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01 febbraio 2015

Golden Age di Nir Felder

Aaaaah, che delizia di cd.
C'è New York, ci sono i campi sterminati dell'Oklahoma, c'è l'impegno sociale, c'è Pat Metheny, c'è (un bel po' di ) Coltrane, c'è dell'ottimo drum and bass... e tutto dalla penna di un trentenne chitarrista con le idee molto chiare.
Dopo anni trascorsi come session man, insomma, Nir Felder ha deciso di regalarci un'opera ricca di suggestioni e anche di prodezze tecniche, entrambe sempre misurate, ariose e spontanee.
Si parte con una Lights che lascia spiazzati, perlomeno a chi pratica il jazz in maniera rigorosa. Un giro di chitarra volutamente sporco accompagna citazioni e visioni che forse un americano saprebbe cogliere meglio nella loro ricercata sequenza.
Dopodiché, primo gioiellino, c'è Bandits, dove cominciamo ad apprezzare anche i compagni d'arme (sempre sincroni e in sintonia): Aaron Parks (piano), Matt Penman (contrabbasso), Nate Smith (batteria e percussioni: l'avevo conosciuto a questo concerto di Joe Jackson).
Arriva quindi Ernest / Protector, un po' Metheny e un po' Coleman, ma più lineare e attenta alla ritmica (addirittura, qui e là alcune note ricordano Robert Fripp).
Sketch 2 sembra riprendere l'impostazione iniziale dell'opera: un giro di chitarra che accompagna dichiarazioni registrate dei grandi di ieri e di oggi, con un probante e fondamentale batterismo in eccellente progressione.
Code procede con leggera staticità: è forse il brano più debole del cd.
Memorial ritorna sui passi in stile Metheny/Coleman/Fripp, con un tecnicismo più aggressivo. Va ascoltata con attenzione, proprio perché le note sembrano ovvie; ma poi, e invece, prendono una strada che cattura l'attenzione e non ti molla più.
Lover... che dire? Nella sua totale e sfacciata commercialità, è un brano bellissimo. Lo trovo meraviglioso, soprattutto a volume molto alto, dove si ha la possibilità di percepire meglio certe sequenze di accordi. L'intero gruppo lavora con disinvolta precisione.
Bandits II è una dolce meraviglia, forse scontata nella forma ma non nella sostanza. Da gustare più e più volte.
Slower Machinery è un mirabile esercizio di stile, dove tutti i musicisti si cimentano in un rincorrersi e provocarsi, regalando all'ascoltatore sei minuti abbondanti di liquida frenesia.
Before the Tsars è un soffuso e vaporoso giro quasi ipnotico (à la Satie, per dire; ma non c'entra nulla) dove si sente moltissimo l'influenza tecnicostilistica del maestro di Felder, John Scofield... dopo una breve pausa, il brano riprende brevemente Lights, chiudendo l'ultima nota con una frase ben precisa (quale, lo scoprirete voi).
Insomma, vale un acquisto immediato.
 

20 novembre 2012

Joe Jackson è apparso a Duke Ellington

Carmelo Bene mi perdonerà se uso il titolo di un suo noto libro per sottolineare la bellezza dell'ultimo lavoro di Joe Jackson
Il suo omaggio a Duke Ellington è così saporito e ricco di suggestioni che - oltre ad evidenziarne la modernità in nuce - consente anche alle nuove generazioni di conoscere un band leader apparentemente remoto (1899-1974), ma di indiscussa potenza, che tanto ha dato al jazz di tutti i tempi.
Il bello è che ho sentito questa opera solo dal vivo. E in questo caso lo scetticismo ci stava tutto: conosco buona parte delle opere di Duke; so come e quanto vadano rispettate; conosco pure l'approccio di Joe Jackson nei confronti di opere non sue (ma anche sue: visto come si è rifatto la faccia... agh!); ho un indole contraddittoria e con riserve di fronte a operazioni simili; sapevo che Jackson aveva tolto di mezzo i fiati (è come togliere i fulmini a Giove); avevo letto recensioni poco felici su Musica Jazz... insomma, troppe cose contro e pochissime a favore.
Sicuramente, metterle alla prova con un solo ascolto, live pergiunta, non avrebbe aiutato Jackson a superare la mia ritrosia (e, infatti, so che non ci ha dormito sopra)... eppure, tutto è andato a meraviglia: due ore di splendido ascolto, con tanto di tuffo nei suoi classici (con la ciliegina del primo Night and Day pressoché integrale) e la gioia di avere accanto la mia signora, già giovane di suo, che si è dimenata come una bimba di 18 anni, felice e spensierata all'ascolto di tanta bellezza. 
Grande band al seguito: Regina Carter al violino, mai leziosa e sempre attenta; l'onnipresente Sue Hadjopoulos alle percussioni, un marchio di fabbrica del Joe Jackson' style; l'androgina Allison Cornell alle tastiere e alla voce (e alla viola), capace di chiacchierare e supportare perfettamente il nostro; Jesse Murphy al basso e alla tuba, iradiddio e al contempo metronomicamente affidabile; Adam Rogers alla chitarra, con l'ombra del suo mentore Mike Brecker che lo coccolava a più riprese (e si sente nei fraseggi tipicamente sassofonizzanti); Nate Smith alla batteria, e che batteria!
Insomma, e alla fine, io il cd me lo compro. Viste le premesse...