15 novembre 2023
MA CHE COPPA ABBIAMO NOI di Giuseppe Pastore (66thand2nd)
13 novembre 2014
Parlando di calcio con Le Roi, Michel Platini
Non riesco a dimenticare il dramma di Heysel (e neanche lui, da quel che ho letto), ma non posso neanche dimenticare un lustro epico di calcio assoluto, guarnito da comportamenti sportivi di raro nitore.
E quindi mi sono accostato a questo libro con estrema cautela, spaventato com'ero di rovinare la festa al bimbo che ero.
E, invece, è un gran bel libro, proprio perché (o forse perché) non accarezza minimamente l'autobiografia più stretta, ma invece racconta la bellezza del calcio, con un giusto equilibrio tra pragmatismo e passione, modernismo e rispetto per la tradizione.
Insomma, chi è limitato perché ci vede un taccuinaccio di appunti stropicciati di uno juventino, si perde la rara opportunità di conoscere la Storia del Calcio, e quel modo di leggerlo e interpretarlo che oggi - diciamolo - manca alle nuove leve.
Un calcio che ama "il gesto", il singolo momento, la passione per arrivare a "quel" gesto e la forza di saper affrontare anche il fallimento di un gol che non arriva.
E poi le tredici regole, gli schemi, il fuorigioco, la mentalità vincente e il rapporto con i compagni prima e con i manager dopo.
Platini, poi, suggerisce una sua visione delle competizioni future decisamente idealista, ma pur sempre attenta alla nostalgia.
Seguite questo libro così prezioso, troverete parole e concetti che vi sorprenderanno.
28 settembre 2014
passeggiando nel libro di Zoff
06 marzo 2010
Antognoni - Brasile 4 a 2
A differenza di altri suoi colleghi, utilizzava il suo individualismo solo per la squadra. Lui era la squadra, e la squadra era lui. Non ricordo una sola azione in cui non avesse già capito cosa stava accadendo intorno a lui. E che abbia avuto dei problemi con Agroppi è una nota di merito che aggiunge valore al suo modo di intendere il calcio.
Non ha vinto tanto, ma ha dato tantissimo sia al suo ruolo che al calcio più in generale.
Di lui ricordo due cose: il terrificante scontro con Silvano Martina, allora portiere del Genoa; il gol ingiustamente e marchianamente annullato contro il Brasile (guardate con quale compostezza reagisce contro il miope guardalinee), durante il Campionato del Mondo del 1982, alla cui finale vincente dovrà rinunciare per un tagliaccio orribile sul piede destro occorso durante un banale contrasto.
È un gran peccato che Della Valle non abbia mai pensato a un qualcosa di concreto per consegnare il suo nome alla Storia.
27 febbraio 2010
Falcão, ovvero come spostare una difesa
Ma l'azione che meglio lo potrebbe rappresentare alle generazioni future è con la casacca della sua nazionale in Italia-Brasile 3-2, quando poi insieme a Pertini vincemmo in Spagna un'insperata Coppa del Mondo. Lui è sulla destra, a pochi metri dalla nostra area di rigore, con un cenno del bacino finta sull'estrema destra, e poi con straordinaria eleganza si sposta a sinistra per convergere al centro, la difesa si apre come un melone, e lui scocca un tiro di quelli che ancora oggi Zoff se lo sogna la notte, pareggiando temporaneamente una partita che ci regalerà altre mille emozioni.
Altre azioni nobili potrete seguirle nei contributi video che allego.
Sul piano personale, invece, quello che ricordo ancora nitidamente era la figura di una persona straordinariamente elegante, che sembrava non faticare mai, che stava sempre al punto giusto nel momento giusto, che non sprecava il suo irripetibile talento per mero individualismo, che aveva capito quanto fosse nodale il suo ruolo nella Roma di Liedholm e Viola... e che forse proprio per questo alla fine del ciclo si lasciò andare all'ingordigia, pretendendo un ingaggio troppo elevato per quegli standard. Forse sapeva che il ginocchio non l'avrebbe più fatto giocare come un tempo, forse - e finalmente - si stava dimostrando un terrestre come tutti noi.
E del resto che avesse un cuore e qualche timore lo dimostrò durante la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, quando cioè si rifiutò di tirare uno dei rigori (finale che a me costò una bella rimandatura in Storia, visto che il giorno dopo mi presentai in classe vestito di biancorosso, con pedante disappunto della baffuta suora laica professoressa).
Erano veramente altri tempi, e le polemiche del dopo partita erano pantomime cecione e quasi recitate che non lasciavano certo intravedere il commercialismo e le violenze che avrebbero poi affondato il calcio italico.
20 febbraio 2010
Gaetano Scirea, che non è solo una curva
Assieme a Zoff rappresentò l'anima civile, riflessiva, etica, di un modo di giocare il calcio che condizionò totalmente la storia della Juventus e della Nazionale.
A differenza di quasi tutti i giocatori silenti che la mia mente ricordi, Scirea non era oscuro, ma profondamente sereno e quindi rasserenante. Il suo era un silenzio quasi esoterico, laicamente esoterico. I miei occhi da bambino lo individuavano subito, e lo seguivano quasi incantati delle sue gesta difensive, perché la sua era la presenza giusta, opportuna, raffinata ma mai indulgente, precisa ma mai spaccona.
Non ho mai capito perché la Juve non abbia ritirato il numero 6 dalle sue maglie.
13 febbraio 2010
oDino, Dino Zoff
Lo incontrai tre anni fa in Prati, qui a Roma. In realtà non volevo assolutamente disturbarlo, ma una cara amica di mia moglie voleva regalare un suo autografo al figlio... e mandò in avanscoperta il sottoscritto.
Incredibile: è un uomo alto - si sa, con un carattere fiero che lo rende ancor più imponente; eppure, paradossalmente, la sua civiltà e la sua umanità quasi lo ridimensionano. È come se il dio del pallone per manifestarsi a noi miseri mortali avesse scelto la dissimulazione, la compostezza, la misura.
Stringendomi la mano si è portato via metà della mia colonna vertebrale. Gli ho ricordato un suo "libbbricino" intitolato Dino Zoff racconta, che qualche trasloco m'ha portato via, e lui giustamente e umilmente fece notare che non era nulla.
Ha abbozzato un'impercettibile gratificazione (forse più rimbalzata dalla mimica facciale della signora che lo accompagnava) quando gli ho detto che per me è sempre stato un esempio, quasi un padre spirituale, e anche uno sportivo di quelli che dovremmo coccolare a vita, e raccontare ai giovani, e ai futuri nipoti dei giovani.
Dino Zoff ha vinto tutto, o quasi: in fondo è meglio per la sua storia che non abbia mai impugnato la Coppa dei Campioni dell'Heysel: quell'ottone insanguinato avrebbe macchiato la sua natura così limpida.
06 febbraio 2010
il re insegna la sportività
Juventus contro Argentinos Juniors.
Vinceremo noi, ma solo ai rigori, anche perché a Platini annulleranno un gol regolarissimo, e lui da gran signore reagisce così:
23 gennaio 2010
forza Juve... quella del 1983
Ma quella partita ebbe esiti ben diversi, e sembrava il preludio per una straordinaria rimonta juventina. Fino a dieci minuti dalla fine, La Roma era in vantaggio per un gol segnato al 62' dal magistrale Falcão (un grande anche lui).
Raramente alla radio gli speaker si interrompevano tra loro per cose futili, al di fuori cioè di una segnatura, un rigore o un fatto veramente eclatante. E ogni volta che da Roma Ameri interrompeva Ciotti, mi ritrovavo il cuore in gola, pronto a subire l'onta di un vantaggio giallorosso o la gioa per un gol di quella grandissima Juve che purtroppo non esiste più.
All'83' Ameri interrompe Ciotti per... una punizione: Michel Platini sta per battere una delle sue punizioni. Capite? Stravolge una scaletta radiofonica solo per raccontare in diretta una punizione, i cui esiti non sarebbero stati per forza positivi.
Le Roi tira e segna, con un'eleganza e una precisione che ricordo ancora oggi. Pochi minuti dopo segnerà Brio (poi morso da un cane poliziotto a fine partita), grazie a una generosa punizione data a Gentile (il suo conseguente litigio con Conti minò la loro amicizia).
Vincemmo 2 a 1, e io scontai gli ennesimi insulti a scuola. Un romano juventino è quasi un vezzo, specie se - come me - vive a Testaccio, il cuore della Roma e di Roma.
Oggi c'è uno Juventus - Roma distante anni luce dalla bellezza di quegli anni. Questo calcio non mi diverte più, non mi piace, e lo seguo con distrazione solo per fare lo scemo cor macellaro o co' er librarolo.
A questa "classica" del calcio moderno vorrei dedicare questa antica intervista a Michel Platini: fu scritta il giorno che si ritirò dalle scene. Troppo presto per un campione, troppo tardi per un re.
02 settembre 2009
le belle persone:
Dino Zoff e Gaetano Scirea

"Mi manca il suo silenzio"
(da Repubblica - 1 settembre 2009 pagina 54)
Zoff, sono già vent' anni. «Tornavamo da Verona in pullman, la Juve aveva vinto 4-1, il casellante disse che era successo qualcosa a Scirea, io risposi è impossibile, a quest' ora sarà già a casa che dorme». Invece era morto su una strada polacca. «Allenavo la Juve, Gaetano era il mio vice. Era andato a vedere i nostri avversari di Coppa, lui non era convinto che fosse necessario, nemmeno io lo ero, ma Boniperti aveva insistito ed era giusto così. Il destino è invisibile». Chi era Gaetano Scirea? Cos' era? «Un uomo. Era il suo stile. Non la forma, lo stile. Era serenità, chiarezza e pulizia. Era convincente anche quando si arrabbiava così di rado, non perdeva mai il controllo. Una persona sempre misurata e tranquilla. Diceva solo cose autentiche, ponderate». Ricorda quando lo conobbe? «Arrivava dall' Atalanta, un ragazzone taciturno, buonissimo. All' inizio mi sembrava troppo perfetto per essere vero: a volte i timidi appaiono meglio di quello che sono, vale anche per me. Invece era così sincero e puro, senza sovrastrutture. Aveva il pudore delle parole, così raro sempre e di più adesso, in mezzo a questo boato». In campo, inarrivabile. «Perché era sempre lui, era la sua continuazione. Dicono che in partita ti trasformi: fesserie, in partita sei tu e basta. E conta l' istinto, lì non esiste il freno dell' intelligenza, viene fuori il profondo. E il profondo di Scirea era Scirea». Mai un' espulsione, eppure giocava in difesa. «Gli bastavano la classe e la pulizia del gioco. Mai visto uno così elegante, con la testa così alta. E la purezza del tocco era purezza morale. Questi sono uomini importanti, che magari non segnano un' epoca perché non gridano. Ma quanta ricchezza». Eravate sempre insieme: chissà che silenzi. «Invece parlavamo tanto, anche se per capirci non c' era bisogno di dire cose. Ci assomigliavamo, però lui era incomparabilmente migliore di me: io non sono così buono, né accomodante. Dividevamo la stanza d' albergo nella Juve e in nazionale, leggevamo, giocavamo a carte, robe semplici. Tra noi c' era una goliardia da ragazzini. Gaetano non era un musone, amava gli scherzi, ci stava, anche se era così delicato». Come visse il tumultuoso mundial ' 82? «La nostra camera la chiamavano "la Svizzera", era stato Tardelli a inventare il nome perché cercava rifugio da noi nelle sue notti insonni». Gaetano voleva fare l' allenatore: ci sarebbe riuscito? «Sì, perché era intelligente e convincente. In campo, un leader senza bisogno di urlare e sapeva farsi seguire. Aveva carattere, si era diplomato alle magistrali giocando e studiando anche di notte. Al calcio italiano è molto mancato uno come lui: forse, per carattere non avrebbe avuto troppe prime pagine ma non sarebbe cambiato, non l' avrebbero mai cambiato. Neppure in questo ambiente, dove fa notizia solo il rumore». Cosa accadde, dopo la vittoria di Madrid? «Ero rimasto allo stadio più degli altri per le interviste e tornai in albergo non con le guardie del corpo, come succede oggi, ma sul furgoncino del magazziniere. Gaetano mi aspettava. Mangiammo un boccone, bevemmo un bicchiere, ci sembrava sciocco festeggiare in modo clamoroso: mica si poteva andare a ballare, sarebbe stato come sporcare il momento. Tornammo in camera e ci sdraiammo sul letto, sfiniti da troppa felicità. Però la degustammo fino all' ultima goccia, niente come lo sport sa dare gioie pazzesche che durano un attimo, e bisogna farlo durare nel cuore. Eravamo estasiati da quella gioia, inebetiti». Cosa ricorda della sera in cui morì? «Rientrando da Verona, eravamo andati a cena dalle parti di Ponte sull' Oglio. I cellulari non esistevano. Arrivatia Torino, il casellante ci disse quella cosa, non volevo crederci. Il pullman raggiunse lo stadio, dove avevamo lasciato le auto. Era pieno di giornalisti. Diedi un calcio fortissimo alla fiancata». Dino Zoff, lei pensa spesso al suo amico? «Gaetano torna sempre. Lo penso a ogni esagerazione di qualcuno, a ogni urlo senza senso. L' esasperazione dei toni mi fa sentire ancora più profondamente il vuoto della perdita. Gaetano mi manca nel caos delle parole inutili, dei valori assurdi, delle menate, in questo frastuono di cose vecchie col vestito nuovo, come canta Guccini. Mi manca tanto il suo silenzio». - MAURIZIO CROSETTI
01 luglio 2009
heysel
È una macchia dolorosa, difficile da cancellare, che personalmente mi allontanò brutalmente dal calcio. Ma soprattutto avrebbe dovuto insegnarci tante cose... dal Moggigate alle spese per Christiano Ronaldo, il mondo del calcio non mi sembra migliorato.
In studio c'era Marco Tardelli, noto anche per averci regalato l'urlo più famoso della storia (dopo quello di Munch... e forse dopo quello cinematografico di Donald Sutherland in Terrore Dallo Spazio Profondo).
Le immagini erano strazianti: dolore, caos, morte, polizia disorganizzata, dirigenti cinici e incompetenti, calciatori sconvolti ma incapaci di imporsi... forse fu giusto disputare la partita, ma che almeno poi fosse stato cosiderato vacante il trofeo.
Ma la scena che veramente segnò la fine di ogni parvenza di sportività e di umanità furono i festeggiamenti juventini a fine partita.
In studio Tardelli ha avuto la civile correttezza di chiedere scusa. La Dirigenza Juventina ancora no.
30 marzo 2009
spaccarotella
Quand’ero ragazzo, un collega di mio padre fu arrestato perché vendeva congedi a peso d’oro. Il grosso problema fu che aveva un cognome facilissimo da ricordare. Problema più per i figli che per lui, s’intende.
Del resto la storia di Girolimoni è lampante: mica era lui a fare a pezzi i bimbi qui a Roma; eppure ancora oggi il suo cognome viene usato come insulto.
Dunque: Spaccarotella.
Leggendo le cronache, la polizia stradale cerca di sedare una rissa causata da un gruppo di tifosi (sic) laziali contro un pullman di tifosi (sic) juventini. A dire il vero qualcuno parla anche di spranghe ben che conservate nelle auto dei laziali. Notizie che poi lentamente spariscono dall’informazione vera: è necessario cioè creare un martire, pulito e credibile.
Chiariamo una cosa: un poliziotto che spara per sedare un rissa è un coglione (al che mi vien da dire che Genova era piena di coglioni); un poliziotto che spara dall’altra parte di un’autostrada è mille volte coglione.
Chiariamo un’altra cosa: Sandri non avrebbe meritato di morire per nessun motivo.
Detto ciò, urge anche dire che la campagna denigratoria e diffamatoria nei confronti dell’agente Spaccarotella ha raggiunto livelli terribili. Parafrasando la splendida lezione di Saviano dell’altra sera, credo che i giornalisti neanche si rendano conto di come impostano i propri servizi e di quanto questi siano pericolosi per l’incolumità di Spaccarotella.
Da dove venga questa cultura del “dàgli al poliziotto” non è difficile da ricostruire. Io porto sempre l’esempio di Adriano Sofri, che è un paradigma di come in Italia si scelga deliberatamente di usare parole forti contro i servitori dello Stato e mai parole altrettando forti contro chi questo Stato lo mette in pericolo con ogni possibile mezzo (anche il meno eclatante). Poi nessuno - come Sofri, appunto - si prenderà mai la responsabilità di quello che queste parole potrebbero causare all’incolumità del poliziotto di turno.
Del resto qualcuno di voi ricorda il nome del poliziotto ucciso a Catania durante una partita di calcio?
25 marzo 2009
adoro queste coincidenze
Be', il figlio dell'attore Michael Billington (il Colonnello Foster, insomma) è un calciatore che ha militato anche nelle Juve.
Tiè.