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18 dicembre 2020

IL BOOK CLUB DI DAVID BOWIE

Uno degli ennemila pregi di David Bowie era il suo smisurato amore per la lettura, viscerale e senza pregiudizi di alcun tipo. Non che leggesse tutto, figuriamoci: aveva, cioè, una sua intricata guida interiore, ma era aperta e disponibile a infinite avventure letterarie.
Nel 2013 stilò la lista dei 100 libri che più lo avevano influenzato. Attenzione: "influenzato", non "piaciuti". Il che è anche un'opera di onestà intellettuale, visto che spesso se proviamo a rivedere anche noi i nostri libri del passato potremmo considerarli ingenui o addirittura sentirci ridicoli. 
"Influenzato" significava saper percorrere una strada intellettuale umile, addirittura rischiosa, e poi ritrovarsi con una mente nuova, con nuovi stimoli e tanta ricchezza interiore che quasi non si sa come onorarla, ricordarla.
Questo libro parla di questi 100 libri, grazie alla penna coraggiosa di John O'Connell: con un approccio personalissimo quanto entusiasmante, in massimo due pagine sintetizza un titolo, poi come influenzò la cultura del tempo, quindi come fu recepito da David Bowie, dunque come si riverberò nelle sue canzoni, infine quale canzone di Bowie stesso potrebbe affiancare la lettura del libro e quale libro sia potenzialmente affine al titolo recensito.
Un'operazione rischiosa, ma che è riuscita più che bene, altroché: stile fluido, ricco di riferimenti azzeccati e ben scritti, ironia, competenza, documentazione, conoscenza sia del libro recensito che della bio-discografia di David Bowie. Mai una sbavatura o una parola di troppo, mai un momento di stanca, molta profondità, ma anche molta leggerezza tipicamente british. Una delizia, insomma.
Alla fine, il lettore si ritrova tra le mani una guida ragionata a ottimi libri, uno scorcio intrigante sulla vita di David Bowie, un modo originale e intelligente di raccontare la vita di un genio senza indugiare nei personalismi o nell'agiografia pretestuosa.
A latere: confezione e grafica bellissime. Ne consiglio vivamente la lettura, ma anche la ri-lettura.


Interviste a Francis Bacon di David Sylvester
Billy Liar di Keith Waterhouse
Room At The Top di John Braine
La via senza testa di Douglas Harding
Furoreggiava Kafka di Anatole Broyard
Arancia Meccanica di Anthony Burgess
Città di notte di John Rechy
La breve favolosa vita di Oscar Wao di Junot Diaz
Madame Bovary di Gustave Flaubert
Iliade di Omero
Mentre morivo di William Faulkner
Tadanori Yokoo di Tadanori Yokoo
Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin
Nel ventre della balena di George Orwell
Il signor Norris se ne va di Christopher Isherwood
Dizionario dei soggetti e dei simboli nell'arte di James A. Hall
David Bomberg di Richard Cork
Blast di Wyndham Lewis
Passing di Nella Larsen
Oltre il Brillo Box di Arthur C. Danto
Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza di Julian Jaynes
Nel castello di Barbablù di George Steiner
Hawksmoor di Peter Ackroyd
L'io diviso di R. D. Laing
Lo straniero di Albert Camus
Infants Of The Spring di Wallace Thurman
Riflessioni su Christa T. di Christa Wolf
Le vie dei canti di Bruce Chatwin
Notti al circo di Angela Carter
Il Maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov
Gli anni fulgenti di miss Brodie di Muriel Spark
Lolita di Vladimir Nabokov
Herzog di Saul Bellow
Puckoon di Spike Milligan
Ragazzo nero di Richard Wright
Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald
Il sapore della gloria di Yukio Mishima
Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler
La terra desolata di T.S. Eliot
McTeague di Frank Norris
Money di Martin Amis
The Outsider di Colin Wilson
Strange People di Frank Edwards
English Journey di J.B. Priestley
Una banda di idioti di John Kennedy Toole
Il giorno della locusta di Nathanael West
1984 di George Orwell
The Life And Times Of Little Richard di Charles White
Awopbopaloobop Alopbamboom: The Golden Age of Rock di Nik Cohn
Mystery Train di Greil Marcus
Beano (comic, ’50s)
Raw (comic, ’80s)
Rumore bianco di Don DeLillo
Sweet soul music. Il rhythm'n'blues e l'emancipazione dei neri d'America di Peter Guralnick
Silenzio di John Cage
Writers At Work: The Paris Review Interviews di Malcolm Cowley
The Sound Of The City: The Rise Of Rock And Roll di Charlie Gillete
Octobriana And The Russian Underground di Petr Sadecky
La strada di Ann Petry
Wonder Boys di Michael Chabon
Ultima fermata a Brooklyn di Hubert Selby, Jr.
Storia del popolo americano di Howard Zinn
The Age Of American Unreason di Susan Jacoby
Metropolitan Life di Fran Lebowitz
La sponda dell'utopia di Tom Stoppard
Il ponte di Hart Crane
All The Emperor’s Horses di David Kidd
Ladra di Sarah Waters
Gli strumenti delle tenebre di Anthony Burgess
Il 42° parallelo di John Dos Passos
Racconti di Gloria Beatnik di Ed Sanders
The Bird Artist di Howard Norman
Nowhere To Run The Story Of Soul Music di Gerri Hirshey
Before The Deluge di Otto Friedrich
Sexual Personae: Art And Decadence From Nefertiti To Emily Dickinson di Camille Paglia
The American Way Of Death di Jessica Mitford
A sangue freddo di Truman Capote
Lady Chatterly’s Lover di D.H. Lawrence
L'invenzione dei giovani di Jon Savage
Corpi vili di Evelyn Waugh
I persuasori occulti di Vance Packard
La prossima volta, il fuoco di James Baldwin
Viz (comic, early ’80s)
Private Eye (satirical magazine, ’60s – ’80s)
Selected Poems di Frank O’Hara
Processo a Henry Kissinger di Christopher Hitchens
Il pappagallo di Flaubert di Julian Barnes
I canti di Maldodor di Comte de Lautréamont
Sulla strada di Jack Kerouac
Il gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson di Lawrence Weschler
Zanoni: Storia di un Rosacroce di Edward Bulwer-Lytton
Il dogma dell'alta magia & Il rituale dell'alta magia di Eliphas Lévi
I vangeli gnostici di Elaine Pagels
Il gattopardo di Giuseppe Tomasi Di Lampedusa
La Divina Commedia. Inferno di Dante Alighieri
A Grave for a Dolphin di Alberto Denti di Pirajno
The Insult di Rupert Thomson
Racconti: Primo amore, ultimi riti. Fra le lenzuola di Ian McEwan
La tragedia di un popolo di Orlando Figes
Journey Into The Whirlwind di Eugenia Ginzburg    

18 maggio 2017

Times are gone for honest men, dear Chris Cornell

Maggio 1995, sono chiuso in un ospedale: ne avrò per cinque mesi pressoché consecutivi. Siamo gli unici quattro malati di tutto il padiglione con problemi veri e seri di salute. Tra noi c'è un'intesa spontanea, quasi cameratesca.
Uno di questi è un giovanissimo bassista hard rock: ascolta la musica dal suo walkman ad altissimo volute, addirittura con le cuffie senza spugne, "perché voglio sentire tutto".

Mentre parla e straparla, da quel walkman parte
Stuttering, cold and damp
Steal the warm wind tired friend
Times are gone for honest men
And sometimes far too long for snakes
In my shoes, a walking sleep
And my youth I pray to keep
Heaven sent hell away
No one sings like you anymore
Black hole sun
Won't you come
And wash away the rain
Black hole sun
Won't you come
Won't you come
È il mio primo incontro con Chris Cornell.
Uomo di rara bellezza e di incredibile vocalità, era tra i pochi rappresentanti del cosiddetto grunge ad essere uscito bene dal "copia-e-scopiazza Neil Young": proponeva, cioè, una musica che sapeva rispettare quella del passato e nel contempo indicare nuovi orizzonti sonori.
Coraggioso, arguto, sensibile, forse cinico, col suo Euphoria Morning mi aprì l'anima, ci entrò dentro e ci sguazzò per mesi, senza mai farmi male, ma lasciandomi un languore e una nostaglia-del-non-so-cosa che ancora oggi sento vibrare in qualche antro nascosto della mia coscienza.
Chris Cornell sapeva essere violento, seducente, sensibile, assoluto, intimo e popolare. E insieme a Live And Let Die dei Wings, il suo opening di Casino Royale resta tra i più devastanti che abbia mai aperto le gesta di 007.

Se l'altro anno abbiamo perso un padre, anzi IL padre, David Bowie; quest'anno è venuto a mancare un fratello.
So long Chris Cornell

28 gennaio 2017

intorno al saggio personale di Simon Critchley su David Bowie

Quello di Simon Critchley è un libro bello, a tratti commovente, sicuramente stimolante, ogni tanto anche istruttivo.
Appartiene a quel filone di libri densi-ma-comprensibili che solo gli anglosassoni sanno scrivere con invidiabile disinvoltura; addirittura riesce a coniugare la prospettiva personale con quella del dotto e acuto filosofo che sa leggere e interpretare ben oltre le solite canoniche visioni crociane che tanto ammorbano invece i saggi nostrani.
Oltretutto, e qui sta il vero punto, l'autore ammette platealmente di forzare la mano, di entrare nell'opera omnia di David Bowie con fare fazioso e filtrato dalle proprie passioni.
Utilizza cioè la premessa di una "personalissima opinione", assumendosene la responsabilità. Se ci pensate bene, quando noi italici diciamo "personalissima opinione", ci releghiamo in un ipotetico angolo, quasi come se l'avere un'opinione personale sia un reato da ammettere preventivamente. È un comportamento che mi sfugge e che addirittura mi irrita.
E la cosa ancora più seccante è che quando scriviamo saggi assimilabili a quello di Critchley, anziché avere l'onestà intellettuale di premettere tale attitudine - ma con fierezza, diamine - ci sproloquiamo addosso con frasone ad effetto, magari con la protervia dello "spiegare bene" perché tanto gli altri non ne hanno la capacità naturale di spiegarselo da soli.
Abbiamo, cioè, la strana visione distorta che la nostra documentazione (spesso facile e affrettata, peraltro) sia l'unica e incontrovertibile, anche quando i fatti ci darebbero torto. È capitato recentemente a Donato Zoppo quando ha scritto il suo pessimo saggio sui testi dei King Crimson, càpita nel giornalismo nostrano quando ilPost o Wired salgono in cattedra deformando la realtà in base a un preconcetto di comodo di partenza.
Il tutto è un miscuglio di faziosismi non ammessi, di ricerche di parte, di letture forzate, di pervicace uccisione della realtà reale.
Quand'ho letto Critchley, non mi sono sentito un cretino trattato da cretino: mi sono sentito a casa, in salotto, con del buon Laphroaig nel bicchiere, in compagnia di un amico che mi ha accompagnato dentro la sua vita e dentro la musica di David Bowie, e dentro la sua vita accompagnata dalla musica di David Bowie, ma anche dentro la musica di David Bowie come stimolo per viaggiare dentro il mondo e la mente di David Bowie stesso.
E mentre leggevo, scoprivo cose in comune con questo amico immaginario, ma soprattutto mi riempivo di dubbi, di incertezze sia musicali che personali, con una irrefrenabile voglia di riascoltare certi brani, di rileggere certe parti del libro, di andare oltre cioè la dottrina tipicamente propedeutica e rigida del saggismo all'italiana.
E, ciliegina sulla torta, è un testo pubblicato da Il Mulino, che non mi sembra una casa editrice così elastica e disposta verso le frontiere aperte e coraggiose di David Bowie, uno dei più grandi geni della musica di sempre.

17 gennaio 2016

la mia vita ai tempi di David Bowie (che poi ognuno lo ha avuto solo per sé)

Sto subendo qualcosa di astratto dalla morte di David Bowie, che non riesco ancora a concretizzare: l'ho rifiutata mentalmente prima che emotivamente, perché è sempre appartenuto alla mia vita di ogni giorno. E me ne sto accorgendo solo adesso.È come quei cari rari amici che incontri una volta all'anno, magari ogni due, ma che sembra ieri ti ci eri congedato, e allora ti ci sciogli immediatamente insieme davanti a un bel bicchiere di vino.È quell'amico con cui sghignazzi per delle sciocchezze, e la gente o tua moglie ti guardano prendendoti per scemo perché loro ti vedono da solo al tavolo, mentre tu sai che c'è David Bowie con te, che ammicca complicità da ogni poro.C'è qualcosa di infinitamente amaro nella morte di un amico così presente e intimo, che ha fatto parte dei miei sorrisi e delle mie lacrime, e che mi ha sempre tenuto per mano (e non solo dentro la mia immaginazione, ne sono aancora convinto). E anche se non me lo voglio ancora dire, spero che neanche la sua morte possa allontanarlo dalle nostre consuetudini.
Eppure è la Morte che dà significato a ogni cosa.
E allora le canzoni di David Bowie, canzoni che sono solo mie, ma che nel contempo sono anche solo vostre, diventano timbri nella memoria, tatuaggi evocativi.
E dire che ho sempre creduto che una canzone non avesse diritto di rappresentare un ricordo: una canzone è arte, non egoismo autoreferenziale. Eppure solo David Bowie ha saputo entrare nei miei ricordi, partecipando alle mie sensazioni; dolorose, gioiose, forti e deboli... all'istante.
Non passava momento che non mi sentissi quasi in dovere di informarlo dei miei passi nel mondo, prendendo in mano i suoi dischi per raccontare loro quali eventi stavano diventando nodali nei miei persempre. E lui là, sornione, al di fuori di me ma comunque mio fedele compagno, pronto e generoso a rispondere, sempre disponibile ad accettare ogni più intrinseca e inestricabile confidenza nella sua immensa partitura musicale.Di fronte ai drammi epocali che mietono vittime e spostano le curve della Storia si dice sempre "niente sarà più come prima".
A me sta accadendo la stessa cosa per qualcosa di più semplice, di più terreno: da giorni, ormai, c'è un bicchiere di vino sul tavolo del mio salotto... e nessuno che voglia condividerlo con me.

26 gennaio 2015

Ciao Edgar Froese

Che questo pianeta sia bislacco, lo dimostra il fatto che solo oggi sui giornali è apparsa la notizia della morte di Edgar Froese
Ed è ancora più triste immaginare il vostro legittimo "... e chi è?".
Mettiamola così: se non ci fossero stati i suoi Tangerine Dream, oggi non parleremmo di Pink Floyd e di David Bowie, o di William Friedkin e Werner Herzog... per buttare giù i primi nomi che mi vengono in mente.
I Tangerine Dream non solo sono stati tra i pionieri della musica elettronica, ma qualcosa di più: sono riusciti, cioè, a coniugare con rara sapienza e maestria lo sperimentalismo più estremo con un saper raccontare storie musicali perlomeno in maniera popolare, o comunque virtualmente accessibili a tutti.
Possiamo discutere per ore se la musica elettronica possa essere o no "potabile", ma dovremo sempre e comunque qualcosa ai Tangerine Dream. Ed Edgar Froese ne è stato valido sacerdote e onniscente protagonista (l'unico presente in tutte le multiformi formazioni).
Dai 103 album (più 34 colonne sonore) risulta difficile proporvi qualcosa, per almeno due motivi: le opere degli anni '70 sono molto dilatate e forse datate; fornire degli assaggi musicali è sempre rischioso, perché per essere ammiccanti si rischia di essere scorretti.
Però vi posso assicurare che se provaste a esplorare cose come Logos o come Livemiles potreste già farvi un'idea dei due estremi compositivi. 
Certo, le primissime prove sono più genuine di Thief; però è l'idea Tangerine Dream a essere rimasta sempre intatta, coerente con se stessa. 
Ciao, Edgar Froese, che la terra ti sia lieve.


22 gennaio 2010

Peter Gabriel scende tra noi

L'uomo sorprende sempre.
Il 15 febbraio esce il suo nuovo lavoro, ma di cover, di canzoni altrui insomma, prodotte e arrangiate per orchestra da Bob "The Wall" Ezrin (niente chitarre, bassi o batterie).
Il titolo del lavoro (Scratch My Back) è lunghissimo rispetto agli standard cui eravamo abituati.
L'idea originaria prevede(rebbe) uno scambio di l(f)avori: lui canta classici degli altri e gli altri quelli suoi.
Nonostante in genere il ritardatario sia lui, questa volta ha preceduto tutti, mentre tutti sono ancora al palo e non hanno ricambiato il favore. Certo, Bowie si è ritirato (causa cuore scricchiolante), ma gli altri devono rispondere. 
Ecco la lista
  1. "Heroes" (David Bowie)
  2. "The Boy in the Bubble" (Paul Simon)
  3. "Mirrorball" (Elbow)
  4. "Flume" (Bon Iver)
  5. "Listening Wind" (Talking Heads)
  6. "The Power of the Heart" (Lou Reed)
  7. "My Body Is a Cage" (Arcade Fire)
  8. "The Book of Love" (The Magnetic Fields)
  9. "I Think It's Going to Rain Today" (Randy Newman)
  10. "Après moi" (Regina Spektor)
  11. "Philadelphia" (Neil Young)
  12. "Street Spirit (Fade Out)" (Radiohead)
Se cliccate qui potrete ascoltarne qualche estratto, presentato dalla sua voce sempre calda sempre affettuosa.
Dimenticavo: è previsto un tour. Per ora delle nostre città nessuna traccia, ma sarebbe veramente interessante ascoltare i suoi classici riarrangiati per pianoforte e orchestra. Brrrrr....

11 giugno 2009

trilogia berlinese

Di tutti i libri dedicati alla storia della musica, questo è quello che più stavo aspettando. Ed è un ottimo testo.
La storia della musica, di tutta la Musica, passa per questo particolare periodo storico (anni '70 o giù di lì), quando cioè David Bowie, gonfio di coca e di manie varie, decide di rintanarsi nell'allora divisa capitale tedesca, per scappare dai suoi incubi e per inventare qualcosa di diverso, di insolito.
Bowie compie un'operazione incredibile, perché riesce a fondere le grandi tradizioni soul, pop e rock insieme alle novità elettroniche portate avanti dai Tangerine Dream (allora molto cerebrali), dai Popol Vuh (i più "coerenti") e dai Kraftwerk (i più rivoluzionari).
Ne nasce un trittico di (capo)lavori che ancora oggi si dimostra moderno e ricco di spunti per il futuro. Tra i collaboratori, si sa, figura l'immarcescibile Brian Eno. Mentre tra i collaboratori registriamo il monumento Robert Fripp.
Che poi parlare di trittico è forse inappropriato, visto che l'ultimo, Lodger, è il meno berlinese dei tre (anche se risente delle sperimentazioni lasciate a metà durante la lavorazione di Low e Heroes).
L'autore del testo si dimostra ben documentato e molto acuto, oltreché capace di saper raccontare il tutto con profonda semplicità e delicata ironia. Oltretutto va ben oltre altri testi e interviste già noti, riuscendo a regalarci un documento imprenscindibile anche per chi non fosse poi così interessato all'argomento.

09 aprile 2008

in the port of amsterdam...

Poco più di due anni fa dedicai un post alla città di Amsterdam, una meraviglia di eleganza, civiltà e modernità.
Mi aveva colpito soprattutto la sua capacità di essere sorniona e maestosa al tempo stesso, quasi non fosse necessario autosottolinearsi i propri pregi e le proprie qualità.
Per provare alcuni passaggi con un programma casalingo, ho ripreso quelle vecchie ingenue foto casalinghe e ne ho fatto un video, veramente sciocco e facilone.
Però come canta David Bowie il classico di Jacques Brel, non lo canta nessuno.
Se le foto fanno pena, e il montaggio è quello che è, vale la pena perdere tre minuti per lasciarsi cullare da questa meravigliosa canzone.




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14 gennaio 2006

dal Kenya con furore

Come sicuramente saprete, sono stato in Kenya, non nella villa di Briatore né tantomeno conoscevo alla lontana quella poveraccia che è stata uccisa. Intendiamoci: è più facile essere investiti da una Smart in via del Corso che essere aggrediti a Malindi. Ma questo i giornali non lo diranno mai. È anche vero, però, che se vai in giro alle due di notte, in uno dei posti più malfamati del mondo, vestito in maniera vistosa, con ammennicoli vari al collo, magari vociando… prima o poi ti fanno a pezzi. Oltretutto gli italiani non sono ben visti in Kenya, come invece si usa dire. Il motivo è semplice: allora i craxisti ne han fatte di cotte e di crude; oggi i kenioti continuiamo a sfruttarli fino al midollo; eppoi in fatto di turismo sessuale siamo i primi della lista.

Del resto i beach boys (non i cantanti… vengono chiamati così i bambini poveri di quelle parti) ti vengono incontro da ogni dove e ti propongono di tutto: dal portachiavi in mogano al safari sòla, passando per il loro corpicino… in più, nei resort gestiti da italiani, nessuno ti avverte cosa è intelligente fare e cosa no (al di là delle precauzioni di rito). Se dici che prenderai un taxi per andare di sera a Malindi o a Mombasa, tutt’al più ti chiedono le chiavi della stanza, ma nessuno si sogna di scoraggiarti o di darti delle linee guida. “Ci son tanti italiani”, ti vien detto, “è pericoloso né più né meno che a Roma”, ti vien sussurrato...

Diciamola tutta: sarà pure da coglioni fare certe vacanze, ma è anche vero che ai tour operator interessa ben poco la tua sorte, anche a quelli ritenuti seri. Per dirne una: vi siete mai chiesti perché tutti gli italiani che in questi anni son stati rapiti in Yemen erano con Avv*****...?

Ma adesso parliamo di cose divertenti. Se andate nel resort dove siamo stati io e Silvia, dovete essere accompagnati da qualcuno con cui avete molta confidenza, perché il primo dramma accade proprio in bagno: qualsiasi cosa espletiate… resta là. Non c’è verso di tirare l’acqua: lui vi guarda sorridente e non si schioda.

A noi è capitato pure un capovillaggio con psoriasi a passo di carica, forfora a sacchi, piedi con unghie ricurve. Un bel tipo, insomma, che amava lumare le pupe rifatte, mentre ignorava tutte le altre. Vi chiederete se fosse un postaccio. No! C’era pure la Sciarelli, quella di “Chi l’ha visto?”. Una giornalista, quindi. E da che mondo e mondo i giornalisti queste cose non le sbagliano.

La spiaggia fa paura, nel senso buono del termine. Il perché è semplice. L’Oceano Indiano (perché si chiami così anche in Africa è un mistero) ha delle maree spaventose. La barriera corallina dove eravamo noi era lunga 4 km: beh, quando c’era la bassa marea, per 4 km non c’era acqua! Quindi cammini per due ore in mezzo a granchi rincoglioniti, murene rattrappite dal caldo, stelle grosse come meloni e ricci di mare grossi come palle da calcio. Uno spettacolo notevole… al che ho pensato che avrei dovuto tirare l’acqua dello sciacquone solo quando c’era l’alta marea. Ma questo m’è venuto in mente adesso, peccato…

Vi chiederete: hai fatto il safari? Uh, eccome. Oltretutto ho avuto la fortuna di avere un’ottima guida. Ad altri è andata così: un gruppo si è perso nella savana, un altro ha forato tre volte, un altro ancora si è beccato una guida ubriaca che per poco non si schiantava contro un baobab.

Il problema vero son le strade. In confronto, quelle di Roma son rose e fiori. La profondità di una buca keniota varia dai trenta al settanta centimetri, la sua larghezza dai venti centimetri ai due/tre metri. Per fare 250 chilometri abbiamo impiegato quasi quattro ore. Non solo: spesso l’amico al volante andava contromano, fuori strada, ritornava indietro, entrava nei marciapiedi (oddio: parlar di marciapiedi è da filosofi)… roba normale, che lì fanno tutti. Il bello è che ogni tanto incontri camion ribaltati, corriere capovolte, pedoni spiaccicati (non li ho visti, ma fa scena). Le strade, insomma, è come se fossero un’idea, un abbozzo buttato là. L’autista ci ha detto che è colpa dei politici al governo, perché son degli incapaci. Io mi son sentito più sfortunato di lui, visto che da noi anche l’opposizione è piena di incapaci.

Entrati nella savana, diventate tutti più buoni. Il mondo è un’altra cosa, più bello, misterioso… e tu sei piccolo piccolo e di botto ti entra in testa… la musica di John Barry. Cazzo, il cinema colpisce ancora: “La mia Africa” mi ha tormentato per tutto il viaggio. Ma poi, in fondo, è bello vivere queste cose con un po’ di ingenuità cinematografica nelle viscere.

Ho visto il tramonto da una microvilletta in legno appesa su un albero, le cui pareti erano solo zanzariere. Ho visto zebre, giraffe, elefanti, bufali, macachi, facoceri… no, non sto descrivendo la Via del Corso del sabato pomeriggio, ma la savana di Tsavo Est!!!!!! Felini? Niente da fare. Abbiamo ascoltato il guaire dei leoni, abbiamo visto le loro orme, ma niente unghiette pericolose. Peccato… ma poco importa: è stata un’esperienza fantastica, con un tramonto da paura e canti tradizionali kenyoti attorno al fuoco (cui noi, e gli ottimi italiani con cui stavamo, abbiamo risposto con robbbbaccia irripetibile), il respiro della natura tutt’intorno e cose simili…

Abbiamo pure visitato il canonico villaggio Masai, che dalla puzza di letame che promanava non era certo scena per turisti. Certo: ci si chiede come mai vivano vicino alle strade (sempre che si possano definire “strade”). In realtà siamo noi europei che abbiamo costruito le strade accanto a loro, non il contrario. Silvia ha danzato insieme a un gruppo di giovani masai. Loro son alti due metri, Silvia un po’ meno… oltretutto fan salti alti così e atterrano sui talloni (!).

Qualche giorno dopo ci han proposto il safari blu: una sòla colossale. Veniam buttati in una barca piccola così, tipo quella che Doré disegnò con Caronte dentro. Venti persone appiccicate al caldo secco, con un mare egoista di bellezze e pieno di alghe. Veniamo catapultati sopra una lingua di sabbia che vien sopra ad ogni marea, insieme ad altre decine di queste orribili barchette. La chiamano Sardegna 2… pensa te cosa potrà essere la numero 3. Ci vien detto di tuffarci mentre loro corrono in lungo e in largo con questi barchettoni, disputandosi le tre-boe-tre su cui attraccare. Per ben tre volte abbiamo rischiato di essere speronati…

Noi ci siam rifiutati di subir oltre una simile pazzia. Hanno provato ad ammansirci col cibo fresco, servito senza posate e su piatti puliti letteralmente con sputo e fazzoletto per il naso! E dire che qualcuno di noi non voleva usare i loro snorkel per evitare chissà quali malattie! Alla fine, dopo aver sgranocchiato un’aragosta più piccola di un francobollo, ci siam guardati negli occhi e siamo scesi dalla barca per farcela a piedi fino al resort. E l’acqua? Semplice: c’era la bassa marea. Sembravamo tutti alla ricerca del Dottor Livingstone… e in un certo senso l’abbiam trovato.

E già: quando abbiamo fatto il safari terrestre, abbiam pranzato in un possedimento privato immerso nella savana. A cento metri da noi c’erano giraffe e zebre che pascolavano placidamente, incuranti della nostra presenza. Uno spettacolo unico! Mentre eravamo a pranzo, si avvicina una sorta di David Bowie sui 70 anni che, con un inglese da BBC, ci saluta e ci augura ogni bene. Un uomo di altri tempi che di botto aveva cancellato tutte quelle buche infinite e il water sempre pieno e le unghie del capo villaggio e chissà cos’altro.

Beh, prendetemi per un romantico, ma la mia vacanza è negli occhi di quell’uomo fuori dal tempo. Chissenefrega di tutto il resto, le cose brutte e quelle belle, il mio passato e il mio futuro. Io ho visto il Dottor Livingstone, ho visto l’Africa di Hugo Pratt e di Salgari, di Hemingway e di Robert Redford. Un’Africa tutta mia, che magari non esisterà mai… ma che ora rimpiango, qui, da questo computer, da questo piccolo palazzo, affogato in mezzo a mille altri palazzi di Roma.

Che dire? Appena tornato, in edicola c’era la Ballata del Mare Salato con Corto Maltese. Ho tutte le edizioni possibili ed immaginabili, ma alla fine ho comprato anche questa. A qualcuno dovrò pur raccontare la mia Africa, no?

tag: Viaggi, Africa