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07 febbraio 2024

MAESTRO

Quella di Leonard Bernstein è stata una personalità così multiforme e multicolore, che è complicato riassumerla in poche righe.

Innanzitutto, fu tra i pochi suoi contemporanei a credere nella contaminazione tra generi, tanto che le sue stesse composizioni spaziano in maniera dolce e credibile dal Mozart più austero al jazz be-bop, passando per Beethoven o per la dodecafonia.

È stato tra i primi a restituire la giusta visibilità alla musica di Gustav Mahler, dando risalto alla sua insospettabile leggerezza, ma anche enfatizzandone i riferimenti alla cultura ebraica, sparsi nelle sue nove sinfonie. Personalmente, preferisco le direzioni del compianto Sinopoli, asburgiche e spirituali al tempo stesso; ma il Mahler di Bernstein è veramente oltre.

Bernstein sapeva divulgare con grazia, competenza e misura, coinvolgendo anche le menti poco avvertite e i giovanissimi. Inoltre, ha stravolto la composizione dei musical, con partiture di rara modernità e freschezza, aggiornando l’intero genere e donandogli nuova linfa vitale.

Le sue direzioni erano muscolari, esagerate, esagitate, piene di sudore e fatica, ma anche di sorrisi e rinascite; sicuramente, uniche e indimenticabili.

Non ha mai sofferto la sua bisessualità né tantomeno obbligato i suoi cari a comprenderla.

Ebbene, tutto questo (e molto altro che ho dimenticato) s’intravede appena in Maestro, un film fatto di molti (troppi) accenni. Molti critici hanno insistito nel dire che il perno della trama sia l’omosessualità di Bernstein - e la sua sofferenza nel viverla. In realtà, tutta questa sofferenza nel film non si vede. Oltretutto, era cosa nota a tutti! Perché inventarsi un drammone così inesistente?

Il vero problema è che il film non funziona del tutto, risultando piacevole ma lungo e rarefatto. Non ha un vero e proprio riferimento, non centra l’importanza di una figura così fondamentale per la cultura occidentale. Certo, la direzione della fotografia è impeccabile, Bradley Cooper è esatto, Carey Mulligan è magnifica; ma non bastano

02 febbraio 2014

#AmericanHustle, chi?

Sono sicuro che se avessi visto il film in lingua originale, non gli avrei dato un 6 stiracchiatissimo, ma qualcosa in più: il doppiaggio, insomma - perlomeno questo modo di doppiare così sciatto - penalizza moltissimo American Hustle, rendendolo addirittura insopportabile in certi momenti.
Al di là di questo, è un film troppo lungo, con troppi gigionismi, e un tentativo sin troppo evidente di dare ad ogni attore la giusta dose di visibilità. Ne escono bene (benissimo) Christian Bale e Jennifer Lawrence; ne esce quasi incolume Jeremy Renner; ne escono malissimo Amy Adams e Bradley Cooper. 
Ormai Christian Bale può recitare anche dormendo: ha un tale controllo della fisicità e della mimica che può permettersi di tutto. Tra tutti gli attori del momento, mi sembra quello con più sfumature e più coraggio (la trilogia di Batman insegna).
E anche Jennifer Lawrence non è da meno. Oltretutto, non è di una bellezza particolare, ma molto standard e senza guizzi estetici. Eppure sa tener testa alle inquadrature con navigata disinvoltura. Un tempo si chiamava "presenza scenica".
A Jeremy Renner uno vuole bene. Ha dei limiti, molto evidenti peraltro, ma non fa niente per nasconderli né tantomeno fa finta di poterli superare.
Bradley Cooper mi è sempre sembrato poco attento alle sfumature, sin dai tempi di Alias. Ha l'evidente difetto di recitare all'inizio di una storia come se già sapesse come va a finire. Non c'è sorpresa o rabbia nelle sue espressioni, ma solo mestiere a buon mercato.
Amy Adams, infine, ha un'espressione, solo una: la porta addosso dall'inizio alla fine, lasciandosi aiutare da un vestiario che lascia poco all'immaginazione, ma che dopo un po' diventa stucchevole e ripetitivo.
Sul cameo di Robert De Niro neanche mi pronuncio, gli voglio troppo bene.
Anche la regia sembra approssimativa: alcune sequenze sembrano ciak di riserva, forse scartati, e poi rimessi lì perché non c'era altro.
Bella, invece, la fotografia, anche se troppo uniforme. 
Ottima, com'è noto, la scelta delle musiche: a volte fuori contesto (volutamente, immagino), ma decisamente accurata e di indubbia qualità; memorabile il breve ma gustoso show della Lawrence sulle note di Live and Let Die dei Wings (vale la spesa del biglietto).
Insomma, per ora la mia corsa degli Oscar è ancora ferma al palo: vediamo cosa mi diranno le prossime pellicole.