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20 gennaio 2023

QUANDO I GENESIS PARLARONO DI SE@@O

Il sesso nel rock è così presente e preponderante che quando non se ne parla, quasi ci insospettiamo. In alcuni casi, però, ci sono dei “sottogeneri” che sembrano quasi averne paura o comunque ne parlano in maniera veramente astratta, tanto che te ne accorgi dopo ennetanti ascolti: il rock progressivo, per esempio.

Prendiamo “The Cinema Show” dei Genesis. La prima strofa vede Giulietta prepararsi per il suo primo appuntamento, guarda caso al cinema. La seconda strofa vede, invece, Romeo bricconcellamente consapevole che se rispetterà le giuste tappe potrà vivere una notte di passione.

Poi, però, accade una cosa che al primo ascolto è senza nesso: nel ritornello, Peter Gabriel cambia totalmente argomento, citando l’indovino Tiresia. 

È un passaggio che conoscono anche i non appassionati perché Andrea Camilleri lo usò come apertura del suo ultimo spettacolo teatrale: 

Take a little trip back with father Tiresias/ Listen to the old one speak of all he has lived through / I have crossed between the poles, for me there’s no mystery / Once a man, like the sea I raged / Once a woman, like the earth I gave / But there is in fact more earth than sea.

Cosa diamine c’entra Tiresia, mitologico saggio dei tempi andati?

Considerato che per una leggerezza che aveva commesso, Tiresia era stato costretto per qualche anno a essere una donna per poi ritornare uomo, Zeus ed Era, durante una delle loro oziose litigate, ne approfittano per chiedergli chi prova più piacere nel rapporto sessuale, una donna o un uomo? Tiresia risponde la donna, rivelando quindi un segreto femminile: allora, come ti sbagli, Era lo punisce rendendolo cieco; al contrario, Giove lo ricompensa, rendendolo l’indovino tra gli indovini.

Dopo questa breve passeggiata nella mitologia greca, e rileggendo quindi il ritornello, si comprende il senso della scelta di Peter Gabriel.

E quindi, in soldoni: Romeo e Giulietta vivranno un’indimenticabile notte d’amore? Ascoltando il mitologico assolo di Tony Banks, la risposta è solo una…

28 marzo 2022

NO, NON SONO ANCORA MORTO di Phil Collins

Parlare di questa autobiografia adesso, proprio quando Phil Collins ha annunciato il suo triste ritiro dalle scene, è voluto.
È voluto perché è un libro bellissimo, che va letto proprio a ridosso di questa scelta così dolorosa (con quella foto che primeggia, che fa proprio male): solo così potrete apprezzare al meglio una delle voci più belle che mai abbia avuto il pop, un incredibile batterista (che col tempo ha sacrificato certe sue incredibili capacità), un istrione smisurato, ma totalmente incapace di tirarsela più di tanto. Anzi, sono convinto che se Phil Collins fosse stato furbo e bbbono come il pane, oggi ne parleremmo con un approccio quasi divinatorio.
È un libro a tutto tondo, che affronta le vicissitudini della vita privata, il rapporto con i Genesis, con altri artisti, i suoi mostri interiori. Va detto che sia il processo compositivo che quello meramente tecnico sono purtroppo sacrificati; quasi non se ne parla. Il che, comunque, è un peccato, perché Collins è stato un innovatore, trasformando la batteria in uno strumento leggero, quasi soffuso, altamente spettacolare ma mai fine a se stesso. 
Se volete un esempio, uno tra tanti, seguitelo mentre "corregge" Bill Bruford nel "Cinema Show" eseguito dal vivo e riportato nel monumentale Seconds Out.
Senza suggerirvi di spararvi "Seven Stones", "Can-Utility and the Coastliners" o "Supper's Ready", dove tira fuori dei pattern pazzeschi, provate a seguirlo quando fa le canzoni più semplici, tanto odiate dai noiosissimi filogabrieliani (pallosi come un accordo di Allevi): c'è sempre un'intuizione, un suggerimento, un qualcosa che trasforma persino quel miserrimo 4/4 in una piccola cattedrale di qualità.
Ma Collins è stata anche un'ottima voce, che ha saputo raccontare gli anni '80 con studiata sapienza, riempiendo le nostre giornate con canzoni potenti. Sicuramente, in alcuni momenti ci ha anche sfracassato le scatole con modelli compositivi sovrapponibili, ma sono cosucce che gli si perdona, perché con questo libro Phil Collins ha dimostrato di essere un eccellente modello di umanità; un'umanità così dolce e autentica, che quasi legittima certe uscite leggermente infelici.
Sarà che io sono legato anche a cose facili facili, tipo questa, questa o questa, ma provo un intenso dolore a immaginarlo là, solo con se stesso, incapace di camminare, cantare, suonare.

28 luglio 2020

A GENESIS IN MY BED, l'autobiografia di Steve Hackett (Lizard/Rizzoli)

Le capacità tecniche di Steve Hackett sono inversamente proporzionali alla sua personalità: timido, schivo, umile, ha invece impresso allo strumento una buona dose di tecnica innovativa quanto misurata. Riesce molto difficile, insomma, trovare qualcosa di smaccatamente esemplare per indicare la sua potenza; semmai, è nella struttura stessa delle canzoni - soprattutto in quelle dei Genesis - che si evidenza cotanta capacità.
E anche nella sua autobiografia ritroviamo questa caratteristica: scrittura semplice, a volte naïve, ma racconti interessanti, ricchi di riferimenti, e forse esaurienti nel chiarire alcune diatribe ormai masticate dal tempo.
Quello che si percepisce immediatamente è una propensione quasi "animalesca" nei confronti di Gabriel, un rispetto e una stima amicale per Tony Banks, quasi silenzio per Rutheford (anzi, in un passaggio ci fa quasi la figura dello stronzo).
Per carità, non è un libro proustiano, né tantomeno divertente e ricco come quello di Phil Collins, però è un testo che l'appassionato troverà molto interessante.
Onestamente, avrei preferito maggiori approfondimenti sulla tecnica e sulle canzoni; però credo che Hackett abbia più voluto dire qualcosa a se stesso che al suo pubblico, tanto che la conclusione sembra più il testamento di un vegano mancato che il bilancio di un chitarrista comunque influente.

Manca totalmente una discografia ragionata come anche un indice analitico; ma qui credo sia diretta responsabilità dell'editoria musicale, apparentemente dedicata a chi non acquisterebbe mai libri come questo, piuttosto che a chi questi libri li divorerebbe in una giornata.
Se amate i Genesis e la musica, dategli più che una lettura di sfuggita; altrimenti, vivrete lo stesso.

29 giugno 2015

So long, Chris Squire, and thanks for all the fish

È morto. Non ci sta proprio niente da fare: Chris Squire è morto. Uno dei più grandi bassisti di tutti i tempi, un monumento delle armonie più intriganti, un generoso gigantone ricco di inventiva e di contraddizioni... è morto. Mor-to.
E io non riesco a immaginarmi la storia della musica, la storia della mia adolescenza, senza la presenza di quel terrificante basso che ha spostato oceani, laghi e fiumi, ma soprattutto il mio stomaco. 
Un basso maschio, audace, prepotente, arrogante ma anche dolcissimo, al servizio del gruppo, della musica, dell'insieme... un basso superveloce ma di cui sapevi assaporare con indolenza ogni singola azzeccatissima nota, un musicista che ha portato sulle spalle uno dei complessi più longevi (e più uguali a se stesso) che la storia del rock progressivo ricordi: gli Yes
E non solo di quella, visto che la leggenda vuole che Pastorius sia diventato Pastorius proprio grazie all'ascolto di Chris Squire.
Un basso+voce che è uscito dalla strada risicata di McCartney per sfidare quelle in nuce di Greg Lake, di John Wetton, di Boz Burrell, e di tutti i basso+voce che hanno costellato la storia della musica di Sua Maestà. Un basso che non voleva solo armonizzare la ritmica, ma indicare potenzialità e territori inesplorati dando quindi più spazio (e rischi) a tutti gli altri strumentisti (Howe e Rabin sembravano sempre dover rincorrere le note dal ventesimo tasto in su). 
Se non conoscete quel bassismo così unico, ascoltate Heart Of The Sunrise oppure Yours Is No Disgrace oppure tutta Magnification; opere che resistono ancora oggi all'attacco del tempo, e che forse resisterebbero ancora più se le tastiere avessero suoni meno datati.
Io Chris Squire l'ho conosciuto nella maniera sbagliata: sparandomi, cioè, prima il maledetto Tormato (una schifezza ambulante la cui unica perla è Onward, guarda caso sua), e poi il fastidioso Drama (quello da cui fu presa la sigla del televisivo Disco Ring più riuscito, per intenderci). 
Poi decisi di iniziare con le due bibbie - Fragile e Close To The Edge - e dissi a me stesso "ma chi sono i Genesis?, dei pipponi!". Potete immaginare le discussioni animatissime tra gli "Yes fan" come me e i gabrielani. Divertentissime.
Che poi, tecnicamente gli Yes hanno sempre vantato strumentisti di indubbia qualità tecnica; i Genesis, invece, hanno faticato a uscire dalle ovvietà di certe costruzioni sin troppo autoreferenziali. Gli Yes erano sperimentazione, i Genesis mammolette al servizio dei propri ego. Per carità, voglio bene a entrambi: ma alla lunga io mi perdo nelle complessità così acquatiche del quintetto più terrificante che la musica abbia visto insieme, Anderson, Squire, Howe, Bruford e Wakeman, altroché.
Sfortuna vuole che io abbia visto il primo e i secondi tre in una delle tante avventure musicali collaterali frutto di litigi tra ex-compagni-poi-di-nuovo-non-più. Ma Squire, no, non l'ho mai visto dal vivo. E mi dispiace tantissimo, dio come mi dispiace.
So long, gigantone dal basso bianco. 

09 aprile 2015

Hand. Cannot. Erase. - Steven Wilson azzecca tutto

Se la citazione fosse un'arte, Steven Wilson ne sarebbe il massimo esponente. Attenzione, non stiamo parlando di plagio o di scopiazzamento, ma di influenze musicali che una volta assunte (e ammesse) determinano di fatto la qualità artistica - e anche umana - di un artista. E Wilson è un fior di artista.
È chiaramente debitore dei generi che ama. Ma è riuscito nella rara impresa di sapersi muovere dentro queste influenze, senza rinnegarle, senza negarle, camminandoci accanto, spesso insieme, per poi donarci opere, idee e canzoni, a volte innovative, comunque molto belle, spesso coraggiose perché controcorrente (ma senza la spocchia del fighetto).
Gli riconosco almeno tre grandi pregi, il primo frutto di rara intelligenza: Wilson diversifica intenzionalmente le proprie attitudini musicali, in maniera radicale e riconoscibile (suoi sono i Porcupine Tree, suoi sono i No-Man), dimodoché ogni combo abbia identità e dignità assolute. Del resto, c'è uno specifico e netto file rouge in ognuno dei suoi progetti che li rende ognuno diverso dall'altro.
Il secondo pregio è la tecnica: sa usare le tastiere (ma senza strafare), sa suonare molto bene la chitarra (ma con inusitata misura), sa arrangiare i propri brani con scelte spesso coraggiose.
Il terzo pregio: la voce. La voce di Steven Wilson è un dono di rara purezza.
Devo confessare che alcune sue ultime cose con i Porcupine non mi sono piaciute più di tanto (io adoro Stupid Dream e Lightbulb Sun, per dire), e trovo che alcune sue strutture compositive siano diventate troppo prevedibili, come se avesse scelto di dire la sua solo in quattro/cinque modi, e basta.
Poi, però, appena ho ascoltato questo suo ultimo Hand. Cannot. Erase. sono rimasto folgorato. Un concept album struggente, dolente, dolcissimo e ricco di languore, che ti prende il cuore e la mente e non te li lascia più. Un salto in avanti che mi ha lasciato di stucco.
Il pretesto di partenza è purtroppo reale: racconta di Joyce Vincent, una ragazza con una sua storia, una dignità, aspettative e desideri come tutti noi, che sparì da un giorno all'altro senza dare più notizia di sé, ma soprattutto senza che nessuno - tra amici e parenti - provò a cercarla, contattarla, anche e solo telefonarle... la trovarono nel 2006, morta nel suo appartamento. Peccato che il decesso fosse avvenuto tre anni prima.
Stiamo parlando di una 38enne. Stiamo parlando di una città come Londra!
Wilson ha deciso quindi di raccontare alcuni momenti della vita di Joyce dalla sua ipotetica prospettiva. Insomma, il nostro compositore riesce a raccontare al femminile sentimenti forti e struggenti, uscendo dalla banalità dell'aneddoto per affrontare anche le petulanti costanti della società contemporanea, senza sparare le solite sciocchezze qualunquiste e salottiere, ma con testi decisamente belli e di rara profondità (cliccate qui per godere di una sommaria ma affettuosa traduzione).
Addirittura ha costruito un blog intorno al personaggio (qui in originale, qui tradotto) che vi consiglio di leggere con attenzione.
Per gli appassionati ed esperti, i musicisti che l'accompagnano nel progetto hanno tutti pedigree di indiscutibile qualità (e secondo me hanno pesato moltissimo sulla freschezza innovativa di questo lavoro): tra tutti spicca Adam Holzman, che ha lavorato giusto giusto con Miles Davis.
L'intervista che trovate qui sotto chiarisce molte cose di questo concept (attenzione a come spiega l'origine del titolo), e presenta anche un uomo intellettualmente stimolante, arguto, ancora entusiasta, umile e curioso.
Verso la fine, Steven Wilson spiega il suo sentirsi lontano dal rock progressivo cui spesso la sua musica viene accostata. E in effetti egli ha sempre dimostrato di conoscere e di apprezzare molto altro, non per forza cosi "vecchio" (certo, è anche l'ingegnere che sta ripulendo tutta la discografia dei King Crimson...).
Ebbene, non me ne vorrà se ho fatto le pulci al secondo brano di questo cd - smaccatamente datato (ma anche l'unico che contraddice i suoi distinguo). È un gioco, ovviamente; irriverente quanto affettuoso. Se vi va, prendete il vostro cd e sparatevi 3 years older insieme alla mia guida.



3 years older, un'analisi saccente e irriverente


  • fino a 00:26 siamo di fronte a Watcher of the Skies dei Genesis con un timido riferimento a Livemiles dei Tangerine Dream
  • fino a 00:39 c'è Pete Townshend degli Who di Tommy che incontra i Rush 
  • fino a 00:54 Cinema Show chiama, Steven Wilson risponde
  • fino a 01:00 Genesis e Rush danzano con i Dream Theater
  • fino a 01:28 i Genesis di Cinema Show incontrano gli Yes di Survival
  • fino a 01:50 Yes purissimo, con il bassismo dello stesso Wilson che ricorda Chris Squire, ma più grunge
  • fino a 02:25 i Led Zeppelin e Steve Howe si sono fusi al centro di Londra
  • poi, per pochissimi secondi, con la mente canticchiamo Home, home again... I like to be here when I can che però si fonde - di nuovo! - con Survival degli Yes e con gli stessi Pink Floyd (ma di Obscured by clouds, questa volta)
  • da 02:51 comincia il cantato, dove i Beatles incontreranno costantemente Crosby, Stills e Nash (ed è da sturbo, ammettiamolo)
  • a 03:35 il tema b è una variazione sul tema a che vi fa venire voglia di rispondergli con quel classico controtempo blueseggiante di Hey Joe (provateci, ci sta tutto)
  • e quando entrano le tastiere (un mellotron decisamente azzeccato), torniamo nei binari wilsoniani cui fa da splendido contrappunto una slide guitar (04:14, circa) che porta con sé mille storie di sempre
  • poco prima del ritornellone sparatissimo, se ci fate caso si intrasente una seconda chitarra dal suono cristallino (04:38) che ricorda certe cose di Phil Miller degli Hatfield and the North
  • a 04:50 parte il tipico "ritornellone wilsoniano senza parole" che spari a palla dentro l'auto in mezzo al traffico, che però a me ricorda moltissimo No Opportunity Necessary, No Experience Needed nella versione degli Yes, ma soprattutto The Song Remains the Same dei Led Zeppelin (i più pignoli ci troveranno anche qualcosa di Musical Box dei Genesis)
  • a 05:17 parte un momento pianistico alla Jordan Rudess di Six Degrees of Inner Turbulence
  • dopodiché, troviamo gli stessi topos illustrati finora
  • a 06:50 scomodiamo i Genesis di Trick of the Tail (ma anche gli Opeth)
  • ma da 07:26 parte l'imprevedibile citazione delle citazioni: Van Der Graaf Generator (Pawn Hearts, per la precisione) che poi sbarellano addosso a Keith Emerson
  • da 08:40 si capisce quanto sia abile Steve Wilson a rimettere tutto dove vuole lui e come vuole lui (ecco perché so che non si offende se lo prendo un po' in giro con questo post): un delizioso passaggio di synth inanella una nota suadente dopo l'altra
  • da 09:34 riparte un bassismo alla Chris Squire veramente di qualità 
  • dopodiché, il brano si sgretola per poi trovarsi nella terza traccia

03 febbraio 2015

Senza frontiere. Vita e musica di Peter Gabriel

Finalmente Arcana azzecca una buona biografia musicale, mantenendo al minimo i refusi (meno gravi del solito), poco più che decente la traduzione, e soprattutto aggiungendo alla fine un indice analitico (la discografia completa, invece, è implicitamente e chiaramente schematizzata all'interno del libro). Insomma, un eccellente passo avanti rispetto alle ultime uscite.
Daryl Easlea ha scritto un'ottima biografia su un personaggio musicale che io personalmente ho sempre amato/odiato, trovandolo forse troppo sopravvalutato; sicuramente pionieristico nell'aggiornare o precedere i linguaggi, ma abbastanza statico nello stile. In fondo, ragionandoci sopra con un po' di onestà intellettuale, basta prendere la quarta opera di PG (nota anche come Security) per avere un'idea precisa dei sei/sette paradigmi della sua scrittura musicale. Infatti, escludendo la mirabile eccezione di Passion, le altre opere sembrano abbozzi e tentativi (i primi tre lp), o stanche ripetizioni (da So ad Up passando per lo sconnesso Us)
Al di là del gusto personale, va detto che il libro riesce con raro e preciso equilibrio a raccontarci un'era (più ere) musicale, un complesso storico (i Genesis), personaggi musicali di assoluto rilievo o importanza (Ezrin, Fripp, Rodhes, Levin e altri), il progresso tecnologico, le tecniche musicali, la vita privata di PG (senza esagerare con i pettegolezzi)... insomma, un gioiello di biografia che scade nell'agiografia solo una volta - a pagina 396 (l'ho volutamente segnata) - e che non rincorre mai i difetti della critica italiana, dove il relatore invece tende a parlare solo di se stesso e delle sue pippe mentali.
C'è solo un errore storico da chiarire: Easlea scrive che Levin si unì a Gabriel per il suo primissimo lp, proveniendo dai King Crimson.  In realtà, Levin iniziò la collaborazione con il Re Cremisi nel 1981 (preceduto da un tour nel 1980), quando Car era già uscito da tempo (nel 1977).
Detto ciò, è un libro godibile e fluente che ha la rara capacità di farti venire voglia di riascoltare tutta la discografia di PG più e più volte; cosa che io ho appena finito di fare.



04 aprile 2012

il sangue di peter gabriel

Complice un'iniziativa editoriale conveniente, ho acquistato la penultima fatica di Peter Gabriel. Più ombre che luci, e anche un po' di noia.
Va detto che sono abbastanza aperto alle autorivisitazioni, e non credo che l'aggiunta di un ensemble di archi debba per forza mortificare un brano pop, rock o d'avanguardia. Anzi, Scratch My Back proponeva dei momenti veramente intriganti, in cui letteralmente certi brani venivano riscoperti, o addirittura scoperti del tutto. 
Credo che operazioni del genere, specie se non si è pressati da motivi economici o da obbligate scadenze contrattuali, possano servire all'artista per raccontare le parti nascoste di brani già noti. Complice il fatto oggettivo, cioè, che il proprio pubblico conosce già certe linee melodiche, ci si può giocare sopra, lavorando anche di destabilizzazioni, di riempire i vuoti lasciati in precedenza e di svuotare invece i momenti precedentemente troppo densi. 
Qui, invece, siamo all'approssimazione pura. Ma non quella deliziosa del rock nostalgico: semplicemente c'è poco rischio, molta omogeneità, addirittura momenti che potrebbero decollare (cfr In Your Eyes) e che invece si schiantano nell'angolino comodo dell'ammiccante e del già sentito. E poi, diamine!, le voci femminili sono veramente brutte, ma brutte brutte brutte. E, per restare nell'ambito dell'arrangiamento, si sente la mancanza del basso compulsivo di Tony Levin e delle savaneggianti ritmiche di Manu Katché. Se mi vuoi far dimenticare gli arrangiamenti originali, tutto questa furbizia è un male: non mi devi costringere al "meglio prima"; altrimenti, che operazione è?
A un personaggio come Peter Gabriel si vuole bene sempre, anche quando svacca. Però, dopo quest'operazione, per un po' di tempo non gli rivolgerò la parola. Speriamo che non si offenda.

24 luglio 2008

archives:
6 6 6
is no longer alone

L'avevo promesso: questo è il post numero 666. Parlare di Anticristo dopo aver subito il Lodo Alfano sarebbe cosa quasi ridicola, proprio perché ovvia.
Avrei voluto parlare magari di un episodio sconcertante che ha visto mia moglie come spettatrice, ma ve lo rimando a lunedì.
Bisogna strappare un sorriso dalle nostre facce così disintegrate dalla meraviglia per come si continui a crollare verso il basso, e dal disprezzo per quanta gente adori distruggere quel poco che è rimasto di quest'Italia sciatta e cialtrona.
Siamo soli, veramente soli. Non c'è un faro, un riferimento, neanche uno stronzo cui fare affidamento.
E allora, per oggi, giusto per oggi, leggetevi questa stupidata
La tentazione era tanta e non potevo esimermi dal dedicare un post a questo giorno irripetibile.
Intendiamoci: mi divertono un mondo gli esoterismi, le commistioni, il simbolismo... son tutti aspetti dell'essere umano che lo rendono veramente unico e irripetibile.
Eppoi i numeri religiosi e apocrifi mi appartengono totalmente. Sono nato il 12, numero complessissimo già di sé... la cui somma è 3 (aridanghete).
Il mio mese è luglio, chiaro riferimento alla stirpe Julia, di divina discendenza (seguendo certe cose di Virgilio e dintorni).
Il mese di Luglio viene anche espresso con il 7, altro numero stracolmo di simbolismi. In più, la stilizzazione del mio segno zodiacale son due 6 capovolti e combacianti.
E, guarda caso, il mio anno di nascita è il 1966. Quel 9 vicino ai due 6 è un miracolo di riferimenti.
Il giorno in cui venni estroflesso era un mercoledì, dedicato a Mercurio (scusate la modestia)... se poi ho sbagliato, poteva essere un martedì, che non sarebbe così malvagio.
Il luogo del parto era a tre isolati (3) dalla Piramide Cestia, qui a Roma, a pochi metri anche dal cimitero acattolico. Son vissuto dietro Borgo Pio, in uno dei luoghi più esoterici di Roma.
A 12 anni mi son trasferito dietro la Basilica di San Clemente, nota per avere sotto il pavimento testimonianze di Roma, con ben 7 stratificazioni differenti, ben intellegibili (almeno per gli esperti) e considerata punto nodale per alcuni teorici della Magia Bianca.
Il mio cognome è considerato di origine ebraica, e fa riferimento al lupo ancestrale come anche a un tipo di acacia particolarmente robusto.
Sto giocando, è ovvio. Oltretutto non credo nei segni zodiacali e in tutte queste cose; in realtà ancora oggi sto malissimo se penso che il mio eroe preferito, Corto Maltese, è nato due giorni prima di me. A saperlo, avrei fatto di tutto per nascere prima.
E come dimenticare le palate di film dedicati al genere? L'esorcista tra tutti. La colonna sonora è un simbolo nel simbolo. L'incipit è ripreso da Tubular bells dall'esordiente Mike Oldfield (la cui copertina rimanda al segno della doppia feritilità), che regalò palate di soldi alla nascitura Virgin (cioè "vergine", opposta - appunto - al subliminale della copertina), un'etichetta discografica che oggi te la ritrovi pure come cola scipita. Il resto della musica fu strappata dai leggii di grandi compositori (presenti o passati) come Anton Webern, Krzysztof Penderecki e Hans Werner Henze. Sulle biografie di alcuni di questi pendono aneddoti ai limiti del naturale.
E una copia della statua cattivissima che s'intravede nel film me la son ritrovata davanti nel Pergamon Museum di Berlino. Ebbene: è l'unica foto che non è venuta... chissà perché.
Più in generale, il tema è così affascinante che ho trovato mucchi alti così di siti, blog, riferimenti più o meno accademici.
Per concludere, il titolo del post rimanda a un verso della bellissima Supper's ready dei Genesis di Peter Gabriel. Anche qui un riferimento personalissimo. Quando ere fa stavo risalendo il Rio delle Amazzoni, mentre la barca si muoveva lentamente, vidi spiccar dal nulla sette arbusti alti e grossi, leggermente piegati dal vento. Mi ricordavano un altro passaggio di questa lunghissima suite: Six saintly shrouded men move across the lawn slowly, The seventh walks in front with a cross held high in hand...
Se guardate bene la copertina, poco sotto la G di Genesis, li troverete quatti quatti che camminano verso chissà quali lidi.

ps perdonate se son stato così fasullo dal forzare anche l'ora di questo post