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04 settembre 2024

DUNKERQUE di Franco Cardini e Sergio Valzania (Mondadori)

C'è più del resoconto storico dentro questo accurato libro su uno dei drammi più avvincenti della Seconda Guerra Mondiale: ci sono ipotesi aggiornate, ricostruzioni inedite, una certa attenzione per la "ragione" degli eventi (i buoni e i cattivi ci sono, ma nel loro ruolo esatto, non di parte), una capacità di analizzare il contesto e le sue conseguenze, andando ben oltre le ideologie o le faziosità di comodo.
È anche un viaggio dentro la mente dei protagonisti, con una voglia estrema di chiudere tutti i punti in sospeso, ma con l'implicita consapevolezza che qualche spiffero resterà comunque aperto. 
Ci sono stati momenti in cui se i francesi avessero osato, avessero creduto nella loro forza, fossero stati comandati da militari capaci, avrebbero potuto respingere il nemico. 
Così come ci sono stati momenti in cui i tedeschi, anziché fermarsi per qualche giorno (tra timori tattici e invidie tra ufficiali) per poi riprendere l'assedio, avrebbero potuto annientare immediatamente gli esuli di quelle spiagge, seppellendo sul nascere il mantra churchelliano della riscossa e della rivincita, che pochi anni dopo lo porterà a conquistare la Normandia.
I capitoli finali affrontano temi ancora irrisolti sulle reali intenzioni di Hitler, sul suo essere forse consapevole che da dopo l'invasione della Polonia, ogni singolo passo successivo avrebbe sicuramente portato la Germania verso la distruzione.
La Seconda Guerra Mondiale era evitabile? La Germania partiva già sconfitta? Mussolini avrebbe potuto gestire meglio il suo iniziale ruolo di mediatore?
Domande curiose, forse oziose, ma che nulla tolgono agli eroi (anche civili) che con mille barchette e velieri salvarono migliaia di uomini da morte certa.

08 dicembre 2023

THE CROWN, la sesta

Ho visto la prima tranche della sesta e ultima stagione di The Crown.
Al di là dei gusti personali, di Lady Diana viene fuori una figura complessa e compressa da meccanismi maschili e maschilisti, in cui anche il pettegolismo nazional popolare ha giocato un ruolo nodale sulla sua morte prematura.
In passato, non avevo approfondito il fenomeno che si cela(va) dietro tale figura. Avevo però trovavo la sua nota intervista televisiva una scelta provinciale e priva di stile (sembra ottenuta con l’inganno): prima di accettare quelle nozze, Lady Diana poteva non sapere che avrebbe vissuto in quel mondo e in quel modo?
È vero anche che quel mondo era in crisi, forse grazie anche alla modernità che si stava radicalizzando proprio in quegli anni: lo racconta molto bene Stephen Frears nel suo The Queen (2006).
E quindi, Lady Diana - inconsapevolmente, immagino - ne è stata il Rubicone, il diaframma tra un prima e un dopo.
Sicuramente, la facies della Regina viene resa come una macchietta (non la sua voce, incredibilmente identica all’originale); mentre, invece, il rapporto tra Dodi e Lady Diana sembra più edipico che di coppia.
Buone le scelte musicali, soprattutto l’uso misurato di Bach (e di Gabriel Yared durante la scena della cena).
Eccellenti le location, meno gli esterni. Dipende anche dalla direzione della fotografia: così sublime in tutte le stagioni precedenti, in questa si perde per strada dalla seconda puntata in poi. Le luci, finora così studiate e raffinatissime, sembrano quelle di un ring light dozzinale; le inquadrature rasentano il didascalico.
La scrittura funziona quel tanto da rendere evidente il veleno del maschio prepotente e arrogante, di una società perversa che sbava per un pettegolezzo e poi ipocritamente si dispera se questo pettegolezzo uccide… tutto questo viene fuori con credibilità, in maniera ansiogena, generando rabbia e frustrazione.
In sintesi, la serie va comunque vista anche e solo per “sentire” il panorama miserabile che noi maschi usiamo generare da sempre, anche in contesti così fascinosamente artefatti

10 marzo 2022

LA MIA STORIA CON E SENZA GLI WHO di Roger Daltrey (Caissa Italia)

«Gli Who sono tre musicisti più un cantante». Sotto molti aspetti, questa acidità di Pete Townshend era condivisa anche da noi appassionati. Almeno finché non è uscita questa divertente autobiografia
Roger Daltrey, infatti, scrive pagine godibili, ricche di aneddoti e con una nitida attenzione al contesto storico e alla sensibilità dei musicisti incontrati. Un libro che si beve con gusto e che a volte induce alla rilettura, per godere appieno certi passaggi nodali.
È anche un modo per inquadrare da una prospettiva diversa l'antica autobiografia del chitarrista degli Who (2013), più corposa, musicalmente più dettagliata, ricca anche di ragionamenti sui massimi sistemi, con una interessante propensione al contorcinamento intellettuale, alla meticolosa analisi, ai dubbi senza uscite.
Il confronto, insomma, è inevitabile; anche perché, mentre Townshend porta sulle spalle il macigno delle sue contraddizioni, Daltrey non si prende mai sul serio, ha un senso pratico per le cose della vita, un sense of humor più soffuso, una tendenza alla gratitudine, una percepibile onestà intellettuale.
Come spesso capita per libri come questo, l'operazione nostalgia è sempre in agguato. Però, è solo grazie a queste autobiografie che possiamo capire veramente cosa abbiamo ascoltato in gioventù e quanto sia stato importante viverla al momento giusto.

31 gennaio 2022

CHURCHILL, LA BIOGRAFIA di Andrew Roberts (UTET)

In un blog come questo, specie in questi anni in cui i blog stanno morendo, non avrebbe senso alcuno cimentarsi in una critica ridondante di un libro come questo, perché significherebbe solo riassumere il testo appena letto. 
Quello di Roberts, è un capolavoro di altissima qualità, confortato anche dall'inedita consultazione degli archivi pressoché inaccessibili della Corona, come anche di un approccio critico ma non autoreferenziale, puntiglioso ma mai preconcetto, entusiasta ma mai ipocrita, critico ma mai polemico.
Si respira la Storia, la Cultura e una precisione dei tempi narrativi che supera di gran lunga quelli dei romanzieri più navigati e disinvolti. Un testo ricco e profondo, documentato anche attingendo da periodici coevi, testi di contorno, biografie e saggi, sia di contemporanei che di ultimissima pubblicazione.
Ma, soprattutto, è un testo accessibile a chiunque; dove quel "chiunque" allude chiaramente a chi volesse veramente conoscere i fatti separati dalle opinioni (che, guarda caso, sono in un capitolo a parte, l'ultimo).
L'unico appunto che mi sento di fare all'edizione italiana è sulla punteggiatura: mal curata e approssimativa. Non so se sia colpa della traduzione (però precisa) o dell'edizione; ma la punteggiatura è un continuo delitto alla buona lettura. Per ovviare a tanti e insistenti inciampi, mi sono imposto di leggere uno, massimo due capitoli per volta, nonostante l'insieme fosse avvincente; altrimenti mi sarei affaticato inutilmente a ricostruire quanto già nel testo è ampiamente suggerito.
Certo è che, a ridosso degli ultimi eventi politici italiani, c'è anche molto da imparare su Churchill: sapeva sbagliare, gli consentivano di farlo, sapeva ragionare nell'immediato come anche a lungo respiro, poteva contare su un popolo dignitoso, orgoglioso, fiero e sempre accanto a lui nella lotta contro il nazifascismo. Esattamente l'opposto di noi italiani che, allora come in questi mesi di pandemia, dimostrammo e abbiamo dimostrato una totale mancanza di senso etico e della comunità, che veramente gridano vendetta.
Certo è che Churchill ne esce nella sua integrità, capace di distruggere Hitler pressoché da solo, ma anche caparbio nell'insistere in un certo modo di essere inglese, che ai giorni nostri striderebbe anche nelle coscienze di chi lo ha stimato senza limiti.
Un libro, insomma, che merita più di una lettura. 

04 febbraio 2017

John Wetton e la voce che sa di muschio

Ricordo nitidamente Carlo Massarini quando presentò per la prima volta una canzone degli Asia, "Only Time Will Tell". La voce di John Wetton sembrava scaturire da un bosco inglese, in una brividosa alba di un autunno mite, con le mani in tasca dentro jeans sapientemente rovinati, l'alito appiccicoso dell'appena svegli e che buttava fuori umidità, un sorriso di un amico, l'ennesima sigaretta fumata a metà. 
Era una voce che sapeva aggredire ma soprattutto sedurre, con una gamma infinita di colori e di luci. E stiamo parlando di una canzonetta pop, peraltro raccontata da un video di rara bruttezza.
Dopodiché entrai nel mondo dei King Crimson e degli UK pressoché contemporaneamente. E lì il nostro amico mi cambiò la visione della musica. 
John Wetton suonava magnificamente anche il basso, con un approccio da macho duro e spietato con le donne, piazzandogli contro però questa sublime voce da disperato adolescente con l'aspetto già da adulto.
Non c'è canzone cantata da John Wetton che non sia una scuola di canto per neofiti. Non c'è una pausa o un silenzio che non siano perfetti, spontanei e studiati. Non c'è momento sperimentale dei King Crimson in cui il suo basso non sia l'impeccabile alfiere della spedizione sonora.
E del resto conferma(va) l'acuta attitudine di Robert Fripp di andarsi a scegliere sempre voci così impeccabili e sontuose, di più-o-meno bassisti, che coincid(ev)ano con la sua visione dei suoni e dei silenzi (ahimé, ne sono morte già tre su sei).
Nella mia particolare classifica di buon ascolto, metto al primo posto "Book Of Saturday", subito dopo "Exiles" e "Fallen Angel", quindi "The Night Watch", infine tutte le altre, indistintamente.
Paradossalmente, il mio CD preferito, però, non è crimsoniano: ma il primo e omonimo degli U.K., dove Wetton prende in mano le melodie e le nobilita con la sua voce al muschio albeggiante.
Secondo l'autobiografia di Bruford, Wetton aveva poca autostima. Non mi meraviglia, ma per un semplice motivo: fosse stato consapevole della sua inimitabile eleganza, sarebbe diventato stucchevole e presuntuoso come Sting. Il cronico disagio di Wetton, insomma, è stata la sua linfa artistica. 

Spero solo che adesso che sta lì nella Stanza della Musica di Sempre, possa finalmente rendersi conto di cosa diamine abbia lasciato nei nostri cuori.
So long, John Wetton.

29 giugno 2015

So long, Chris Squire, and thanks for all the fish

È morto. Non ci sta proprio niente da fare: Chris Squire è morto. Uno dei più grandi bassisti di tutti i tempi, un monumento delle armonie più intriganti, un generoso gigantone ricco di inventiva e di contraddizioni... è morto. Mor-to.
E io non riesco a immaginarmi la storia della musica, la storia della mia adolescenza, senza la presenza di quel terrificante basso che ha spostato oceani, laghi e fiumi, ma soprattutto il mio stomaco. 
Un basso maschio, audace, prepotente, arrogante ma anche dolcissimo, al servizio del gruppo, della musica, dell'insieme... un basso superveloce ma di cui sapevi assaporare con indolenza ogni singola azzeccatissima nota, un musicista che ha portato sulle spalle uno dei complessi più longevi (e più uguali a se stesso) che la storia del rock progressivo ricordi: gli Yes
E non solo di quella, visto che la leggenda vuole che Pastorius sia diventato Pastorius proprio grazie all'ascolto di Chris Squire.
Un basso+voce che è uscito dalla strada risicata di McCartney per sfidare quelle in nuce di Greg Lake, di John Wetton, di Boz Burrell, e di tutti i basso+voce che hanno costellato la storia della musica di Sua Maestà. Un basso che non voleva solo armonizzare la ritmica, ma indicare potenzialità e territori inesplorati dando quindi più spazio (e rischi) a tutti gli altri strumentisti (Howe e Rabin sembravano sempre dover rincorrere le note dal ventesimo tasto in su). 
Se non conoscete quel bassismo così unico, ascoltate Heart Of The Sunrise oppure Yours Is No Disgrace oppure tutta Magnification; opere che resistono ancora oggi all'attacco del tempo, e che forse resisterebbero ancora più se le tastiere avessero suoni meno datati.
Io Chris Squire l'ho conosciuto nella maniera sbagliata: sparandomi, cioè, prima il maledetto Tormato (una schifezza ambulante la cui unica perla è Onward, guarda caso sua), e poi il fastidioso Drama (quello da cui fu presa la sigla del televisivo Disco Ring più riuscito, per intenderci). 
Poi decisi di iniziare con le due bibbie - Fragile e Close To The Edge - e dissi a me stesso "ma chi sono i Genesis?, dei pipponi!". Potete immaginare le discussioni animatissime tra gli "Yes fan" come me e i gabrielani. Divertentissime.
Che poi, tecnicamente gli Yes hanno sempre vantato strumentisti di indubbia qualità tecnica; i Genesis, invece, hanno faticato a uscire dalle ovvietà di certe costruzioni sin troppo autoreferenziali. Gli Yes erano sperimentazione, i Genesis mammolette al servizio dei propri ego. Per carità, voglio bene a entrambi: ma alla lunga io mi perdo nelle complessità così acquatiche del quintetto più terrificante che la musica abbia visto insieme, Anderson, Squire, Howe, Bruford e Wakeman, altroché.
Sfortuna vuole che io abbia visto il primo e i secondi tre in una delle tante avventure musicali collaterali frutto di litigi tra ex-compagni-poi-di-nuovo-non-più. Ma Squire, no, non l'ho mai visto dal vivo. E mi dispiace tantissimo, dio come mi dispiace.
So long, gigantone dal basso bianco. 

07 luglio 2014

chiediti chi erano Crosby, Stills, Nash (& Young)

Ho letteralmente divorato questo "Wild tales. La mia vita rock'n'roll" di Graham Nash, godibile autobiografia, ma soprattutto ritratto a tutto tondo di un'epoca musicale irripetibile, inarrivabile e inestimabile.
Oltretutto, il nostro è tra i pochi fortunati ad aver fatto parte in primissima persona sia del panorama rock inglese che di quello americano, in egual misura, mietendo successi e consensi in ambedue le terre e seminando uno stile e un approccio ancora oggi validi e moderni.
Un viaggio, insomma, privo di sovrastrutture, ricco di aneddoti mai fini a se stessi, con ritratti onesti e mai livorosi di (quasi) tutti i nomi più importanti di ambedue le realtà musicali del periodo.
Purtroppo l'edizione italiana è tradotta coi piedi e manca totalmente di un indice analitico oltreché di una discografia più o meno parziale. È un difetto che ho riscontrato in quasi tutte le (auto)biografie musicali di questi anni, forse perché si pensa che il lettore debba per forza connettersi per trovare una precisa discografia online, forse per risparmiare i costi su un sedicesimo in più... ma resta comunque una grave lacuna.
Fatto sta che per ricostruire le peculiarità di una specifica canzone o di un intero lp (ancora esistevano gli lp!), dovrete armarvi di penna/evidenziatore per ricostruirvi un vostro personalissimo indice. Ne vale la pena.
Tempo fa avevo letto anche l'autobiografia di Neil Young, scontroso e ombroso sempre e ovunque. Onestamente, mi sembra meno genuina di questa, e comunque poco edificante.
Se insomma avete voglia di conoscere un'America che non c'è più, un modo di fare musica umano e tutt'altro che prefabbricato... questo è il libro che fa per voi.

17 dicembre 2013

metti che tua moglie ti regali un megacofanetto dei King Crimson...

La profonda bellezza della musica regala spesso sospiri senza fine, specie se d'un tratto ti viene regalato un piccolo gioiello "commerciale" che porta con sé la storia di un periodo tra i più fecondi e strutturati della biografia discografica dei King Crimson: The Road to Red.
In molti considerano Red un'opera minore, dimostrando perlomeno un'ignoranza oggettivamente storica, visto che i nostri presentarono prima dal vivo i pezzi che finiranno in Red, spesso con formule musicali e testuali ben diverse dal risultato finale. 
Anzi, è proprio questo spontaneo e disinvolto percorso di continui ritocchi esteticotecnici che consente a Red di essere forse il gioiello più strutturato dei tre Lp del periodo più intenso dei KC (quello con la formazione Fripp, Wetton, Bruford, che nel tempo perse per strada Muir, Cross, e che riuscì a far incontrare rock, hard rock, jazz, indie e qualcosa di grunge, ben prima che qualcun altro iniziasse a far finta di inventarlo con nuove forme).
Anzi, è interessante constatare quanto alcuni momenti sonori decisamente più corposi proposti con Larks' Tongues in Aspic, diventino sempre più asciutti e risoluti, quasi arroganti nella loro veemenza.  
Questo Road to Red, insomma, è un'opera che racconta in maniera nitida e precisa quanto già era stato vagamente accennato dal già pregevole tetracofanetto The Great Deceiver, cui però aggiunge numerose chicche per appassionati ma anche rigorosi strumenti di studio per chi crede che la musica dei KC non sia solo quanto si ascolta al momento, ma quanto viene indicato.
A differenza dell'altro supercofanetto dedicato alle "lingue di allodola in aspic", questo su Red si preoccupa di evidenziare letteralmente le intuizioni a venire, il progresso (ma non progressive; troppo riduttivo) della musica di Robert Fripp, che proprio in Red ucciderà definitivamente la chitarra acustica (di cui era grande maestro) per poi riproporla solo nell'esperienza dei Crafty Guitarists due lustri più in là.
Tra i memorabilia, anastatiche di qualche scaletta appuntata su foglietti d'albergo, le quasi-parole di Starless buttate su un foglietto, le copertine di USA e di Red... Qui trovate il dettaglio di tutti i 24 tra cd, dvd, blue-ray contenuti. Il resto sta nel vostro portafogli.
Ah, dimenticavo: sapete perché il tachimetro della copertina segna una mezza tacca oltre il 7?

10 ottobre 2013

la colpa di Peter Banks

La Storia della musica popolare (nella sua accezione più vasta) registra almeno due colpe... involontarie per chi le subisce, intendiamoci: la prima è di essere stati dei pionieri, però non riconosciuti dai più; la seconda di essere stati degli ottimi professionisti, finiti nel posto giusto ma al momento sbagliato.
Come esempio della prima "categoria" mi viene sempre in mente John Paul Jones. Lo storico bassista/tastierista dei Led Zeppelin non viene mai ricordato da chi almeno li conosce per sentito dire; pochissimo da chi ha l'intera collezione di quei dischi così preziosi. Tutti straparlano di Page, Plant e di "Bonzo" Bonham (più per la morte che per i suoi meriti artistici, va detto)... però di Jones se ne parla poco. Eppure, un buon terzo della riuscita dei Led Zeppelin è merito suo, se non qualcosina in più. 
Per la seconda categoria citerei Peter Banks, primissimo chitarrista degli Yes. Il suo era un chitarrismo semplice ma esatto, preoccupato che il necessario virtuosismo del suo strumento non entrasse in conflitto con l'insieme del gruppo. Un chitarrista, insomma, che sapeva quando parlare e quando tacere, pronto a mantenere però un tappeto di accordi sempre in linea con le necessità della struttura musicale.
Ricordiamoci che gli Yes diventeranno poi i paladini di un rock progressivo molto elaborato, ai limiti dello stucchevole (anche se io li ho sempre preferiti ai Genesis), quasi venerato dai paladini dell'attuale metal progressive.
Ebbene, l'equivoco dello stile di Peter Banks era proprio nel suo essere troppo dentro il gruppo, tanto che le sue tessiture così asciutte ma pertinenti vennero ben presto destinate agli archi, lasciando spesso relegato sullo sfondo quel suo arguto pizzicare. 
Lo sappiamo: i rappresentanti del progressive meno colto scambiarono la presenza degli archi come un must necessario. Momento che durò veramente poco, ma che nel viverci dentro Peter Banks mal tollerava, regalando il suo posto al formidabile Steve Howe, sicuramente più bravo, certamente più individualista. 
E purtroppo per lui le tre opere migliori degli Yes sono venute esattamente dopo quella defezione.
Non si è più sentito parlare di Peter Banks, perlomeno dalle primissime file della platea musicale. E chissà quante volte si è arrovellato su quel suo insistere troppo sul tessuto e così poco sull'ego.
È morto per un infarto nel marzo di quest'anno.

02 maggio 2013

biografie musicali: "Luce e ombra. Incontro con Jimmy Page"

Reduce dalla lettura de Il martello degli dei, mi sono avvicinato con un po' di scetticismo a questo bellissimo Luce e ombra. Incontro con Jimmy Page.
E già: ero rimasto così scottato dal sensazionalismo e dalla morbosità gratuita di Stephen Davis, che temevo in un doppione. 
L'unico elemento a favore era l'impostazione: un'intervista è pur sempre una voce senza filtri; a meno che non fai domande proprio sceme, qualcosa di buono uscirà fuori. 
Ed infatti Brad Tolinski riesce a restituirci una figura a tutto tondo di un chitarrista decisamente leggendario ma anche storicamente necessario.
Gli stessi aneddoti proposti da Davis, qui diventano qualcosa di più profondo e sferico, nonché sensato e contestualizzato. 
In più, si parla di musica, sia sul piano storico/culturale che su quello tecnico. Certo, gli smanettoni delle sei corde chiederanno di più, ma c'è quanto basta per deliziare gli ascoltatori più curiosi ed esigenti.
Incontrerete anche le testimonianze di Eric Clapton, John Paul Jones, Paul Rodgers e Jack White, nonché curiose collaborazioni con Tom Jones, Shirley Bassey, Burt Bacharach... e 007!
E subito dopo, imbraccerete il vostro stereo per spararvi ad alto volume How the West Was Won... tutto d'un fiato.

24 gennaio 2013

live and let Bond

Ho appena finito di leggere Vivi e lascia morire di Ian Fleming, nella nuova edizione curata da Adelphi
Al di là di un micidiale "quant'altro" in prima pagina che farebbe trasalire anche un pizzettaro di periferia, è un ottimo testo, perlomeno per chi ama il genere.
Ma, soprattutto, dovrebbe essere letto da chi ama il cinema: insieme al precedente Casinò Royale, infatti, ci restituisce il personaggio per quello che è veramente, con delle durezze e angolature veramente toste, che dimostrano almeno due cose: gli sceneggiatori dei film avevano due palle grosse come il Colosseo per miscelare queste caratteristiche con quelle tipiche del personaggio che conosciamo noi; i critici cinematografici (italiani) non hanno mai letto Fleming. 
La prima cosa è una goduria per chi ama fare confronti tra narrativa e sceneggiatura; la seconda è l'ennesima dimostrazione di quali sciocchi stiano uccidendo il cinema, ben prima di chi scarica illegalmente.
Una curiosa curiosità: in questo libro troverete almeno tre momenti di tre trame di tre differenti film di 007. La prima, quella originale (caratterizzata dal tema d'apertura dei Wings). La seconda, Solo per i tuoi occhi. La terza, Vendetta privata.
Leggete, e capirete.

20 novembre 2012

Joe Jackson è apparso a Duke Ellington

Carmelo Bene mi perdonerà se uso il titolo di un suo noto libro per sottolineare la bellezza dell'ultimo lavoro di Joe Jackson
Il suo omaggio a Duke Ellington è così saporito e ricco di suggestioni che - oltre ad evidenziarne la modernità in nuce - consente anche alle nuove generazioni di conoscere un band leader apparentemente remoto (1899-1974), ma di indiscussa potenza, che tanto ha dato al jazz di tutti i tempi.
Il bello è che ho sentito questa opera solo dal vivo. E in questo caso lo scetticismo ci stava tutto: conosco buona parte delle opere di Duke; so come e quanto vadano rispettate; conosco pure l'approccio di Joe Jackson nei confronti di opere non sue (ma anche sue: visto come si è rifatto la faccia... agh!); ho un indole contraddittoria e con riserve di fronte a operazioni simili; sapevo che Jackson aveva tolto di mezzo i fiati (è come togliere i fulmini a Giove); avevo letto recensioni poco felici su Musica Jazz... insomma, troppe cose contro e pochissime a favore.
Sicuramente, metterle alla prova con un solo ascolto, live pergiunta, non avrebbe aiutato Jackson a superare la mia ritrosia (e, infatti, so che non ci ha dormito sopra)... eppure, tutto è andato a meraviglia: due ore di splendido ascolto, con tanto di tuffo nei suoi classici (con la ciliegina del primo Night and Day pressoché integrale) e la gioia di avere accanto la mia signora, già giovane di suo, che si è dimenata come una bimba di 18 anni, felice e spensierata all'ascolto di tanta bellezza. 
Grande band al seguito: Regina Carter al violino, mai leziosa e sempre attenta; l'onnipresente Sue Hadjopoulos alle percussioni, un marchio di fabbrica del Joe Jackson' style; l'androgina Allison Cornell alle tastiere e alla voce (e alla viola), capace di chiacchierare e supportare perfettamente il nostro; Jesse Murphy al basso e alla tuba, iradiddio e al contempo metronomicamente affidabile; Adam Rogers alla chitarra, con l'ombra del suo mentore Mike Brecker che lo coccolava a più riprese (e si sente nei fraseggi tipicamente sassofonizzanti); Nate Smith alla batteria, e che batteria!
Insomma, e alla fine, io il cd me lo compro. Viste le premesse...

13 settembre 2012

il ritiro di Robert Fripp, la fine di un'era

La  notizia è doppiamente dolorosa, sia per il fatto in sé che per il motivo: il 3 agosto scorso, Robert Fripp ha annunciato il suo ritiro.
Partiamo dal secondo motivo: il tentativo (eroico e disperato) da parte di Robert Fripp di tutelare le sue creazioni, di stabilire l'esatto significato di diritto e di autore, di riconoscere agli artisti il pregio del loro impegno, si è scontrato con una major non di poco conto: la Universal Music Group, che di fatto detiene i diritti di pubblicazione di buona parte del suo corpus discografico, e che fa un (bel po') di testa sua.
Da tempo, ormai, Fripp non si sente più vicino alla musica: l'impegno psicologico e fisico profusi contro questa lotta non solo giudiziaria, lo hanno allontanato dal gusto e dalla passione. Il passo è stato quasi una naturale conseguenza.
E il fatto che abbia rilasciato un'intervista (cosa già eccezionale) al Financial Times piuttosto che a riviste specializzate, dimostra sia la mentalità aperta della rivista che le intenzioni concrete del nostro piccolo eroe della chitarra. 
Lo so, adesso vi aspettate la battuta contro i fighetti nostrani. Be', va detto che hanno sottovalutato la notizia, ridicolizzandola, sia perché non conoscono la Storia della Musica, sia perché il mondo che sta uccidendo l'arte è anche il mondo che dà spazio ai mediocri.
È in gioco non solo un destino di un singolo musicista/compositore, ma la mentalità che dovrebbe riconoscere agli artisti i giusti meriti: invece di pretendere tutto (e gratis), bisogna sempre ricordare che dietro un brano musicale bello (quindi Allevi è fuori) c'è un impegno che va premiato e riconosciuto.
Robert Fripp ha sempre lottato per i singoli diritti dei singoli musicisti che hanno lavorato per/con lui. Tant'è che buona parte dei brani dei King Crimson (nelle loro differenti line-up) segnava come autori i singoli musicisti che avevano contribuito anche con una minima idea alla riuscita del brano. Attenzione, non un mero stratagemma per evitare liti interne (usato dai Pink Floyd e dai Queen con modalità differenti), ma un modo pragmatico (e romantico) di riconoscere i meriti dei singoli.
Per quanto Bruford si sia sforzato di "parlar male" di Fripp (le virgolette sono volute, perché sono stato grossolano), nella sua autobiografia gli riconosce sempre questo disperato tentativo di rispettare la musica e i suoi musicisti.
Il (mio) dolore per motivi artistici, invece, parte da mille rivoli della mia memoria di musicista e/o di amante della musica. 
Devo chiarire che amo Fripp non per afflato isterico o da fan senza ratio: chi mi legge da sempre sa che non amo gli ultimi King Crimson (almeno da The ConstruKction of Light in poi, Scarcity incluso), e che mai ho sopportato certe scelte musicali di stanca routine.
Io amo Fripp perché "dice" le cose esattamente come avrei voluto dirle io. E usa esattamente quel suono e quelle note che avrei usato io, se solo fossi stato alla sua incomparabile altezza (la caccoletta che è in me sta ridendo per queste frasi in stile CarmeloBeneappareallaMadonna).
In più, la sua poliedricità, il suo continuo sperimentare, il suo sapere esattamente quando stare zitto (Islands è un suo brano, e non c'è traccia di chitarra), quando accennare (Book of Saturday) e quando sublimare (The Night Watch), quando corcare di botte (Fracture) e quando ridere (tutto Beat, se vogliamo), quando sperimentare in maniera oscura (frippertronics, prima; soundscapes, poi) e quando in maniera diretta (i vari Lark's)... 
E le collobarazioni? Sylvian, Bowie, Gabriel, Byrne, Eno, Porcupine Tree, No-Man. Non esiste stanza musicale che Fripp non abbia perlomeno visitato in questi ultimi 40 anni. Non esiste genere, musicista, complesso, giornalista, che non debbano qualcosa alla sua inventiva e alle sue idee.
E l'approccio? Fripp ha scritto tonnellate di parole. Ma a me restano sempre impresse due pietre miliari del suo pensiero. La prima ("Discipline is never an end in itself, only a means to an end"), è un aforisma laico e potente. La seconda (i King Crimson sono "un modo di fare le cose"), cozza inevitabilmente con i superficiali che lo ricordano solo per l'ellepì con il faccione, dimenticando che la Storia della Musica dice molto altro.
Ragionando fuori da ogni schema, avrei preferito una dipartita drastica, piuttosto che saperlo lì, seduto davanti alla sua chitarra, in solitaria meditazione.

08 maggio 2012

#Hunger, lezione di politica

Hunger è un film intenso, dai tratti quasi "ovvi" quanto necessari (specie nelle crude, asettiche e "artistiche" scene di violenza), che però andrebbe analizzato in una parte che quasi risulta impercettibile: il lungo dialogo tra l'ottimo Fassbender e Liam Cunningham (nella parte del prete); roba veramente di qualità, e utile per capire molte cose.
A volte, cioè, questi momenti di alta sceneggiatura - apparentemente statici (è pur sempre un pianosequenza di 17') - restituiscono pensieri e considerazioni che vanno al di là del tema di partenza.
Il dibattito tra i due, infatti, parte da un presupposto che ha sempre valore da che esiste l'uomo: fino a che punto vale la pena lottare per qualcosa? "La mia idea è molto semplice: e per questa vale la pena di combattere a costo della vita", dice Bobby Sands. Cioè: per difendere un principio di libertà assoluta, sei disposto a negarla con la privazione della tua esistenza?
La cosa interessante è che il prete dibatte con strumenti tutt'altro che religiosi, preoccupandosi più delle sorti della lotta che della vita del singolo uomo. Cioè: che significato politico avrebbe la scelta di Sands? Le conseguenze sarebbero quelle sperate, oppure la Tatcher continuerebbe nel suo comportamento strategicamente corretto (dal suo punto di vista, è ovvio)?
Anzi, per cercare di spostare l'ago della conversazione verso lidi più furbi, il prete utilizza l'arma impropria del dolore che la scelta di Sands causerebbe ai suoi famigliari, specie a suo figlio. Un rimando all'egoismo che quasi condividiamo mentre assistiamo allo scambio, e che poi/però ci fa vergognare di averlo condiviso.
Interessante notare come anche l'oggettiva identità cattolica dei due non venga mai usata come bandiera (vivaddio, verrebbe da dire), quasi fosse cosa scontata e/o implicita e/o inutile. Certo è che la potenza evocativa di questo dialogo costringe il pubblico a parteggiare per l'uno o per l'altro, indipendentemente dalle convinzioni di partenza (e dalla pessima traduzione in fase di doppiaggio).
Un dialogo, insomma, che andrebbe ripetuto nelle scuole e nei consessi dei nostri partiti (anche dei farlocconi a 5Stelle) perché riassume nitidamente la necessità della chiarezza, del documentarsi e documentare, del sapere quando è giusto agire in un modo anziché in un altro, di essere pragmaticamente proiettati nel futuro prossimo... insomma, un esercizio di intelligenze a confronto, che merita veramente rispetto e considerazione.
Sicuramente "vince" Sands, non tanto perché sappiamo "come va a finire", ma perché l'allegorico racconto del cavallo sembra più convincente, il giusto compromesso (se di compromesso vogliamo parlare) tra la poesia della lotta e la prosa della quotidiana fatica per amministrare le conquiste.

04 aprile 2012

il sangue di peter gabriel

Complice un'iniziativa editoriale conveniente, ho acquistato la penultima fatica di Peter Gabriel. Più ombre che luci, e anche un po' di noia.
Va detto che sono abbastanza aperto alle autorivisitazioni, e non credo che l'aggiunta di un ensemble di archi debba per forza mortificare un brano pop, rock o d'avanguardia. Anzi, Scratch My Back proponeva dei momenti veramente intriganti, in cui letteralmente certi brani venivano riscoperti, o addirittura scoperti del tutto. 
Credo che operazioni del genere, specie se non si è pressati da motivi economici o da obbligate scadenze contrattuali, possano servire all'artista per raccontare le parti nascoste di brani già noti. Complice il fatto oggettivo, cioè, che il proprio pubblico conosce già certe linee melodiche, ci si può giocare sopra, lavorando anche di destabilizzazioni, di riempire i vuoti lasciati in precedenza e di svuotare invece i momenti precedentemente troppo densi. 
Qui, invece, siamo all'approssimazione pura. Ma non quella deliziosa del rock nostalgico: semplicemente c'è poco rischio, molta omogeneità, addirittura momenti che potrebbero decollare (cfr In Your Eyes) e che invece si schiantano nell'angolino comodo dell'ammiccante e del già sentito. E poi, diamine!, le voci femminili sono veramente brutte, ma brutte brutte brutte. E, per restare nell'ambito dell'arrangiamento, si sente la mancanza del basso compulsivo di Tony Levin e delle savaneggianti ritmiche di Manu Katché. Se mi vuoi far dimenticare gli arrangiamenti originali, tutto questa furbizia è un male: non mi devi costringere al "meglio prima"; altrimenti, che operazione è?
A un personaggio come Peter Gabriel si vuole bene sempre, anche quando svacca. Però, dopo quest'operazione, per un po' di tempo non gli rivolgerò la parola. Speriamo che non si offenda.

21 febbraio 2012

keith richards, life

Credo che il folletto dei Rolling Stones appartenga a quella rara categoria di persone che ti stanno simpatiche comunque, qualsiasi cosa facciano. E questo nonostante Johnny Depp abbia provato a demolirlo con un personaggio prima azzeccato, e dopo, un (bel) po' stucchevole.
Questa autobiografia è notevole, per almeno due motivi. Il primo è squisitamente personale: Richards si dimostra umile, intelligente, per nulla disinibito, incredibilmente capace di parlare delle droghe con un approccio tutt'altro che moralisticheggiante, ma nel contempo di condanna assoluta. 
Eppoi è quasi educativo vederlo alle prese con numerosi mostri sacri e riuscire a dire la sua senza scomporsi più di tanto (e vivaddio non si lascia trascinare dalla solita solfa di reverenza beatlesiana).
Il secondo motivo è musicale, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello storico. Richards, cioè, indica e suggerisce un'incredibile quantità di dettagli musicali, utili sia al neofita che all'appassionato, non tralasciando anche l'aspetto storico, raccontando cioè un'Inghilterra e una Storia della Musica che raramente avevo letto con così tanta minuzia di particolari.
Rispetto, insomma, alle precedenti biografie stonesiane siamo di fronte a una persona consapevole del personaggio che è, di quello che faceva, di quello che stava accadendo.
Eppoi, alla fine, è un libro divertente, molto divertente. Le mille vite vissute, le incredibili peripezie che lo hanno visto più volte faccia a faccia con la morte (solo la storia del camion militare con tanto di missile, vale l'acquisto), il giudizio severo (e affettuoso) contro i due Brian Jones e Mick Jagger, l'amore per il blues, la capacità di innamorarsi... e poi, nota commovente, il dolore per la perdita del figlio.
Se questa Italia non fosse bacchettona e ipocrita, lo consiglierei alle scuole: la seduzione delle droghe viene meno, e una certa indipendenza mentale diventerebbe invece esemplare.

07 luglio 2011

scarcity of Crimson

Scarcity Of Miracles dei "quasi King Crimson" suona nel mio iPod da giorni, e non so ancora dire se mi sia piaciuto o no.
Premetto che ho trovato bruttini assai gli ultimi lavori dei Crimson: da ConstruKction in poi, mi sono sempre più sentito a disagio, quasi ascoltassi dei vecchietti reprobi che si ostinavano a portare avanti una Ferrari, ma al centro dell’autostrada, a tre all’ora, senza voler far passare nessuno, se non l’ombra dei ricordi.
Intendiamoci: in linea generale ha senso che un musicista termini fisiologicamente la sua parabola (Gabriel è finito da almeno quindici anni, come anche David Bowie - dai tempi di Outside); però te lo aspetti, lo accetti, e continui a comprare i suoi dischi più per affetto che per reale convinzione.
Però per Fripp è stato diverso. Per motivi storici, non affettivi: quando lo davi per finito, BUM!, tirava fuori dal suo cervellone qualcosa di nuovo, di diverso, di innovativo. Difficile elencare, cioè, quante volte il megaFripp sia passato dalla polvere all’altare, ma ogni volta è accaduto con rara eleganza, con un senso della misura veramente esaltante, con una capacità di rinnovare tutto quanto toccava, pur restando ormai dentro quelle sue scale, quei suoi suoni, quegli accordi e quei ritmismi che ti fanno dire “questo è Bob, il Re Cremisi di sempre... ma anche di più”.
Difficile, insomma, essere all’avanguardia, saper pure invecchiare e nello stesso tempo continuare ad innovare un panorama musicale mondiale veramente sciapo e asfittico da almeno dieci anni (se non di più). Eppure Fripp ci è sempre riuscito; eppure in questo Scarcity ci son cose che non mi tornano.
La prima, è la voce di Jakko: insopportabile. Sembra quasi l’acido ascorbico: rende i sapori tutti uguali, che sia dentro una lattina di buona birra o in un succo di frutta; alla fine, hanno sempre lo stesso sapore. Voce che peraltro manca totalmente di elegia (come quella di Lake), di locale fumoso (Haskell), di cazzone passato per caso (Burrell), di perfezione assoluta (Wetton, dio lo benedica sempre), di strafottenza illuminata (Belew).
La seconda, è il bassismo stralunato di Levin. Per carità non mi aspettavo il suo solito slapping: ma ogni tanto va dove Harrison non arriva, oppure non lo completa come sapeva solo fare con Bruford (non parlo di Mastellotto, perché per me non è stato un batterista, ma uno scaricatore di porto… con tutto il rispetto…).
La terza è Harrison: sembra che Fripp lo abbia piazzato solo per dargli un po’ di spazio. Non c’è il mistico e canonico batterismo Crimsoniano, che assume il ruolo di vero e proprio strumento musicale. Harrison sa fare cose egregie, per carità (cfr i Porcupine Tree); qui, però, si limita a una presenza professionista ma non professionale.
La quarta è Fripp stesso: non c’è un solista in linea che sia uno. Bob ci ha sempre abituati a chitarre perfette, perfettamente messe in asse dentro strutture perfette (a dirla pesante: è quadrato com'è quadrato Bach... ma che quadratura!). A differenza di tutti i slasher, Fripp era così slasher da non farlo mai capire fino in fondo (forse in Larks parte III lo si percepisce totalmente; altro che Schizoid o Starless). E proprio per questo sapeva quando zittire la sua chitarra e quando farla parlare. Qui, Fripp sembra voler evitare la sua perfezione, dando troppo spazio a soundscape e poco al suo suono-sega, ai suoi temporanei periodare così intriganti.
Last but not least, il sopranino di Collins. Insopportabile. Te lo trovi ovunque come il prezzemolo. Ora, secondo le note di copertina, il progetto sarebbe frutto di continue improvvisazioni (come, in fondo, è sempre stato l’approccio crimsoniano): ma qui qualcuno doveva dire a Collins di darsi una calmata; oppure in fase di postproduzione, il buon Fripp doveva tagliuzzarlo a dovere (per dirne una: il Clemons di Jungleland è frutto di postproduzione, altroché). Macché, è un continuo giochicchiare di scalette insopportabili.
Paradossalmente, dopo tutte queste mie mazzate, il cd va bene per chi cerca il Sylvian meno serioso (la title track è un ottimo esempio, ed è l'unica cosa che salverei), per chi ama il pop più sofisticato e ricercato, per chi ama quell’insostenibile mondo dell’inutile chiamato “meditazione”. 
Ma per chi ama il Fripp che sa sempre guardare oltre, il Fripp che osa, il Fripp, insomma, che atterra e suscita, che affanna e che consola… meglio lasciar perdere. 

07 febbraio 2011

il discorso del re

Film notevole questo Il discorso del re.
Ricco di sostanza e di gusto sofisticato ma mai zuccheroso, segue una parabola narrativa perfetta e ben delineata. Regia sobria, recitazione precisa (meglio vederlo in inglese), fotografia mai invadente e ben misurata, tempi narrativi da manuale.
Ad essere petulanti, mi sovviene una sola domanda: che senso ha selezionare le musiche di Beethoven e Mozart per i momenti topici della trama?
Voglio dire: la Settima Sinfonia e il Concerto Imperatore del tedesco Ludovico van, Le Nozze di Figaro e il Concerto per clarinetto e orchestra dell'austriaco Mozart, sono tra le pagine più sublimi della Storia dell'Uomo.
Ma se si voleva dare totale dignità alla forma e alla sostanza della vittoria di Re Giorgio VI contro la sua balbuzie, enfatizzandola con musiche precise, perché rivolgersi a compositori contestualmente del "nemico"?
Certo, la tradizione musicale britannica non è altrettanto potente. Giusto Purcell ha fatto qualcosa di analogo ai due supereroi sopra citati (e non scomodiamo Händel, perché era di origini tedesche): però in questi casi ci si deve spremere, o scrivendo componimenti originali o andando a scovare qualcosa di meno noto, però nazionalistico e comunque intenso.
Insomma, il film è bellissimo: ha però questo neo musicale che proprio non riesco a digerire. Il regista se ne farà una ragione...?

Per la gioia degli appassionati, ecco il discorso originale:



E questo è il trailer del film:

18 gennaio 2011

chance the gardener

Vedere film del passato, magari in un momento "no", comunque in compagnia della propria compagna/amante/amica è un'esperienza notevole, indimenticabile, tra le poche che mi fanno ritenere che nonostante tutto sono una persona fortunata, se non privilegiata a poter condividere certe cose con la giusta persona giusta.
Se poi il film in questione è Oltre il giardino, allora la perfezione è quasi assoulta.
Le gesta di Chance il Giardiniere riescono ad essere doppiamente istruttive: vuoi perché denunciano nitidamente la stupidità della gente che si ritiene intelligente, vuoi perché la gente che riteniamo stupida sa essere più profonda di noi che ci riteniamo intelligenti.
Quanto è attuale, insomma, il comportamento degli stolti che circondano Chance; e quanto è attuale la necessità della leggerezza che Chance vive con disarmante naturalezza.
In tutto questo, aggiungeteci la potenza recitativa di Peter Sellers, costretto a lavorare di fino, senza giocare sulla mimica, né su toni concitati; obbligato quindi alla sottrazione, al non detto, al nulla più assoluto.