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06 maggio 2020

due libri "tecnologici" editi da Adelphi

Il primo libro sembra meno specialistico dei precedenti, forse più simile a un racconto: Andrew O’Hagan, “La vita segreta (Tre storie vere dell’èra digitale)”, Adelphi. 
Uscito tre anni fa, resta comunque attuale: si parla di Julian Assange, Satoshi Nakamoto (papà dei bitcoin) e Ronnie Pinn, un utente… inesistente.
Comunque la pensiate su certi personaggi, è un agile reportage scritto con quello stile impalpabile ma riconoscibile che rende unica l’elegante casa editrice milanese. Godibile e documentato, ridimensiona la cornice epica delle figure trattate, ma senza cinismo o sciatteria; a giudizio mio insindacabile, il capitolo su Pinn è il più avvincente.
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Gli appassionati di musica conosceranno Ray Kurzweil, ingegnere, pensatore, piccolo grande genio in molti campi della Scienza e dell’Arte.
Classe 1948, tra le tante intuizioni fondò la Xerox, insieme a Stevie Wonder sviluppò un sistema di lettura/scrittura per ciechi, elaborò un sintetizzatore musicale tra i primi a campionare suoni originali (cfr Stevie Wonder in “Talking Book”; Peter Gabriel in “IV” e “So”; Lyle Mays con il Pat Metheny Group…).
Nella sua seconda vita ha proposto una lettura “umanista” della tecnologia, ma non in maniera ascetica o trascendentale: ha ricomposto, cioè, il concetto di Singolarità Tecnologica perché “rappresenterà il culmine della fusione fra il nostro pensiero e la nostra esistenza biologica con la nostra tecnologia, che darà luogo a un mondo ancora umano ma che trascenderà le nostre radici biologiche. Dopo la Singolarità non ci sarà distinzione fra umano e macchina o tra realtà fisica e virtuale”.  
Di questo personaggio - e di molto altro, parla Mark O’Connell, “Essere una macchina”, Adelphi: criogenia, Elon Musk, Steve Wozniak, transumanesimo, Aubrey de Grey.
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No, non sono pagato da Adelphi: è che i due titoli che ho consigliato in queste settimane sono un esempio di come si possano coniugare Umanesimo e Tecnologia, rendendo comprensibili entrambi, pur mantenendone integre complessità e differenze.

20 marzo 2020

Pat Metheny presenta FROM THIS PLACE

From This Place è un piccolo capolavoro, uno di quei dischi che funzioneranno anche a distanza di anni. Non c'è una sbavatura o un tentennamento. È vero che suona come "un disco di Pat Metheny", ma è anche vero che c'è molta roba viva, interessante, che va al di là dell'ovvio.
Musica Jazz parla di conceptal contrario di certi concept, però, questo gioiello non è impastato, non sente il peso di un fil rouge più o meno dissimulato. Più che altro, è concept per come è stato composto: in maniera lineare, in un alto momento di ispirata illuminazione.
Sempre nell'intervista a Musica Jazz, Metheny sottolinea come le parti con gli archi siano state arrangiate successivamente a una prima registrazione per solo quartetto; il bello è che non si sente. Non si sente, cioè, quell'aggiuntinismo cui spesso indugiano le opere che contengono degli archi in postproduzione. 
Ogni nota, ogni strumento, sono perfettamente incastonati dentro una sfera, ma anche distinti e distanti tra loro, con eguale dignità ed identica forza narrativa.
Il primo brano, American Undefined, funge quasi da ponte con la precedente produzione più illuminata. Sotto molti aspetti armonici ricorda certe cose di American Garage, ma con il conforto di non so quanti lustri di esperienza in più sulle spalle; esperienza che ha fatto più che bene.
Segue Wide and Far, dove la leggerissima penna di Metheny si mette al servizio del pianismo di Gwilym Simcock e di Antonio Sanchez, che accarezza l'ascoltatore con un multiritmico drumming di rara leggerezza. Nota a parte per il basso di Linda May Han Oh: in men che non si dica, l'ascoltatore finisce il repertorio dei complimenti. 
Arriviamo a You Are, che resta forse la perla pregiata di quest'opera: un canone aperto da un piano, cui rispondono gli altri strumenti con dolcezza e dolore e imponenza e silenzi e pieni e suoni. Veramente, non c'è scampo alla bellezza di questo brano. 
Same River arriva come un ruscello di acqua fresca che ci disseta dopo il disarmante ascolto precedente. Qui il lavoro dell'orchestra è fondamentale: molto americano, con un arrangiamento vicino a certe aperture del Metheny di Sacred Story. Qui Simcock insegue Scott Cossu con un certo gusto per l'essenzialità. 
Pathmaker sembra un gioco quasi spagnoleggiante di Chick Corea. Piano e chitarra introducono amabilmente un tema in crescendum, per poi delegare all'orchestra e a Sanchez il ruolo di tappeto sonoro sul quale Metheny cerca ostinatamente il cristallo perfetto. Dopodiché torna Simcock che non lascia proprio spazio alla banalità. Una delizia. 
The Past In Us sembra porsi molte domande, come se le note così dolci e dolenti volessero chiedere qualcosa all'ascoltatore. Vero è che forse è la meno riuscita tra tutte le composizioni, ma forse perché io non amo molto l'armonica, e quella di Gregoire Maret fa il suo dovere ma nulla più. 
Everything Explained è chiaramente più che un omaggio a un certo flamenco contaminato. Nonostante la struttura molto intuitiva, è un brano splendido: Metheny regala momenti a metà tra il rigore stilistico e la follia tecnica. 
Altra perla indimenticabile è il brano che dà il titolo all'album: From Ths Place. Ad un ascolto ripetuto, mi ha ricordato il main title di Band Of Brothers, la serie di Spielberg in sei parti sulla Compagnia E. Ma è solo una mia impressione. Certo è che la voce di Meshell Ndegeocello è avvolgente, sofisticata, strabiliante. Un brano da conservare nel cuore. 
Segue quindi Sixty-Six, che sembra partire male con quel ritmo rubato a Last Train Home. In realtà è un trampolino per regalare momenti quasi perfetti. Il contrabbasso di Linda May Han Oh si conferma tra i più interessanti del panorama musicale di questi anni. E si sente, perché sia Metheny che Sanchez si muovono con fiducia e agilità, senza pensarci due volte. 
Finiamo con Love May Take Awhile, che ci porta via, insieme a Hemingway, McCarthy, Roth, nell'assoluta e timorosa reverenza per il tornado che sovrasta la copertina.


29 dicembre 2017

a #UJW25 la Joni Mitchell di De Vito, Mazzariello e Pietropaoli (una recensione)

Difficile entrare nel mondo di Joni Mitchell senza commettere imperfezioni, perché la cantante canadese ha il rarissimo pregio di aver composto canzoni bellissime che comunque funzionano, ma che funzionano soprattutto grazie allo spessore di cristallo della sua voce. E se provi a uscirne troppo, rischi di comprometterne il tessuto melodico; se provi, invece, a starci dentro ma senza scimmiottarla, rischi di cadere nel baratro della presunzione.
Eppure c’è chi ha avuto l’ardire di provarci, questo quasi-gelido venerdì di fine anno a Orvieto, in un’edizione di Umbria Jazz altrimenti arida di emozioni: Maria Pia De Vito, con la sua voce sempre pastosa, in costante conflitto con la passione e la professionalità (e che in questo caso ha sortito ottimi risultati); Juan Olivier Mazzariello, il cui pianismo ha la rara dote di dire poche cose ma sempre giuste, che sa rispettare la musica, il pubblico e i suoi compagni d’arme; Enzo Pietropaoli, non solo bassista e non solo musicista, che nonostante abbia compiuto secoli di età, mantiene vivo l’entusiasmo del bambino insieme al rigore del grande sapiente.
Apre le danze la dolce cantilena di Amelia, con quel giro di accordi che Pat Metheny poi ridisegnò nel live Shadows & Lights, da cui ormai riesce difficile uscire. E quando la tua memoria-in-automatico si aspetta quei pizzichi di chitarra fluida, Mazzariello sfodera un prezioso piano-solo soffuso.
Siamo quindi nella percussiva Harlem in Havana, con il nostro Enzo che insegna come si sta a tavola: prima del suo solo, si è fermato quel poco di più per consentire alla De Vito di raccogliere il giusto tributo al suo scat così naturale.
Entriamo dentro la bellissima Morning Morgantown: la De Vito parte fuori tono, ma si riprende subito anche grazie allo stato di grazia di basso e pianoforte che sorreggono l’intera canzone con vigorosi muscoli, dolcissimi quanto discreti. Nella seconda parte della canzone, la De Vito si rifugia dentro un canto alla Joan Baez, più affine alle sue corde. La parte del leone la fa Mazzariello, sempre capace di rispettare le canzoni con solismi umili e privi di autocelebrazioni.
Arriviamo al cuore mingusiano della Mitchell con God must be a boogie man. Eccellente versione, con il trio che si amalgama e si insegue continuamente, in compagnia di un pubblico timido che ha risposto alla call-to-action senza tanta convinzione.
Dopodiché, la luce di A case of you ha illuminato i nostri cuori: grande Mazzariello, ben oltre i suoi limiti; Pietropaoli che dona la sua anima al pubblico; la De Vito che si commuove sempre di più. Così si suona, così si canta!
Con Be cool i nostri si riposano, rendendo la canzone quasi “normale”: troppa eleganza si paga, ed è giusto prendersi pochi minuti di riflessione.
Con Chinese café/Unchain Melody ritorniamo negli astri. Di sé per stessa è notoriamente un esercizio di stile complesso e probante: i tre arrivano a renderla un’esperienza irripetibile e nostalgica, dove alla fine vien da dire “io a questo concerto c’ero; voi no”.
E a proposito di nostalgia, arriviamo a Woodstock. Ragazzi, che arrangiamento! Che esecuzione. Riuscire a unire lo sguardo verso il passato con il cammino rivolto al futuro… veramente una bellissima versione.
Bis dedicato alla mia signora con una Answer me my love da lacrimoni.
Una bellissima esperienza, insomma.

No so come sia il disco (dove al piano figura Rea). Ho paura di acquistarlo. Quando si hanno esperienze come queste, diventa difficile rincorrere la nostalgia. Vi terrò informati.

03 marzo 2015

Birdman, che vola troppo

Muovi 'sta telecamera, ferma 'sta telecamera, arimuovi 'sta telecamera, ariferma 'sta telecamera... onestamente, mi sfugge perché un regista debba agitarsi così tanto per sottolineare che ha avuto una buona idea.
Iñárritu passa metà del film a farci capire come si possa comporre qualcosa di buono con un (falso) pianosequenza; e l'altra metà a cercare di dissimularlo. Ma non è certo con il movimento isterico che manifesti cotanta destrezza, no?
Il buon Hitchcock con Nodo alla gola (vero pianosequenza, altroché) stava ben che fermo. Certo, le cineprese di allora pesavano come un bus inglese, ma se eri un regista sofisticato come lui sapevi comunque se e come muoverle; e Hitch scelse di mantenere un grande equilibrio tra forma e sostanza.
Ecco, io credo che formalmente il nostro Birdman sia un ottimo film; ma poi si perde nella ciccia, nella sostanza. Sono tutti bravi, geniali, liberi e anche autentici (doppiati mediocremente, as usual)... però la storia è quasi ovvia, e la petulanza dell'operatore impedisce di starsene tranquilli a godere del dialogo. Per carità, se ci fosse stato meno casino, magari avrei apprezzato più il film nel suo insieme.
Attenzione, poi: anche l'altro anno l'Oscar è andato a un film decisamente troppo attento alla forma (Gravity). Ma poteva avere un suo senso, proprio perché di una fantascienza lineare, senza tante pretese. Qui, invece, si parla di teatro contro cinema (o di teatro e cinema). C'è un intento serio, insomma: e la serietà prevede anche la liturgia dello stare fermi, del far ascoltare, del fare anche teatro, diamine!
Per farvi un esempio terra terra: potete scrivere una grandissima poesia con un'ottima penna stilografica; ma se poi fate mille ghirigori, il lettore non riuscirà mai ad apprezzare i vostri versi.
Ci vuole equilibrio. E questo Birdman ha preferito sacrificare la grazia del volo all'altare del suo narcisismo tecnico (la foto qui sopra sembra paradigmatica).
Bella la fotografia. Tra gli attori - tutti bravi - vi consiglio di seguire Emma Stone e Andrea Riseborough. Geniale la battuta di Michael Keaton "contro" George Clooney (chiaramente ispirata ai loro Batman cinematografici).
Da strapprezzare, infine, il commento musicale suonato dall'ottimo batterista Antonio Sanchez (secondo imdb, però, le partiture per batteria sono state scritte da Brian Blade e da Joan Valent).


la foto qui sopra è di Martin Le-May

08 febbraio 2015

Peter Erskine fuori e dentro i Weather Report

Divertente, interessante e anche istruttivo: i tre aggettivi che vengono in mente appena conclusa la lettura di questa autobiografia di Peter Erskine
Un libro che merita l'acquisto, anche da parte di chi non è appassionato di batteria e percussioni.
Salta subito all'occhio l'intenzione di non perdersi dietro inutili racconti d'infanzia o aneddoti troppo personali. Peter Erskine, infatti, ama divertirsi e far divertire il lettore, mettendo immediatamente in primo piano la musica e il suo strumento preferito: quella batteria, cioè, che lo trasformò in brevissimo tempo in un innovatore ancora attualissimo e in un pioniere della fusion meno ovvia (anche se lui per primo rifugge da questa definizione, ammettendo però la necessità economica di essersi dovuto cimentare anche con la muzak più insopportabile). 
Ritroviamo grandi del passato come Jaco Pastorius, Joe Zawinul e Mike Brecker, più altri come gli Steps Ahead, Stan Kenton, Dave Weckl, Joni Mitchell, gli Steely Dan, Pat Metheny, Elvis Costello, Diane Krall, Wayne Shorter, John Patitucci... la lista è lunga e piena di sorprese. 
Anzi, scopriamo pure gli angoli segreti di autentici monumenti come Manfred Eicher (un caratterino niente male) o Chick Corea (nella veste di inedito quanto eccellente batterista). In coda al testo figurano cinquanta titoli preferiti dall'autore tra i centinaia cui ha collaborato, anche come leader (anche qui molte sorprese).

01 febbraio 2015

Golden Age di Nir Felder

Aaaaah, che delizia di cd.
C'è New York, ci sono i campi sterminati dell'Oklahoma, c'è l'impegno sociale, c'è Pat Metheny, c'è (un bel po' di ) Coltrane, c'è dell'ottimo drum and bass... e tutto dalla penna di un trentenne chitarrista con le idee molto chiare.
Dopo anni trascorsi come session man, insomma, Nir Felder ha deciso di regalarci un'opera ricca di suggestioni e anche di prodezze tecniche, entrambe sempre misurate, ariose e spontanee.
Si parte con una Lights che lascia spiazzati, perlomeno a chi pratica il jazz in maniera rigorosa. Un giro di chitarra volutamente sporco accompagna citazioni e visioni che forse un americano saprebbe cogliere meglio nella loro ricercata sequenza.
Dopodiché, primo gioiellino, c'è Bandits, dove cominciamo ad apprezzare anche i compagni d'arme (sempre sincroni e in sintonia): Aaron Parks (piano), Matt Penman (contrabbasso), Nate Smith (batteria e percussioni: l'avevo conosciuto a questo concerto di Joe Jackson).
Arriva quindi Ernest / Protector, un po' Metheny e un po' Coleman, ma più lineare e attenta alla ritmica (addirittura, qui e là alcune note ricordano Robert Fripp).
Sketch 2 sembra riprendere l'impostazione iniziale dell'opera: un giro di chitarra che accompagna dichiarazioni registrate dei grandi di ieri e di oggi, con un probante e fondamentale batterismo in eccellente progressione.
Code procede con leggera staticità: è forse il brano più debole del cd.
Memorial ritorna sui passi in stile Metheny/Coleman/Fripp, con un tecnicismo più aggressivo. Va ascoltata con attenzione, proprio perché le note sembrano ovvie; ma poi, e invece, prendono una strada che cattura l'attenzione e non ti molla più.
Lover... che dire? Nella sua totale e sfacciata commercialità, è un brano bellissimo. Lo trovo meraviglioso, soprattutto a volume molto alto, dove si ha la possibilità di percepire meglio certe sequenze di accordi. L'intero gruppo lavora con disinvolta precisione.
Bandits II è una dolce meraviglia, forse scontata nella forma ma non nella sostanza. Da gustare più e più volte.
Slower Machinery è un mirabile esercizio di stile, dove tutti i musicisti si cimentano in un rincorrersi e provocarsi, regalando all'ascoltatore sei minuti abbondanti di liquida frenesia.
Before the Tsars è un soffuso e vaporoso giro quasi ipnotico (à la Satie, per dire; ma non c'entra nulla) dove si sente moltissimo l'influenza tecnicostilistica del maestro di Felder, John Scofield... dopo una breve pausa, il brano riprende brevemente Lights, chiudendo l'ultima nota con una frase ben precisa (quale, lo scoprirete voi).
Insomma, vale un acquisto immediato.
 

10 gennaio 2014

#Libri: una buona biografia su Pat #Metheny (#jazz)

Difficile leggere biografie musicali di qualità e nel contempo di misurato spirito divulgativo. 
O gli autori parlano di sé per interposto musicista, o indugiano in tecnicismi esasperanti, oppure si schiantano dentro il biografismo inutile e spicciolo in stile "signora mia, il prezzo dei carciofi".
Il noto libro di Luigi Viva (recentemente aggiornato) si è tenuto in equilibrio tra queste tre tendenze, rasentando spesso l'agiografia, ma mantenendo comunque alta l'attenzione del lettore, e strutturando il testo in maniera che alle sue (rare) considerazioni personali fossero sempre contrapposte quelle dei diretti interessati; interventi che spesso vanno al di là della mera testimonianza diretta, diventando una biografia nella biografia.
In più, in conclusione di testo c'è una dettagliato elenco degli strumenti musicali usati da Pat Metheny, oltreché una sua discografia ben strutturata.
Ad essere petulanti, tre difetti: assenza di un editor competente, troppa insistenza su inutili dettagli microquotidiani (ho perso il conto delle docce fatte dal nostro eroe), celebrazionismo ai limiti del petulante. 
Ma ci si passa sopra, perché di ogni opera e/o collaborazione vengono raccontate le premesse biografiche e artistiche, il background culturale, il significato storico - sia per la carriera di Metheny che per la storia del jazz.
Insomma, se siete appassionati di jazz, musica, chitarre e Pat Metheny, compratelo.


07 settembre 2009

SBB

I preconcetti avvolgono anche noi presuntuosi e moralisti.
Questa primavera avevo degli operai polacchi in casa, e figuriamoci se potevo immaginarli interessati a qualsiasi altra cosa che non fossero martelli, stucchi e vernici.
Un bel giorno il capomastro mi consegna un dvd di rock progressivo... polacco! Dall'alto della mia boria lo prendo promettendogli che appena avrò casa a posto gli darò un'ascoltata.
Ma ovviamente avevo già pronto il mio giudizio negativo. E, invece, accidenti: e chi poteva mai immaginare che gli
SBB
fossero così interessanti!
Tenendo conto poi che il concerto è del 1979, e che quindi da quelle parti non si navigava certo in buone acque (e non credo che la musica occidentale arrivasse facilmente e in maniera eterogenea), sono rimasto fortemente impressionato sia dalla tecnica che dalle idee musicali.
A fare i pignoli mancava un buon produttore che sapesse sia contenere certe inutili lungaggini egocentriche (oltre che qualche citazionismo di troppo), come anche imporre scelte estetiche più incisive. Ma in linea generale la cosa conferma che il nostro eurocentrismo è duro a morire. Veramente duro.
Complimenti quindi a Józef Skrzek (il leader), Jerzy Piotrowski, Apostolis Anthimos, Sławomir Piwowar, Andrzej Rusek, Mirosław Muzykant, Paul Wertico (dico: già nella Pat Metheny Band!), Gabor Nemeth.


19 maggio 2009

Pat Metheny & Kronos Quartet?

La mia smisurata passione per la musica non ha confini e non ha mai termine. Non è vanità la mia, per carità: è che la vivo con così tanta intensità che non riesco a non dirlo continuamente.
Non riesco nemmeno a ricordare un solo periodo della mia vita lontano dalla musica, né tantomeno non riesco a ricordare un genere musicale per cui non nutra perlomeno un qualche interesse (il reggae e la canzone italiana mi stanno notoriamente un po' stretti, ma ci son delle affettuose eccezioni).
Da quando sono chiuso qua dentro, e da quando mi sono iscritto al legale ITunes, faccio continuamente incroci musicali per scovare materiale interessante che non pesi sulla mia carta di credito. Limite imposto mensile:sotto i 50 euro, non di più.
L'altro giorno scopro questo lavoro a soli 4,99 euro. Non dico di più: cliccate su questa immagine e leggete quanto hanno scritto blogger moOolto più esperti di me... e poi acquistate.