Visualizzazione post con etichetta Beethoven. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Beethoven. Mostra tutti i post

30 marzo 2024

MAURIZIO POLLINI

Tra le composizioni per strumento e orchestra, il “Concerto Imperatore” di Beethoven è quella che amo di più, sia nel suo insieme, sia perché il secondo movimento supera di gran lunga la perfezione, sminuzzando il cuore e l’anima dell’ascoltatore fino all’impossibile.

Poco meno di vent’anni fa, vidi il Maestro Maurizio Pollini eseguirne una prova generale davanti a giovanissimi studenti delle medie e dei licei romani.

Al contrario di quanto si possa immaginare, non volò una mosca dall’inizio alla fine dell’esecuzione, neanche durante le brevissime pause tra i movimenti.

Poi, dopo l’ultimissima nota, i ragazzi saltarono in piedi all’unisono, applaudendo con slancio, ben oltre l’obbligo imposto dai professori: era stata un’esecuzione strabiliante, eccitante, commovente, emozionante.

Quando quell’entusiasmo scemò in un serrar-le-fila-per-tornare-a-casa, una voce innocente esclamò: «A’ Pollini, emmmmenomale che era una prova!»; il Maestro si girò e sorrise timidamente

26 novembre 2014

il piano dell'Imperatore

Se dovessi dire qual è il mio concerto preferito, non avrei dubbi: l'Imperatore di Beethoven. 
Il secondo movimento, poi, mi destabilizza l'anima, riducendola in finissima polvere.
Ho scoperto da poco questa versione in cui si scontrano il passionale Krystian Zimerman con il brioso Leonard Bernstein. 
Al centro i Wiener che riescono a contenerli entrambi.
Certo, su YouTube l'audio fa schifo (e anche le casse di un computer medio). Però come approccio non è male; specie per chi è un neofita.

09 febbraio 2014

#GenerationWar, ovvero: dimenticare i volenterosi carnefici

Pare fatto apposta - anche se non lo è - che proprio a ridosso del Giorno del Ricordo, Rai3 abbia proposto Generation War, una miniserie su cinque giovani tedeschi che passano attraverso le atrocità della Seconda Guerra Mondiale uscendone trasformati, e in un certo senso vincenti.
Perché la battuta sul Giorno del Ricordo? Perché la coscienza civile dei paesi che hanno una Storia recente fatta di sangue, di sopraffazione e di dolore - cioè Italia e Germania - sembra vivacchiare nel saper attendere, con la speranza che il Tempo dissolva la Verità, con la certezza che il popolo non sappia, non voglia sapere, non ascolti, non voglia ascoltare.
E se il Giorno del Ricordo è una speculazione storica escogitata da italiani per coprire le atrocità di altri italiani che ebbero come conseguenza anche le Foibe (Alessandra Kersevan insegna), mi meraviglio che i tedeschi abbiano edificato un'opera così scomposta e ricca di indulgenze, di contraddizioni e di sottilissime dimenticanze.
Ora: per quanto un film non possa - e non debba - sintetizzare qualcosa in maniera perfetta e soddisfacente; per quanto bisogna accostarsi alle opere senza aspettarsi quel che si pretende venga rigorosamente narrato; per quanto la Storia sia fatta di duttile Verità e di macroscopici machiavellismi... ridurre la responsabilità tedesca nel modo narrato da Generation War fa veramente male. Insomma, anche i rigorosi tedeschi hanno dimenticato Kant per entrare dentro la stanza crucca della più comoda mistificazione.
Partiamo dagli aspetti tecnici, che potrebbero restare solo tali, ma che forse sono anche figli di un lapsus mentale. La musica, rabberciatamente debitrice del secondo movimento del Concerto Imperatore di Beethoven, lavora di nostalgia, di languore, di pathos preconfezionato e sempre molto puntuale e azzeccato.
La fotografia è sempre identica a se stessa, senza quell'elegante accortezza di saper presentare lo svolgersi del tempo con viraggi differenziati. In più, genera nello spettatore una costante sensazione a metà tra il ricordo doloroso e la (presunta) ricostruzione storica, supportata da una voce fuori campo sempre sul punto di assolvere i peccati dei cinque, e quindi dei tedeschi.
I protagonisti sembrano vittime del sistema, costretti a fare quello che fanno solo dal perfido Hitler e non da un consenso popolare che superò di gran lunga quello del Fascismo (una lettura di Daniel Goldhagen non farebbe male a nessuno).
La Shoah viene spostata in un angolino, in maniera irritante e imbarazzante.
Addirittura, i partigiani polacchi sono trattati alla stessa stregua degli aguzzini nazisti... su questo va fatta una doppia distinzione. La prima: i nazisti costruirono i lager soprattutto in Polonia, perché non volevano urtare la sensibilità della popolazione tedesca (che comunque sapeva, altroché), e perché contavano sul silenzio di una fetta consistente dei polacchi, notoriamente poco inclini all'ebraismo. Ma se poi andiamo nel Giardino dei Giusti, scopriamo che di eroi polacchi che hanno lottato per gli ebrei, ce ne sono. Ergo, la reductio filmica è grossolana e fuorviante.
Secondo motivo: è vero che noi abbiamo Pansa qui in Italia che si sollazza infangando i nostri partigiani; è anche vero che più in generale alcuni partigiani non erano stinchi di santo... ma lasciarsi andare a una furbata mistificatrice ne passa.
È poi evidente, quasi eclatante direi, come una parte delle sequenze sia debitrice dell'ottimo Le benevole di Jonathan Littell. Solo che Littell non assolve, documenta, racconta, e soprattutto non gioca a rimpiattino con le responsabilità del popolo tedesco. In più, il suo cronachismo così asciutto, lineare, ricco di sfumature mai ostentate ma ben evidenti, consente al lettore di fare una viaggio nel dolore e nella miseria senza uscirne né vivo (metaforicamente parlando), né tantomeno conciliante.
Se, insomma, gli autori volevano raccontare una serie di storie tedesche incrociate, potevano evitare sia di alludere troppo a certe vergogne che di scivolare nell'aneddotica spiccia.
I personaggi, poi, sono la fine di ogni possibile dibattito, se non altro perché tutti abbastanza prevedibili; comunque paradigmatici di una sorta di assoluzione collettiva. 
L'ebreo innamorato della futura cantante famosa, sembra uscito da un filmetto minore di Allen, sempre pronto a mostrare un'espressione a metà tra l'inespressivo e l'imbambolato. Questo aver presentato un ebreo tra non ebrei, ricorda un po' certi film americani politically correct in cui bisogna per forza circondare l'eroe del film di neri, ebrei e omosessuali. A casa mia si chiama "uso strumentale". 
Il nazista nudo e puro, invece, presenta rimorsi di coscienza pressoché immediatamente, come se la sua breve carriera da ufficiale (è del 1921) non sia stata invece cosparsa anche da adunate a Norimberga e da festeggiamenti convinti dell'eterno Terzo Reich. Dovrebbe addirittura proteggere il fratello, mentre alla fine è capace solo di disertare senza emendarsi in maniera almeno dignitosa.
Il fratello, invece, esordisce come intellettuale dichiaratamente contrario alla guerra (ma quando mai, perlomeno in maniera così smaccata), si trasforma in robot cinico, ritorna umano, in tempo per far prima scappare l'amico ebreo e quindi salvando da morte certa un plotone del Volkssturm, immolandosi come l'Elias di Platoon.
L'infermiera, prima denuncia platealmente un'ebrea, poi, di fronte all'incalzare della sicura sconfitta, salva il destino di alcuni soldati procrastinando il loro ritorno in battaglia. Viene salvata da stupro sicuro proprio dall'ebrea che aveva denunciato (ebrea che nel frattempo comanda una pattuglia di regolari sovietici!). Comunque, se la cava.
Sulla cantante quasi-ex-fidanzata dell'ebreo, viene intortata una trama strampalata. Va a letto che un tipo della Gestapo per ottenere un salvacondotto per il quasi-fidanzato; e quindi non "pecca", perché il suo gesto è altruistico. Però, seguendo rigorosamente la cronologia del film, in realtà va prima a letto col tipo per diventare famosa; poi, visto che c'è, usa le sue grazie per ottenere il salvacondotto. Fin qui, fatti suoi (e chissenefrega, insomma). Certo è che si presenta stolida e superficiale quando è costretta ad assistere i feriti tedeschi reduci dall'assedio di Stalingrado. Poi, appena rientrata a Berlino, si presenta redenta e disillusa proferendo una provocazione disfattista davanti ad alcuni ufficiali. L'omone della Gestapo la fa prima rinchiudere e quindi fucilare. 
Per concludere, perché il titolo originale è stato modificato nel più asettico "La generazione della guerra"? Unsere Mütter, unsere Väter” (“Le nostre madri e i nostri padri”), è sottile e allusivo, e dovrebbe suscitare argomentazioni e indignazioni ben più profonde di un semplice "vietato ai minori".
In effetti, il direttore di Rai3 Andrea Vianello ha sbagliato (in buonafede, per carità): una pellicola simile andava accompagnata da un'introduzione storica, e conclusa con un dibattito serio tra esperti competenti. Se avete tempo da perdere, iniziate da qui e qui.
A latere, appena ho twittato le mie riserve sul film, un tipo ha replicato: "Perché parli di sottile revisionismo? Un po' di indulgenza effettivamente c'è. Cmq l'ho trovato ben fatto e storicamente accurato". In effetti, se dovessi fare un film sui tedeschi vissuti durante la Seconda Guerra Mondiale, eviterei di parlare dei morti: quasi sei milioni di ebrei, oltre duecentomila tra rom e sinti, oltre duecentomila disabili, ventimila omosessuali, quasi un milione di dissidenti politici... 

07 febbraio 2011

il discorso del re

Film notevole questo Il discorso del re.
Ricco di sostanza e di gusto sofisticato ma mai zuccheroso, segue una parabola narrativa perfetta e ben delineata. Regia sobria, recitazione precisa (meglio vederlo in inglese), fotografia mai invadente e ben misurata, tempi narrativi da manuale.
Ad essere petulanti, mi sovviene una sola domanda: che senso ha selezionare le musiche di Beethoven e Mozart per i momenti topici della trama?
Voglio dire: la Settima Sinfonia e il Concerto Imperatore del tedesco Ludovico van, Le Nozze di Figaro e il Concerto per clarinetto e orchestra dell'austriaco Mozart, sono tra le pagine più sublimi della Storia dell'Uomo.
Ma se si voleva dare totale dignità alla forma e alla sostanza della vittoria di Re Giorgio VI contro la sua balbuzie, enfatizzandola con musiche precise, perché rivolgersi a compositori contestualmente del "nemico"?
Certo, la tradizione musicale britannica non è altrettanto potente. Giusto Purcell ha fatto qualcosa di analogo ai due supereroi sopra citati (e non scomodiamo Händel, perché era di origini tedesche): però in questi casi ci si deve spremere, o scrivendo componimenti originali o andando a scovare qualcosa di meno noto, però nazionalistico e comunque intenso.
Insomma, il film è bellissimo: ha però questo neo musicale che proprio non riesco a digerire. Il regista se ne farà una ragione...?

Per la gioia degli appassionati, ecco il discorso originale:



E questo è il trailer del film:

25 marzo 2010

Alice nel paese di Tim Burton

Lo confesso: Tim Burton è uno di quei registi che mi commuovono sempre. Non so perché, ma è così, e con tutti i suoi film. Non solo: il tipo fa e dice sempre cose che vorrei dire io, come le vorrei dire io.
Non sopporto chi si aspetta qualcosa da qualcuno; per cui quando vado al cinema non mi aspetto un bel niente, specie da amici intimi come Burton. E ho fatto bene.
A fare gli intellettuali ad ogni costo mi vien da dire che Tim Burton è apparso a Lewis Carroll: tanto che alla fine il testo era già così burtoniano che era inutile lo girasse lui. Chiunque avesse provato ad avvicinarsi a questo metasimbolico e sessuato capolavoro, per renderlo al giusto avrebbe dovuto girarlo esattamente come ha fatto Burton. E paradossalmente alla fine di Tim Burton non resta nulla. Il testo più burtoniano possibile ed immaginabile è il film meno burtoniano che abbia mai visto.
Non so come spiegarmi: è come se Beethoven provasse a rileggere Bastiano e Bastiana di Mozart... in fondo l'ha già fatto, e ha tirato fuori la sua Terza Sinfonia... che alla fine non sembra di Beethoven.
Boh, alla fine sto diventando come il cappellaio matto (un perfetto Johnny Depp). Grande il gattone, stupendi i due gemelloni scemi, perfetta la Carter, molto bella la protagonista... che speriamo crescendo non si rifaccia nulla: è piena di difettucci burtoniani; vanno bene così.