Visualizzazione post con etichetta Christian Rocca. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Christian Rocca. Mostra tutti i post

24 febbraio 2016

purtroppo Spotlight non è quello che noi siamo

Fughiamo ogni dubbio: Il caso Spotlight è un capolavoro. Non tanto per la sua eccellente struttura (sceneggiatura, regia, fotografia, montaggio, musica), ma per il suo "sapore", per come cioè riesce a trattare un argomento così delicato - la pedofilia - senza mai scadere nel voyerismo, nell'ammiccare, nell'allusione crassa. Spotlight, insomma, è un esercizio di stile dentro quell'altro esercizio di stile più palese: il come si fa giornalismo d'inchiesta.
E già: come si fa giornalismo d'inchiesta?
Ce lo dice lo stesso Michael Keaton quando presenta il suo staff al neo direttore Liev Schreiber: certe inchieste potrebbero durare anche un anno! Capito? Un anno!
E perché mai qui da noi sarebbe impossibile?
Per un mucchio di motivi (lettori faciloni esclusi, ovviamente): 1) il gruppo dev'essere affiatato e collaborativo; 2) bisogna approfondire, e poi fermarsi per ragionare, e poi di nuovo approfondire, e poi di nuovo fermarsi per ragionare; 3) non bisogna mai dare le cose per scontate; 4) bisogna andare oltre le conventicole, le amicizie, le conoscenze; 5) non bisogna temere il pubblico, ma rispettarlo; 6) non bisogna adulare il pubblico, ma accompagnarlo; 7) bisogna riconoscere i propri limiti e sfidarli; 8) bisogna ricordarsi dei propri errori; 9) bisogna rispettare sempre le gerarchie; 10) sconfitte e successi sono colpa o merito di tutti.
Ma soprattutto c'è un elemento che non va mai dimenticato, e che va al di là delle cose pratiche, ed è un elemento etico e non scritto: il patto con il lettore. Se tu sei un professionista serio, io come lettore mi fido di te anche quando non sono assimilabile all'orientamento ideologico della tua testata. 
Il patto col lettore è più di una regola kantiana: è la chiave per comprendere la cultura del giornalismo anglosassone che è alla radice anche di Spotlight.
Ebbene, io non voglio chiedervi se i giornalisti italici siano dei buoni investigatori, perché la risposta già la sappiamo; ed è uno sconfortante "NO"! Del resto, pigri e svogliati come sono, preferiscono l'opinioncina-finta-indipendente-ma-superlecchina o il guadagnare aggregando notizie altrui spacciandole per spiegoni.
Io mi chiedo, e vi chiedo, ma tutti quei buffoni che "spiegano bene" il film o lo prendono come archetipo del proprio ideale di giornalismo - che però sono i primi a non praticare - e lo brandiscono contro i propri colleghi - dove comunque il più pulito ha la gogna... dicevo, questi buffoni, che razza di patto hanno fatto con i propri lettori?

12 settembre 2011

#Contagion - Del saper parlare di quello che si sa

Solitamente, i film cosiddetti "di denuncia" si possono dividere in due grandi attitudini: quelli che parlano di qualcosa che nessuno sa e/o che nessuno vuol far sapere; quelli che parlano di cose che si sanno - ma in ordine sparso - riassumendole in una trama precisa, capace di elencare danni possibili/avvenuti e responsabilità precise.
Ambedue questi filoni tendono comunque a dirci tranquillamente che i colpevoli siamo anche noi, comuni mortali e borghesucci viziati, con il nostro consapevole silenzio, che spesso non è nient'altro che vile condiscendenza.
Poi ci sono i film supereffettati, che usano le basi di queste denunce per far divertire la gente, e che spesso banalizzano problemi serissimi (ad esempio quelli disastroecologici, che, mirando troppo in alto, deresponsabilizzano ancor più la già pecorona popolazione bianca, cristiana e occidentale).
Contagion riesce a tenersi a distanza sia dal serioso e palloso film di denuncia, che da quelli ipereffettati con le onde alte 8 chilometri e assurdità simili. Ci riesce così bene, che personalmente ho sperimentato ieri in una sala del centro di Roma come il film non abbia accontentato né i seriosoni né i ragazzoti che amano i disastri. Intendiamoci: silenzio e attenzione assicurati, curiosità a mille, ma anche una leggerissima delusione finale. Ed è un peccato, perché il film c'è, e ha una sua forza.
Fatto sta che Soderbergh racconta l'esistente, senza giocare sul "cosa accadrebbe se...", perché in fondo il rischio di cui si parla è reale, potenzialmente concreto, in parte già accaduto e già temuto.
Tempo fa per RaiScienze misi online un servizio sui moduli di evacuazione elaborati per eventuali disastri sismici nel napoletano: protocolli di sicurezza che esistono sulla carta, ma che mai sono stati concretamente sperimentati, e il cui modello si basa comunque su un "cosa accadrebbe se..." di bassissimo profilo. Gli intervistati denunciano, infatti, che di fronte a un qualsivoglia evento sismico o vulcanico, paradossalmente ci sarebbero molte più vittime per l'impreparazione conclamata delle istituzioni che per il disastro in sé.
Ecco, questo esempio calza a pennello, perché mentre in questo video i protagonisti raccontano e spiegano, nel suo film Soderbergh fa solo vedere: riesce, cioè a fare il cronista asettico, senza mai dire la propria, aggiungendo rade e sofisticate punte di trama (tanto per tenerci attenti), accennando qua e là a momenti polemici credibili proprio perché non enfatizzati.
Lo scienziato folle non c'è, ma quello pragmatico che sa muoversi perfettamente tra scienza, burocrazia e fama, fa molta più paura e impressione, perché reso molto bene e con connotazioni mai stucchevoli.
Ancor più precisa è la figura del blogger: maleducato, arrogante, presuntuoso, incompetente, egolalico e capace di mentire pur di soddisfare la cecità ottusa dei suoi 12 milioni di follower.
Notevole la musica, quasi Tangerine Dream del periodo '70/'80; ottima la fotografia (dello stesso regista); attori noti a raffica, quasi come in certe cose dell'ultimo Altman, capaci di lavorare sempre per sottrazione e con spontanea eleganza; prodotto anche dalla mitica Participant, di cui ho tessuto elogi più di una volta.