Non è una biografia di Hugo Pratt vera e propria, non è nemmeno un viaggio dell'autore dentro la propria passione per le opere di cotanto Maestro, non è nemmeno un elenco ragionato delle opere del Maestro... insomma, questo libro è un insieme di queste cose e anche molto di più.
Il suo unico limite, forse, è che dà spesso per scontato che il lettore conosca perfettamente buona parte della fumettografia di Pratt, ma è un "limite" superabile dal momento che è ricco anche di tavole puntuali e accuratamente selezionate.
L'unico consiglio che mi sento di dare è di leggerlo tutto d'un fiato (solo 192 pagine - che al netto dei disegni presenti sono molte meno), sia perché è bello lasciarsi cullare dalle descrizioni così pulite ma affettuose di Thomas, sia perché questo tipo di libri così ricchi, pastosi ed equilibrati sono una vera e propria manna, rara e benvenuta.
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31 marzo 2021
01 ottobre 2020
Mafalda, Quino, l'innovazione che non sapevamo
La morte di Joaquín Salvador Lavado Tejón, Quino insomma, ci dice molte più cose di quanto ne suggerisca il dolore che proviamo per la perdita di un amico. Perché questo è stato Quino per molte generazioni: un amico. Forse più di Schulz e Mordillo: il primo (adorato da Quino stesso, va ricordato) era intriso di uno psicologismo a volte struggente, spesso doloroso; il secondo era più paradossale che attento alle pulsioni del mondo. Eccellenti entrambi, per carità, ma nessuno dei due portava con sé alcuni valori aggiunti tipici di Quino.
Quino, infatti, è stato il primo a dare una voce femminile alla satira, ma anche al fumetto in generale. È vero che Mafalda nasce quasi per caso, a ridosso di una pubblicità commissionata per una lavatrice, ma è anche vero che Quino la trasforma pressoché immediatamente in uno strumento ironico e irriverente, ma anche di polemica e di denuncia politica e sociale, dissimulate e raffinatissime, mai ridondante o stucchevole.
Un femminista ante litteram? Forse. Ma quello che è incontrovertibile è la prospettiva intrinsecamente femminile di Mafalda: Mafalda non è un uomo che parla dal corpo di una bambina! Mafalda è femminile sotto ogni possibile aspetto; e la sua forza critica e ironica sono femminili al cento per cento.
Poi: Mafalda è comprensibile a chiunque. Bambini o grandi, ricchi o poveri, stupidi o colti, comunque capivano Mafalda. Quino riusciva a lavorare su più livelli senza giochicchiare col mestiere.
Poi: Mafalda conosceva i problemi della famiglia, quelli quotidiani e quelli eccezionali. E li conosceva sia dalla prospettiva dei figli che da quella dei genitori, con linguaggi acconci in entrambi i casi.
Poi: Mafalda intuiva le contraddizioni della società borghese, non solo quella argentina: ne coglieva gli aspetti coevi ma anche quelli di sempre.
Poi: Mafalda faceva anche politica, colpendo sia la realtà argentina (prima ancora che diventasse evidente la dittatura che covava da tempo) sia la realtà sociale contemporanea. Ed era una satira che aveva senso e forza indipendentemente dal contesto.
Poi: Mafalda sapeva essere anche surreale, senza forzare la mano o senza correre dietro a sofisticatezze che poi magari andavano troppo spiegate.
Lo stile di Quino non era autoreferenziale. I nostri umoristi o quelli francesi avrebbero molto da imparare.
Quino non era neanche volgare.
Quino non era saccente.
Quino non era dogmatico.
Quino non aveva bisogno di spiegarsi tramite baloon esplicativi, ma soprattutto non aveva bisogno di essere spiegato. La sua grammatica stilistica era seconda solo a quello di Trojano, vero e proprio maestro dell'universalità delle sole immagini.
Quino aveva un tratto elegante e liquido, lineare e pulito, con una capacità di caratterizzare cose e persone con minimi cenni grafici, immediatamente riconoscibili da chiunque.
Quino ha avuto il coraggio di smettere di disegnare Mafalda quando si accorse di non avere più niente da dire!
Quino se n'è andato troppo presto... e a noi restano solo i diari di scuola che sbirciavamo di nascosto, ridendo come pazzi, rischiando poi di essere mandati dal preside. Ma ne valeva la pena.
12 luglio 2009
17 novembre 2006
Brasile (1):
Iguaçu
Da quando un tizio mi ha detto che andrà in Brasile, mi son tornati alla mente decine, centinaia, migliaia, milioni, miliardi di ricordi.
Son stato in Sud America nel 1991 e per un mese ho girato per il Brasile alla ricerca di Mister No, Hugo Pratt, Alexander von Humboldt e infiniti altri eroi che avevo letto e divorato da quando avevo cinque anni.
Ho letteralmente visto cose che voi umani non potreste mai immaginare: ho risalito il Rio delle Amazzoni, masticato Bahia, accarezzato Belem, passeggiato per Belo Horizonte e Ouro Preto, vissuto la ricchezza di Rio e ballato il samba in una bettola di Fortaleza.
Il Brasile ha una magia e una bellezza uniche, e ve lo dice uno che odia il caldo, l'umidità e il napoletanismo impiccione e invadente. Ma il Brasile è il Brasile.
Se mi riuscisse di fare molti post a riguardo, vorrei cominciare con Iguaçu, immortalata dal bellissimo film Mission. Polemicamente vorrei ricordare che il Vaticano ci invita a dargli soldi immeritati mettendo come sottofondo proprio la colonna sonora di questo film... che parla delle stragi perpetuate dal Vaticano stesso.
Appena arrivi nell'albergo che sta letteralmente di fronte alla fine delle cascate, sei accolto da un suono di acqua poderosa e prepotente che ti accompagna per tutta la giornata. Quando arrivai io, era appena esplosa la primavera. Ero circondato da farfalle, uccelli di ogni colore e da coati, strampalati mustelidi (come la genetta o l'ermellino) che, a mò di piccioni in Piazza San Marco, ti chiedono cibo. Magari è meglio non toccarli perché per esplorarti potrebbero morderti, ma è roba di poco conto.
Se dalla parte brasiliana le cascate vengono assaporate dal basso (chilometri di cataratte che finiscono nella Garganta do Diablo - quella dove veniva gettato il prete all'inizio del film citato), dalla parte argentina si gustano dall'alto, e ci si può letteralmente affacciare sull'appena nominata Garganta.
Per arrivarci devi camminare per tre chilometri dentro una foresta piena di misteri e altre cataratte più o meno nascoste. Quando arrivi là, alla fine, per parlare (sempre che uno sia così scemo da rovinare tutto con la propria voce) non devi urlare, ma gridare e fare ampi cenni, perché il fragore è così immenso che ne rivivrai il ronzio dentro la testa per il resto della giornata.
Ci vogliono tre giorni per vedere Iguaçu, timida e indolente, incuneata tra Brasile, Argentina e Paraguay: uno per arrivarci, il secondo per visitarla da ambedue i lati e il terzo per andare via. Ma ci vogliono miliardi di vite per tentare disperatamente di toglierti la nostalgia che ti resta appiccicata nel cuore.
tag: Brasile, Iguaçu, Viaggi
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