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19 novembre 2023

INCONTRI CON MUSICISTI STRAORDINARI di Enrico Rava (Feltrinelli)

Un artista così solenne non doveva mancare all'appuntamento con l'autobiografia. E lo fa con un libro denso e pieno di cose, che cresce con l'aumentare delle pagine: le prime sembrano carburare; da pagina 45 in poi, è un crescendum di sensazioni, di storie, di aneddoti, di musica e di cuori e di passioni che si intrecciano e si animano così bene nella mente del lettore.
Un libro che non tradisce le aspettative, dove si respirano momenti godibili (l'incontro con Miles Davis), altri commoventi (la follia di Urbani), altri quasi comici (con musicisti capricciosi o fuori da ogni possibile canone).
Sicuramente, è un libro per appassionati di jazz, ma che può piacere anche a chi ama la musica e gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, quando tutte le arti erano ancora fresche, inedite, vive, potenti, esaltanti.

12 febbraio 2021

CHICK COREA, il sorriso del genio

Non è facile salutare amici così irripetibili. Chick Corea ha segnato la mia vita musicale - e non solo - con una serie infinita di appuntamenti, sempre puntuali, sempre di assoluta qualità.
Il mio primo incontro col suo pianoforte accade quasi per caso: uno dei fidanzati più commoventi di una delle mie sorelle mi registrò su nastro l'intero "Romantic Warrior" (1976), un capolavoro jazz-rock in cui, oltre a Corea, figuravano: Al Di Meola, alle chitarre; Stanley Clarke, ai bassi; Lenny White, batteria e percussioni. 
Un'iradiddio di LP da cui spicca proprio l'omonimo brano in cui ognuno dei musicisti tira fuori l'anima; Corea sfoggia un assolo di pianoforte che ci riporta indietro ai riti tribali.
Mi ero innamorato all'istante, specie tenendo conto che nella mia totale ignoranza di allora credevo di avere a che fare con un musicista progressive. Matto com'ero, iniziai a comprarmi tutta la sua discografia; di lì a pochissimo, compresi che avevo a che fare con un musicista di ben altra portata. 
Il secondo lavoro che comprai è a suo nome: il primissimo "Return to Forever" (1972), molto ECM sound, con un approccio quasi brasiliano che ben si diluisce tra accenni di Debussy, Ravel, Liszt. La mia preferita resta "La Fiesta", ovviamente.
Con lui, oltre al fidato Clarke, abbiamo Flora Purim (voce e percussioni), Airto Moreira (batteria percussioni) e Joe Farrell, flautista e sassofonista, cui nel 1986 Corea dedicherà questa raffica di note ddda paura: "Got a Match?". 
Già, gli anni 80 di Corea sono all'insegna di una fusion mostruosamente tirata, ricca di tecnicismi e di scoperte musicali che lasceranno il segno: Dave Weckl (batteria e percussioni) e John Patitucci (bassista) gli devono molto. 
E quel gruppo, Elektric Band, tirerà fuori dal cilindro almeno un altro capolavoro ben che duraturo: "Eternal Child" (1988), decisamente commovente.
Erano gli anni in cui ascoltavo ogni possibile lavoro senza preconcetto alcuno, e Corea era sempre in agenda: come non ricordare l'intimissimo "Children's Songs" (1971), splendidi "esercizi" per solo pianoforte (completati nel 1983), di cui mi innamorerò perdutamente, specie del numero 6 che poi diventerà  "Song to the Pharoah Kings" (1974).
Oppure la delizia dei vari lavori con Gary Burton (1972 e 1979).
O le cose più commerciali - sempre con i Return to Forever, o quelle cupocerebrali con i Circle (1970), o quelle classicheggianti con Steve Kujala (1985), o quelle allegrissime come "My Spanish Heart" (1976), di cui vi suggerisco l'omonimo breve crescendum per piano e voce, che magari stucca ma che alla fine piace proprio perché pieno di sculture così pacchiane. Ma è un LP che nasconde molte altre cose belle, per carità.
Io adoro "Touchstone" (1982), in cui si cimenta in pezzi bellissimi, anche in compagnia di Paco De Lucia (qui in un'improvvisazione dal vivo).
Adoro anche "The Song of Singing" (1970) che credo di aver ascoltato integralmente solo io (è un free jazz senza punto di riferimento alcuno). Adoro "Again and Again" (1983), "Piano Improvisations 1 e 2" (1971), "An Evening with Herbie Hancock" (1978, il mio primo DVD), "The Meeting" con Gulda (1983).
È che Corea era bravissimo, profondissimo e leggerissimo. 
Non era né tetro né serioso. 
Non scatenava battaglie o rancori. 
La musica era il vestito del suo sorriso, di quelle mani così capaci di scalare gli spartiti, solcare i mari delle pause, disegnare gli astri che puntellano la notte.
Era veramente un artista fondamentale, di quelli che ti mancano subito, senza requie, senza pausa, senza possibilità alcuna di pensare che è stato un brutto sogno e domani tornerà a celebrare musica con quella gioia che sprizza tra quelle mille rughe.
Ho sempre adorato "Spain" (1973) in tutte le sue possibili versioni (come questa di Stevie Wonder o questa di Al Jarreau).
Ma mi piace salutarlo con questa versione pacioccona di "Armando's Rhumba", insieme a Bobby McFerrin (1990): c'è tutto quello che Chick Corea ha provato a indicarci, tutto.


22 novembre 2019

MUNICH 2016, viaggio nel cervello di Keith Jarrett

Non aspettatevi The Köln Concert o Rio, questo è certo. 
Non aspettatevi, cioè, un viaggio sonoro eterogeneo ed empatico: qui siamo di fronte alla sola ratio di Jarrett, dove tutto è squadrato e angolare, dove ogni nota perde la sua dimensione sferica per diventare un bit postmoderno.
Sicuramente è l'ennesimo capolavoro di Jarrett, ma sembra di assistere solo alle sue sinapsi, alle sue nevrosi, alla sua stolida presunzione di essere l'unico e vero dio sceso in Terra (come, del resto, lo è): assistere senza partecipare, assistere senza soffrire, assistere senza gioire.
Il problema è proprio questo: cosa arriva a chi ascolta? Solo la perfezione, ma nulla di più; e a me dopo un po' questa perfezione irrita e insospettisce.
Proposto per festeggiare i 50 anni della ECM - tra le tante registrazioni dal vivo, guarda caso proprio quella da Monaco (la patria dell'etichetta) - questo doppio live conferma il percorso stilistico di Jarrett, sempre più incline all'autoascolto, sempre più litigioso con la rappresentazione, sempre più attento all'estetica.
Sicuramente è spaventoso, è mostruoso, è incredibile che questa summa di assoluto sia frutto di sola improvvisazione, il che ribadisce per la enne-ennesima volta quanto sia bravo questo superuomo; però, alla fine, a me resta nel cuore solo la numero V (il cui incipit ricorda Droned di Phil Collins, pensa tu) e la cover di Answer Me, My Love (sublime).
A volte anche gli dei dovrebbero scendere tra i comuni mortali per comunicare loro la lieta novella: qui, invece, il pubblico viene ignorato, il pulsare del cuore viene frizzato, la morbida pasta dell'anima diventa roccia dura e marmorea, le luci del tramonto si trasformano in neon.
Acquistatelo se siete collezionisti, maniaci del freddo o manager disamorati, altrimenti rimettete sul piatto Radiance o The Melody At Night, With You

09 gennaio 2018

Umbria Jazz Winter #UJW25, poche luci, molte ombre (con affetto)

È ormai la sesta edizione che mi vede tra i fedeli spettatori della versione invernale di Umbria Jazz Winter
Rispetto a quella estiva - più famosa e più antica - soffre di almeno due limiti oggettivi: il periodo, notoriamente breve e forzatamente dedicato ai propri affetti; la collocazione, tutt'altro che agevole, penalizzata peraltro da un'accoglienza limitata e limitante.
In più, non passa anno in cui non si parli di difficoltà economiche, nonostante poi successivamente vengano sempre vantati dei sold-out pressoché totali (anche se io ho l'impressione che siano mischiati turisti occasionali con gli spettatori veri e propri).
Certo, il cartellone sembra soffrire sempre più di qualità, ma all'apparenza: al di là dei gusti, e delle performance, infatti, i nomi di grido e quelli di nicchia non sono mancati.
Però quest'anno troppe performance hanno lasciato a desiderare. 
Quelle al Teatro Mancinelli, poi, hanno tutte sofferto anche di un mixer tutt'altro che professionale: musica impastata, strumenti primari quasi inascoltabili, equalizzazione delle percussioni non all'altezza del blasone.
Ma procediamo con ordine.
Il duo Danilo Rea e Gino Paoli non ha mai avuto nulla a che vedere con il jazz. Attenzione, non sto parlando di una mia personale idea di jazz: da sempre, Rea e Paoli fanno i gigioni, alla ricerca dell'applauso facile e di un pubblico più poppeggiante che jazzistico
Per carità, non ci sta niente di male, anzi. Però - qui a Orvieto - da Danilo Rea mi aspettavo più rispetto per la sua figura. Poche note, ma giuste, diamine! 
E, invece, ha vorticosamente girato le fettuccine sui tasti bianconeri, sciorinando quei quattro soliti e prevedibili trick che vent'anni fa erano innovativi, ma che oggi sanno solo di stanca ripetizione di se stessi. Lo accetto da Allevi, ma non da Danilo Rea. 
Si è salvato giusto Flavio Boltro, guest in un paio di pezzi, sempre capace di prendere affettuosamente per i fondelli la sua tromba, limitata ma audace e sorniona.
Jason Moran ha proposto un Monk inutile, cerebrale e borioso, quale invece non era il grandissimo pianista. Troppi intellettualismi stucchevoli e appiccicati, accompagnati peraltro da una sorta di installazione risicata e ripetuta più volte, che se soffrivi di epilessia rischiavi veramente brutto.
Marc Ribot ha fatto un casino con un suo modo molto arrogante di raccontare l'armolodia di Coleman, penalizzando i già timidi Young Philadelphians con un uso strafottente e ostinato del wha wha, per oltre un'ora di bordello sonoro; tanto che tre quarti di Teatro è scappato via a gambe levate dopo soli dieci minuti di fracasso. 

Da chi ha nobilitato David Sylvian, Tom Waits e Vinicio Capossela, mi aspettavo più rispetto per se stesso, per il pubblico e anche per i giovani musicisti coinvolti.
Il Merry Christmas Quartet di Fabrizio Bosso ha fatto la sua striminzita performance con l'aiuto di una voce senza mantice ed estensione (quella di Walter Ricci). Scaletta già dimenticata per un live veramente deludente. Certo, Bosso è dio, Mazzariello è il suo profeta, ma la scelta dei brani è stata micidiale.
Sul trio Guidi, Bearzatti, Rabbia non riesco a pronunciarmi più di tanto. Il pianismo di Guidi è acquoso di suo, contrapposto al batterismo di Rabbia decisamente più professionale. Quando entravano nel jazz mainstream riuscivano bene (troppo ECM, va detto); ma quando hanno abbozzato un free jazz di maniera, mi è venuta voglia di scappare.
Si sono salvati: la bella lettura di Joni Mitchell da parte di di De Vito, Pietropaoli e Mazzariello e la brava e promettente Jazzmeia Horn (teniamola d'occhio!). 
Però è stato troppo poco.
Oltretutto gli organizzatori insistono nel dire che quello invernale è sempre stato un Umbria Jazz per "addetti ai lavori". Cosa diamine voglia dire, è un mistero. Resta il fatto che anche e solo l'elenco dei nomi presentati dimostra una volontà di essere invece eterogenei e curiosi.
La vera domanda da porsi, invece, è un'altra: come mai il livello è stato complessivamente così basso?
A parte le due benvenute eccezioni, perché la qualità di Umbria Jazz 25 è stato così bassa e precaria?
Non ho la risposta, ovviamente; anche se temo che la visione dei due estremi (Rea da una parte e Moran dall'altra) lasci intravedere un'italica volontà di mantenere separati due mondi (jazz banana e jazz colto) che nel significato stesso del jazz non dovrebbero nemmeno essere ipotizzati.

29 marzo 2017

la tetra tetralogia di Keith Jarrett

Registrato nel 1996, questo A Multitude Of Angels è la testimonianza delle ultime improvvisazioni pianistiche lunghe di Keith Jarrett, perlomeno sul piano autobiografico. È per primo Jarrett, infatti, a precisare che considera questi quattro concerti italiani come l'ideale termine delle sue anabasi per piano e cervello. 
E già: piano e cervello.
Il pregio di Keith Jarrett è sempre stato anche il suo difetto: suona per se stesso. 

Non pretendo che ammicchi verso il pubblico - proprio lui, poi!, o che si esibisca in qualcosa di dissimulatamente commerciale; pretendo, però, che si renda conto che sperimentare e improvvisare siano due ambiti diversi, che possono - e devono - incontrarsi, ma che devono anche sapere quando uno dovrebbe cedere totalmente il posto all'altro, ponendo la parola fine ben prima di annientare l'ultimo degli ascoltatori più fedeli.
Insomma, ogni tanto, caro Jarrett potresti suonare almeno per la musica, magari senza avere il cuore cementificato da pulviscoli cerebrali? Del resto, se in inglese si usa dire giocare la musica, ci sarà pure un motivo. 
La ipercelebrazione di questi quattro cd, insomma, risente molto dello sdoganamento in automatico che qualsiasi cosa faccia Jarrett sia buona.
Non siamo di fronte al free jazz più esasperante, come nemmeno ai Concerti di Colonia o Paris Concert o Vienna; ma neanche possiamo parlare di capolavori miliari o di opere di riferimento assolute.

Questa è una collezione per jarrettiani indomiti, molto indomiti, con pochi e radi momenti sublimi. Anzi, in alcuni momenti si ha l'impressione di essere di fronte a un Jarrett che voglia volutamente scimmiottare se stesso (Modena) o buttarla in caciara (Ferrara).
Una parte di me soffre a scrivere così duramente, perché già sa che alla fine amerò pure questa tetralogia, magari dopo il centesimo ascolto. Però tenetevi strette queste considerazioni, prima di spendere quasi 40 euro!


24 febbraio 2015

Rigmor Gustafsson (con radio.string.quartet.vienna) - Calling You

Rigmor Gustafsson è una pregevole cantante che se fosse nata pochi chilometri più a sud della Svezia, avrebbe un seguito e un successo notevoli.
Non ha una voce ammazzasette, ma la sa usare bene, donandole colore e spessore anche là dove spesso le voci femminili si perdono per strada: quando cioè devono staccare da una nota particolarmente sostenuta per poi buttarsi dentro una ripresa più grave e meno virtuosa.
L'ho conosciuta tramite questo Calling You (rigorosamente Act, figuriamoci), accompagnata dal mirabile radio.string.quartet.vienna, qui al massimo della sua follia postmoderna. 
È un disco apparentemente vecchio stile, studiato cioè per un ascolto sequenziale (dal primo all'ultimo brano, insomma), dove la scelta degli standard desta sempre interesse, se non addirittura passione e voglia di riascolto.
Si passa dai nuovi classici di Paul Simon fino a qualcosa di Burt Bacharach, passando per Michel Legrand, senza dimenticare ovviamente il brano di Bob Telson che dà il titolo al cd (da noi amata controcanzone di costante accompagnamento per Bagdad Café).
C'è un costante gioco delle parti tra archi e voce che diverte e meraviglia. Raramente gli arrangiamenti cedono al caos prevedibile, anche se ogni tanto il missaggio si perde per strada. Ma questo è un limite della Act come anche di troppi lavori concepiti espressamente per un ascolto digitale.
Lo consiglio soprattutto ai neofiti: è un modo molto "tranquillo" per entrare nel mondo del jazz senza perdersi dietro cerebralismi complessi o canzoni troppo sofferte.

08 febbraio 2015

Peter Erskine fuori e dentro i Weather Report

Divertente, interessante e anche istruttivo: i tre aggettivi che vengono in mente appena conclusa la lettura di questa autobiografia di Peter Erskine
Un libro che merita l'acquisto, anche da parte di chi non è appassionato di batteria e percussioni.
Salta subito all'occhio l'intenzione di non perdersi dietro inutili racconti d'infanzia o aneddoti troppo personali. Peter Erskine, infatti, ama divertirsi e far divertire il lettore, mettendo immediatamente in primo piano la musica e il suo strumento preferito: quella batteria, cioè, che lo trasformò in brevissimo tempo in un innovatore ancora attualissimo e in un pioniere della fusion meno ovvia (anche se lui per primo rifugge da questa definizione, ammettendo però la necessità economica di essersi dovuto cimentare anche con la muzak più insopportabile). 
Ritroviamo grandi del passato come Jaco Pastorius, Joe Zawinul e Mike Brecker, più altri come gli Steps Ahead, Stan Kenton, Dave Weckl, Joni Mitchell, gli Steely Dan, Pat Metheny, Elvis Costello, Diane Krall, Wayne Shorter, John Patitucci... la lista è lunga e piena di sorprese. 
Anzi, scopriamo pure gli angoli segreti di autentici monumenti come Manfred Eicher (un caratterino niente male) o Chick Corea (nella veste di inedito quanto eccellente batterista). In coda al testo figurano cinquanta titoli preferiti dall'autore tra i centinaia cui ha collaborato, anche come leader (anche qui molte sorprese).

25 gennaio 2015

Hamburg '72, un brutto cd di jazz

Sapevo che prima o poi sarebbe accaduto, ma lo speravo lontano e ben oltre l'orizzonte. E, invece, quel giorno è arrivato: parlerò male di un lavoro di Jarrett, datato 1972 ma uscito dalla sapiente produzione di Eicher solo alla fine dello scorso anno.
Insomma, è un po' come quando Fonzie doveva dire "ho sbagliato" ma non ci riusciva. Eppure, fatemelo dire prima che ci ripensi: questo Hamburg '72 è brutto forte. 
Pretenzioso, serioso, allusivo, senza alcun afflato innovativo, vecchio nell'anima e anziano nell'ascolto, è un'opera senza capo né coda che ammicca al futuro senza entusiasmo e coraggio. 
Un'opera, insomma, che se fosse uscita dalla penna di un qualsiasi altro musicista sarebbe stata stroncata di netto come solo meritano opere così pretenziose.
Keith Jarrett strimpella il piano, sofficchia sul sax soprano e sul flauto, prendendosi la libertà di contribuire ad alcune (inutili) percussioni. L'ombra di Charlie Haden smanazza il contrabbasso quel tanto che basta. Paul Motian riesce ad essere più "motian" del solito, senza cioè dare un senso a un batterismo già di suo poco felice (conosco la discografia migliore del tipo, e non mi ha mai detto un granché; lo preferisco come session man silente). 
Si sentono chiaramente la devozione e i rimandi a Ornette Coleman, ma nella sua parte strutturale e non artistica. Voglio dire che non si buttano note in caotica caciara se non c'è anima; altrimenti, è tutto molto pungente e noioso.
Qua e là sguscia via il Bill Evans più sperimentale. Ma sono fuochi fatui di un Jarrett decisamente fuori registro.
E dire che le ultime finestre dal passato remoto di Jarrett mi erano piaciute, sia da solo che in trio: ma qui mi sono sentito preso in giro, quasi mortificato, specie perché la critica lo ha incensato senza difficoltà alcuna. Forse ci vorrebbe un po' più di coraggio e di onestà intellettuale: se un'opera è brutta, tanto vale dirlo. E questa è un'opera da non comprare.

31 dicembre 2014

Paolo Fresu / Daniele Di Bonaventura duo a #UJW22

Qualsiasi genere musicale venga sfiorato dalla grazia di Fresu, diventa magia. Non so come faccia, né tantomeno voglio saperlo, ma è una dote così rara e profonda che dopo ogni suo concerto non voglio ascoltare più musica alcuna per il resto della giornata.
Questo con Di Bonaventura è stato un viaggio nel mondo del bandoneon, senza però mai toccare la parte più ovvia - quella del tango, cioè - se non con una premessa ironica alla conclusione del set (la sempiterna Adios Muchachos di Gardel).
Commovente, ai limiti dei lucciconi, la sofisticata esecuzione di Non Ti Scordar Di Me; aggraziata la variazione intorno a una tradizionale ninna nanna bretone; felicissime citazioni di Puccini, Bach e Stravinsky, di El Pueblo Unido e di antichi echi del Sudamerica meno noto; doppio omaggio all'amico e sodale Ermanno Olmi; conclusione d'obbligo con la sempre attuale Te recuerdo Amanda.
Un concerto tondo, pulito, elegante e ricco di suggestioni che ritroveremo in altre forme nel marzo venturo in un cd ECM.

29 dicembre 2014

Giovanni Guidi / Gianluca Petrella duo a #UJW22

Un concerto elegante, bello e intenso, con poche note ma giuste e di misurata bellezza. Un'esperienza, insomma, che porterò nel cuore e nella memoria per molto tempo.
Non amo molto il pianismo liquido di Guidi, peraltro sempre troppo ammiccante a certi nordicismi in stile ECM; ma qui ci stava bene, benissimo, preciso e puntuale nel supportare i virtuosismi di un Petrella in costante e probante stato di grazia.
C'è da chiedersi - da sorprendersi direi - come faccia il sempre giovane trombonista a trovare le strade giuste e a sostenere per tutto l'arco di un concerto un bagaglio emotivo e tecnico così singolare.
Insomma, quando uscirà il prossimo promesso cd, acquistatelo a occhi chiusi: questo live a Umbria Jazz Winter ne è stata una valida e indimenticabile premessa.

08 aprile 2014

dopo Terje Rypdal, il silenzio

Terje Rypdal è un chitarrista eccellente, dotato di rare intuizioni sonore e di tecnica squisita quanto discreta.
I suoi detrattori gli hanno spesso attribuito una scarsa propensione al caos, al far "vedere" di cosa sia capace; ma chi ama la musica sa che a volte l'eccellenza sta dietro l'accennato, quel minimo necessario per lasciar trasparire rade ed esatte note.
Il silenzio, insomma, è la vera sfida per il vero musicista. 
Del resto, per fare un esempio tra i tanti, chi ama veramente Hendrix, si commuove più ad ascoltare il legnoso incipit di Little Wing che certe schitarrate più immediate.
Ebbene, prendete un'orchestra da camera, una soprano misurata, una tromba raffinata e un organo da chiesa appena installato, un tocco di minimalismo meno ovvio, jazz moderno e tanto (ma tanto) Ligeti, e avrete questi bellissimi 5 movimenti di Lux Aeterna.
Con questo cd, Rypdal ha superato se stesso. Onestamente, se fosse possibile, lo pagherei per non suonare mai più. Quando regali alla Musica un'opera come questa, hai raggiunto lo scopo della tua esistenza.
Il resto, è silenzio.


5th Movement , Lux Aeterna -- Terje Rypdal from libertinesurrealist on Vimeo.

02 gennaio 2014

Tribe di Rava #UJW21 (recensione da #Orvieto, #jazz)

70 minuti consecutivi di musica contemporanea, tiratissima e seducente, hanno inchiodato 350 spettatori alle poltrone lasciandoli senza fiato, con gli occhi sgranati per raccogliere ogni minimo dettaglio, e l'udito avvolto da suoni e da echi ricchi di radici eterogenee.
C'è molto jazz "bianco" in questo Rava, fortemente influenzato dalla dodecafonia meno ardimentosa e dal Berio più folcloristico, con un occhio rivolto a certe soluzioni dell'ultimo Evans, quando lavorò insieme a Cugny. In più, si percepisce costantemente questa incontrollabile passione per il jazz e per le nuove leve.
Incredibile - e incontenibile - il trombone autorevole di Petrella; fondamentale la batteria di Sferra; vacuo ma fluido il pianismo di Guidi (che ancora non riesco a far mio); timidissimo ma promettente il contrabbasso di Evangelista.
Insomma, una degna conclusione di un Festival articolato e ricco di novità.

09 aprile 2013

il Mare Nostrum di Fresu, Galliano e Lundgren

Abbacinati come siamo dalle meraviglie della ECM, spesso perdiamo per strada le etichette altre, come la ACT. Oltre ad avere nomi di spessore, riesce comunque a sorprendere anche quando la fama non c'è.
Certo, poi, uno si lascia condizionare dai nomi e quindi va sul sicuro su questo Mare Nostrum di Paolo Fresu, Richard Galliano e Jan Lundgren... e resta di stucco.
Musica languorosa ma mai stucchevole (nonostante il rischio ci sia con un'eccellente versione di Que reste-t-il de nos amours? che sarebbe piaciuta a Trénet)
Jazz fluido al servizio dell'ascoltatore. Mai una sbavatura. Tanta bravura, tanta grazia, e tanti ricordi che si adagiano delicatamente sul nostro sguardo perduto.
Se volete assaggiare il cd, questo live fa per voi:

01 febbraio 2013

quando Keith Jarrett sposta le montagne

Incredibile questo Sleeper:
Registrato dal vivo nel 1979 a Tokyo, e proposto in doppio cd solo qualche mese fa, racconta un Jarrett in perfetta forma, circondato da eccellenti musicisti di rara perfezione: Jan Garbarek (ance, flauto e percussioni), Palle Danielsson (contrabbasso) e Jon Christensen (batteria e percussioni).
La cosa più emozionante sta in un semplice dettaglio: suoni, scelte musicali, arrangiamenti, sensazioni, sono di rara attualità. Attenzione: non ho scritto "senza tempo"; ho scritto "attuali".
È come se il magnate della ECM abbia deciso di riproporre adesso questa operazione perché aveva capito già da allora che solo adesso ha senso pubblicarla, adesso è il momento giusto, adesso c'è qualcosa che manca nel panorama jazzistico internazionale.
Per carità, la mia è una banale speculazione da appassionato: sono certo che il tutto corrisponda a semplice calcolo e strategia commerciali. Però, accidenti, con tutto quello che sta intorno al jazz, con questo suo essere fermo e autoreferenziale, o solluccherosamente ancorato al verbo del sopravvalutato Mehldau, sembra che Eicher abbia detto: "ragazzi, voltiamoci indietro: c'è la soluzione a tutto". 
I brani: Personal Mountains, Innocence, So Tender; Oasis, Chant Of The Soil, Prism, New Dance.
Un consiglio spassionato: il primo è molto lungo, ma va ascoltato senza interruzioni o distrazioni di sorta: sembra di stare in auto a 1.000 all'ora; quando tutto è ormai follia pura, Jarrett inchioda, ti sbatte in faccia l'airbag, e comincia una lenta - lentissima - sequenza di accordi dolcissimi, crepuscolari, ma secchi e nitidi, evocativi ma precisi... Il resto, è nulla in confronto a questo brano. Figuriamoci...

13 gennaio 2013

l'Italia e il metodo ECM

Conosco l'etichetta ECM dal 1985. A Disco Boom, in via del Tritone, ci si trovava spesso per parlare di musica, acquistare dischi rari e costosi (perlomeno per le nostre tasche), senza sapere che di lì a poco ci sarebbe stata una rivoluzione tecnologica che oggi appare vecchia: l'arrivo dei CD.
E dato che Eicher, il guru dell'etichetta, aveva naso fino, cominciò a dismettere tutti i vecchi supporti del suo catalogo: fu in quell'occasione che acquistai a pochissimo prezzo nastri preziosissimi. Metheny, Jarrett, Surman, Rypdal, Micus, Corea... l'elenco è lunghissimo e ancora oggi fa tremare i polsi.
Per chi ama la musica, innamorarsi della ECM è quasi un passo obbligatorio, nonostante certe attitudini un po' fighette che diventano deliziose appena parte la musica: i famosi cinque secondi di vuoto iniziali, la grafica sobria e sempre all'avanguardia, la scoperta di autori comunque all'altezza delle più rosee aspettative, una implicita ricerca continua, un marketing quasi assente ma non per questo distratto.
E lui sempre presente come produttore, discreto ma totale (indicativa una bella copertina del duo Rava/Bollani, in cui lui s'intravede nella penombra a sinistra, sornione).
Ma c'è un altro elemento caratteristico che ho scoperto solo questi giorni, e che mi ha aperto un mondo di suggestioni: (quasi) tutti i musicisti devo sottostare alla rigida regola del registrare entro due giorni; il terzo è dedicato al missaggio finale.
Ora, immaginatevi la scena, specie per una guest star dell'ultima ora: hai un calendario fitto di concerti e registrazioni, e quindi/anche di impegni mentali non indifferenti, e c'hai incastonato questo salto in Norvegia (e già, si registra lì), sperando magari di passare qualche giorno in profonda contemplazione compositiva. Neanche arrivi con la fiatella dell'affamato, che già devi imparare pezzi altrui o comporre roba tua, poi orchestrare e/o seguire orchestrazioni altrui, creare/accettare un amalgama soprattutto psicologico e spirituale con gli altri, provare, ed eseguire senza tanti errori... in 48 ore! Quarantotto ore!
Ora, è ovvio che uno può aver composto dal tinello di casa propria, e aver provato mesi nel garagetto in fondo al viale, e avere comunque delle belle idee/partiture in mente. Può essere tutto quello che volete, specie tenendo conto che la squadra di musicisti ECM non è fatta di seghe sprovvedute. Ma anche e solo a livello mentale, è un limite terrificante.
È in casi come questo che o hai palle/ovaie e professionalità o te ne stai a casa.
E che c'entra l'Italia citata nel titolo? Niente.

31 dicembre 2012

#UmbriaJazz Giovanni Guidi Trio, algida gioventù

Le malelingue vogliono che il giovanissimo pianista goda di tanta attenzione perché figlio di un componente l'entourage di Super Rava.
Che sia vero o no, Giovanni Guidi ha molta strada da fare, forse tanta. Una mano sinistra quasi assente, timidi jarrettismi senza l'arroganza necessaria, mani troppo vicine e nascoste nelle due ottave centrali, schemi audaci ma senza guizzo decisivo.
No, non vuole essere solo una feroce stroncatura senza speranza. Semmai una stoccata irritata per un inizio poco rispettoso verso il pubblico: non si parte, cioè, con un pezzo di un quarto d'ora abbondante di jazz freddo alla Ecm (mitica etichetta che lo ha cooptato per un'imminente uscita su cd); non si fa, specie quando si deve raccontare (e raccontarsi) qualcosa a un pubblico smaliziato quale è quello di Umbria Jazz.
È vero che quando si è giovani si tende a strafare. Ma chi lo produce dovrebbe suggerire un minimo di umiltà e di senso della misura.
Tra gli standard proposti, buona lettura della "By This River" di Brian Eno (la conoscete grazie anche alla "Stanza del figlio" di Moretti), molto simile a quella del Martin Gore di "Counterfeit 2". In più, deliziosa versione del classico "Qui sas qui sas qui sas".
Concerto interessante, quindi, ma niente di più. Da segnalare solo l'ottima prova di Joao Lobo, batterista riflessivo, puntuale e raffinato, di quelli che sanno quando parlare e quando stare in disparte.

25 gennaio 2012

è morto Theo Angelopoulos

Lo so, fermi tutti: i suoi film sono sempre stati così lenti che durante le fasi di doppiaggio in italiano, sono state consumate più cuccume di caffè che in tutti i telefilm americani.
Però a Theo Angelopoulos sono legato comunque, per almeno due motivi: uno, cinematografico; l'altro, personale.
Quello cinematografico: sia Lo sguardo di Ulisse che L'eternità e un giorno mi hanno profondamente segnato, sia per l'insieme degli aspetti tecnici (sceneggiatura, fotografia, musica) che per i contenuti, profondi e coinvolgenti. Due capolavori di rara intensità che ho avuto l'ardire di vedere due volte ognuno (il secondo, consecutivamente).
Mai dimenticherò certe sequenze, certi momenti, ma soprattutto il "sapore" dell'insieme, vero e proprio esempio di cultura europea. totale, sapiente e dotta, capace di unire le tre grandi direttrici culturali del nostro passato: quella cristiana, quella bizantina e quella slava.
Sicuramente la fa da padrona l'eccellente musica composta dalla tradizionalmoderna Eleni Karaindrou (guarda caso della scuderia ECM), musica che mi riporta al motivo personale. Quando sono stato a Creta, in quel della punta est di Falassarna, ogni mattina a colazione venivamo accolti dalle sue note composte per La sorgente del fiume, che avevo visto a una prima ma che non mi aveva suscitato la stessa passione per i due sopra citati. 
Eppure quella culla di note così struggente, quei sapori che mai hai assaggiato ma che senti tuoi perché patrimonio del tuo sangue europeo così variopinto, mi hanno fatto crescere dentro un profondo rispetto per questi popoli così malvisti dalla nostra spocchia, e invece ricchi di dignità, di colore, di tradizioni ataviche che spesso reputiamo spente o comunque scomparse.
Una volta qualcuno disse che la Grecia aveva donato la luce al mondo per poi spegnersi definitivamente. 
La fiamma di Angelopoulos sta lì a dimostrarci che niente è perduto, che qualcosa è rimasto, e rimarrà anche dopo questa sua stupida morte.
So long, Theo, so long.