirar fuori la complicata gestione di un’area urbana enorme o un indotto quotidiano di 600.000 pendolari perché Berlino e Parigi vivono problemi analoghi e certe schifezze lì non accadono. Non parliamo di indebitamento che limiterebbe certi rimedi, perché sempre Berlino come anche l’”anarchica” Barcellona lo sono, ma hanno un rigore e una freschezza imbarazzanti.
Non c’è scusa che tenga, ecchediamine.
Il discorso semmai va rivolto alle costanti reazioni ufficiali che si registrano ogni volta che qualcuno propone(va) un rimedio. Scritte sui muri e sui monumenti? Veltroni propose aree di sfogo (qui sì, lì no… come se un ragazzino sappia fare distinzioni); un giornalista dell’Unità scrisse “ma che sporchino, che poi ripuliamo”! Non si è credibili così!
Moto sui marciapiedi? De Carlo propose di toglierle seduta stante, ma poi qualcuno gli disse che avremmo perso voti! Come sarebbe a dire: se un politico propone cose simili, poi non viene votato?!
Deiezioni canine? Qui siamo al paradosso: Veltroni aprì aree per cani… tra cui tutto il Circo Massimo! Un monumento adibito a canile?! Poi sparò l’idea delle kamoto. Poi multe rigorose. Tutte favole mai concretizzate.
Schiamazzi notturni. Anziché scoraggiarli RutelVeltroni perpetuarono un festival cinematografico estivo a ridosso delle mura di un ospedale! Che razza di esempio è questo?
Gli invalidi vengono derubati dei posti e della dignità. E come risposero i due RutelVeltroni? Con quattro-scivoli-quattro così in pendenza che neanche Armstrong riuscirebbe a risalirli!
Queste cose io le ho scoperte vivendole, e non perché Repubblica le abbia documentate. Solo ora si fanno corpose inchieste sulle buche. Solo ora si parla concitatamente di queste cose. Perché c’è Alemanno il fantasmone? Quale ipocrisia.
Vogliamo Roma all’altezza di TUTTE le capitali europee? Bene, iniziamo con l’essere credibili politicamente e giornalisticamente.
Sempre con affetto e stima,
Alessandro L.

update

ROMA PULITA RESTERÀ UN MIRAGGIO

Caro Augias, ho girato molte capitali europee (anche all' est) e mai ho riscontrato lo schifo che viviamo noi romani da anni. I romani sono zozzoni (gergalismo), è vero. Però le responsabilità morali e istituzionali sono anche di Rutelli e Veltroni, ammettiamolo! E inutile tirar fuori la complicata gestione di un' area urbana enorme o i 600 mila pendolari al giorno perché Berlino e Parigi vivono problemi analoghi e certe schifezze lì non accadono. Non parliamo di debiti che limiterebbero i mezzi, perché sempre Berlino come anche "l' anarchica" Barcellona li hanno, ma hanno un rigore e una freschezza imbarazzanti. Il discorso semmai va rivolto alle reazioni ufficiali che si registrano ogni volta che qualcuno propone un rimedio. Scritte sui muri e sui monumenti? Veltroni propose aree di sfogo (qui sì, lì no. Come se un ragazzino potesse distinguere); un giornalista dell' Unità scrisse «ma che sporchino, che poi ripuliamo»! Non si è credibili così! Deiezioni canine? Qui siamo al paradosso: Veltroni aprì aree per cani. tra cui tutto il Circo Massimo! Un monumento adibito a canile?! Poi l' idea delle kamoto. Poi multe rigorose. Tutte favole. Alessandro Loppi

Faccio con il lettore Loppi e con i lettori una scommessa: Alemanno amministra questa città da un anno e Roma, come assicura il presidente del Consiglio, sembra una città africana. Ammettiamo per comodità che le città africane siano sporche e sciatte come Roma. La scommessa è questa: avendo concesso ad Alemanno che un anno è poco per valutare un' amministrazione, diamoci appuntamento tra altri due anni. Scommettiamo che nel maggio 2011 Roma sarà sporca e sciatta proprio come ora? Chi conosce il centro della città sa che ci sono lastre di marmo murate qua e là che minacciano multe salate di ' scudi dieci' e perfino punizioni corporali a chi «farà monnezzaro in questa via». Risalgono al XVII al XVIII secolo ma potrebbero essere state messe ieri, la loro attualità è perenne. Il presidente del Consiglio dopo aver scagliato la sua giusta invettiva ha subito aggiunto una stupidaggine: Roma è sporca per colpa della sinistra. Non è questione di destra o sinistra, è proprio questione di Roma, anzi dei romani. A Roma, e comunque dal Lazio, comincia il Mezzogiorno d' Italia dove gli spazi pubblici sono spazi non di tutti ma di nessuno, dove si possono lasciare dove capita la cacche dei cani e i vecchi frigoriferi rotti, si possono imbrattare monumenti vecchi di trenta o quaranta secoli e nessuno dice niente. Per esempio il venerando obelisco egiziano di piazza del Popolo, deturpato anche giorni fa con scritte fesse per festeggiare la vittoria della Lazio.

07 settembre 2007

la bufera... e altro
ovvero: come muore l'illusione

Dunque, il mondo della Fotografia attende con ansia la riunione straordinaria della Giuria del Concorso National Geographic Italia 2007. Verrà squalificata la foto vincitrice della sezione Paesaggi? E con quali motivazioni?
Nel frattempo segnalo come l'autore della foto incriminata abbia diffuso
commenti meno aggressivi, ma sicuramente poco convincenti, non tanto per quello che ha ammesso (la foto non era inedita quindi va squalificata) ma per quello che non ha scritto.
Sostanzialmente (cito il tipo):
Riguardo l’accusa di ritocco, vorrei chiedere alla Giuria, e ai detrattori, quale è il confine oltre il quale una foto viene definita ritoccata. Sono certo che nessuna delle foto del concorso è stata inviata così come è uscita dalla macchina fotografica, quindi il concetto di ritocco va rivisto, sennò si dovrebbero rifiutare tutte le foto inviate.
Signore e signori, ecco l'italiano medio, in tutte le sue grazie e giustificazioni.
Forse io sono un emerito coglione, ma tutte le foto che scatto non vengono mai ritoccate. Se sbaglio, pazienza, mi resta il ricordo; se non sbaglio - magari! - le faccio vedere agli amici. Quindi, finora, nessuno ha mai visto le mie foto :-)
Ma per restare nella replica del tipo, mi sconcerta questo suo ammettere implicitamente che il ritocco faccia parte integrante del mondo della luce. Domanda banale banale: è Fotografia?
Be', chi frequenta questo blog sa come la penso su queste cose, e soprattutto quanto ci abbia rimesso più volte con questa mia integrità ad ogni costo, tanto addirittura da essere deriso e isolato in molte occasioni.
E, credetemi, non solo non mi ci crogiolo sopra, ma mi fa male perché è sempre più triste constatare come certi principi, certi dogmi laici (consentitemi quest'ossimoro), siano ormai una chimera di pochi deficienti come il sottoscritto.
Certo è che se da una parte mi spacco dalle risate per certe goliardate, dall'altra resto basito dal folgorante silenzio del mondo dell'Informazione, quello ufficiale, quello che arriva anche a casa della casalinga di Voghera.
Ho provato a contattare un giornalista che mi aveva recensito a suo tempo sul Corriere della Sera, mi ha risposto che si era divertito a leggere la pagina dei commenti (Repubblica l'aveva già cassata...); ingenuamente ho fatto presente ad Augias che un evento del genere non poteva passare sotto silenzio... ancora una volta silenzio.
È come se un triste evento del genere debba spegnersi nell'indifferenza generale. È vero, ci sono troppi interessi dietro, ma così non si fa altro che alimentare il qualunquismo, i vecchi adagi di sempre.
Eppoi, che la fotografia sia finzione è un dato di fatto, ma che venga trasformata così crassamente in minzione fa veramente male, specie da uno scranno prestigioso come quello del National Geographic; roba che solo a pronunciarlo ti viene voglia di alzarti in piedi e controllare i brividi sulla pelle.
Qualcuno mi ha detto che nel mio essere ignoto e sconosciuto, ho comunque vinto (sarebbe la seconda volta che questo blog combina qualche guaio). Non credo che questo fatto vada letto così. Domani sarà tutto dimenticato... anzi, no: già che siete arrivati a queste righe, sapreste dirmi il nome del fotografo in questione?

19 gennaio 2006

perché Dio permette la sofferenza?

Come ho già sottolineato nel precedente post, non sono un credente, ma resto sempre affascinato dalla straordinaria competenza e conoscenza che caratterizza certi religiosi non per forza "famosi".

Da mesi, ormai, nella pagina dei commenti di Repubblica, Corrado Augias sta portando avanti un lungo e fascinoso confronto sulla fede, che sta coinvolgendo semplici lettrici e lettori, come anche persone competenti e illuminate, di ogni estrazione sociale e - soprattutto - credenti o laiche.

Mercoledì scorso, è apparsa una bellissima lettera di Sergio Manna, un pastore valdese che ha aggiunto il proprio contributo che qui pubblico integralmente, non costretto cioè dalle giuste e legittime leggi editoriali che spesso sintetizzano i contributi dei lettori per oggettive ragioni di spazio.

Ringrazio il pastore che mi ha autorizzato alla pubblicazione e che mi ha espressamente richiesto di lasciare la sua firma oltreché il suo account.

minimAle

Caro Augias,

sono un pastore valdese e le scrivo a proposito della lettera di un lettore e della sua conseguente risposta. Lei ha ragione nel dire che sulle domande poste dal lettore, e dunque sulla questione della teodicea, "nessuno ha finora saputo trovare una risposta soddisfacente". Premetto perciò che la mia non intende essere quella risposta soddisfacente, che in questo mondo non c’è. Ma entrambi i vostri contributi si concludono con il richiamo all'angoscia e dunque vorrei intervenire per questo.

Mi permetto di suggerire al lettore la lettura di un libro che affronta le tematiche da lui enunciate e denunciate. L’autore non è un teologo o un filosofo che si metta a ragionare in astratto sul problema della teodicea con l’unico intento di giustificare e riabilitare Dio. È un rabbino, Harold S. Kushner, che fa sulla sua pelle l’esperienza del giusto che soffre ingiustamente: il figlio gli muore a 14 anni per una malattia terribile che si chiama progeria e che porta il corpo di chi ne è affetto ad invecchiare e giungere alla morte precocissimamente. Alla morte del figlio il rabbino si rende conto che nessuna delle risposte tradizionali della fede gli è di conforto, incluse le risposte che lui aveva a suo tempo dato da rabbino sia dal pulpito che nei colloqui privati con credenti che si sentivano colpiti ingiustamente da lutti, malattie o catastrofi e chiedevano "perché Dio l’ha permesso?".

Il libro, in traduzione italiana, si intitola appunto "Ma cosa ho fatto per meritare questo?" (il cui titolo originale è invece "When bad things happen to good people"). Prendendo spunto dalla sua esperienza e rileggendo il libro biblico di Giobbe (per eccellenza nella Bibbia ebraica il giusto che soffre ingiustamente), Kushner riflette sulla questione della bontà, della giustizia e della onnipotenza di Dio (un po’ come Hans Jonas, da lei giustamente citato), arrivando a dire che nel caso di Giobbe, come in tutti i casi che richiamano la questione della teodicea (e dunque anche le questioni richiamate dal lettore e da lei stesso) diventa evidente che Dio non può essere tutte e tre le cose: buono, giusto e onnipotente.

Se è onnipotente, bastano le questioni richiamate dal lettore per affermare che non è né buono né giusto. Se invece è buono e giusto dovremo allora rinunciare all’idea che sia onnipotente. E a questa rinuncia arriva Kushner. Non so se posso far mie fino in fondo le sue conclusioni sulla non onnipotenza di Dio; mi piace però che il suo libro non si concluda con un lamento angoscioso e angosciato.

Alla domanda dov’è Dio nella nostra sofferenza e nelle ingiuste tragedie che colpiscono il nostro prossimo e il mondo, Kushner risponde che Dio è colui che ci da la forza di affrontarle e superarle, colui che ha dato la forza agli ebrei sopravvissuti agli orrori dei lager nazisti di ricostruirsi una vita e andare avanti, che ha dato a lui e a tante persone la forza di riprendersi da esperienze di lutto e dolore dalle quali non avrebbero mai pensato di poter uscire; Dio è colui che ispira tante persone a dedicarsi alla cura di coloro che sono colpiti dalle tragedie che la vita comporta, e il miracolo che talvolta Dio compie e di riportare la speranza in situazioni di cupa disperazione.

Da pastore valdese sono stato per anni cappellano ospedaliero e ho fatto esperienza di tutto questo. Ho compreso che la domanda "perché Dio mi fa questo?", molto spesso, più che una domanda sulla teodicea è una richiesta d’aiuto e che la mia risposta non deve consistere nel tentativo di giustificare Dio, come fanno gli amici di Giobbe, ma nello stare accanto a chi soffre, accettandone e talvolta perfino condividendone le bestemmie. Mi è già capitato di vedere come persone gravemente e ingiustamente colpite da mali terribili che maledicevano Dio, come vedendo in lui l’origine dei propri mali, siano poi giunte a riconoscerlo non più e non tanto nella loro malattia, o nella mancanza di guarigione, quanto piuttosto nella presenza costante di coloro che le hanno accompagnate, aiutate e sostenute, con amore, pazienza, rispetto, senza alcuna forma di giudizio o pregiudizio.

Non ho visto tante guarigioni miracolose, ho visto però quest’altro genere di miracoli: persone la cui unica preghiera poteva essere "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?" (Salmo 22,1) che hanno concluso la propria esistenza dicendo "Anima mia, benedici il Signore" (Salmo 103,1). So bene che purtroppo in molti casi la vita si conclude comunque con quel grido terribile: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?", sono anche le ultime parole di Gesù sulla croce, ma da credente mi consola il fatto che la risposta di Dio a quella preghiera, per Gesù come per noi, esiste e si chiama resurrezione.

Sergio Manna (pastore valdese) ser.manna@tin.it

alla ricerca del laicismo

Ripropongo un mio pensiero pubblicato nel settembre del 2005 nella rubrica dei commenti di Repubblica.
Gentile Augias,
mi sembra che le autorevoli osservazioni di Giuliano Amato sul laicismo comportino inevitabilmente almeno due appunti. Il primo è di ordine dialettico, anche se poi dissimulatamente più profondo: quando il Professore scrive che il cristianesimo riconosce l’Altro con il solo presupposto che “in ogni uomo c’è il segno di Dio”, ammette implicitamente un limite tutt’altro che secondario: l’esistenza di Dio viene data come assoluta, l’importante è crederci. Chi non crede non ha spazi per alcun riconoscimento.
In un altro passaggio, Giuliano Amato commette un’ingenuità che non è sua: “anche tra i non credenti affiorano assoluti che vanno resi compatibili con le ragioni di chi non li condivide”. In questi egli include solo certi estremismi scientifici, dimenticando che gli unici veri presupposti degli atei riguardano la posizione dell’individuo nella società.
Insomma: quello che lui definisce laicismo francese, ha nella sua stessa natura la difesa dei diritti di chiunque; la religione è - a mio avviso e invece - una scelta, privata e personale, che non può essere mai imposta oppure comparata con il doveroso laicismo dello stato in cui si vive.
L’errore di fondo di chi ha difeso le presunte “radici cristiane” è stato quello - appunto - di ritenerle assolute: per me esistono una radice cristiana, una islamica, una ebrea, una illuminista, una laica, una socialista… e via sfogliando le pagine dell’albero della Storia.
La differenza fondamentale tra i laici e i credenti è che i primi rispettano (e difendono) i secondi, mentre i secondi tollerano i primi. E sul principio della tolleranza mi sembra che finora ci siano stati sin troppi giochi di parole.
Alessandro L.