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07 febbraio 2024

MAESTRO

Quella di Leonard Bernstein è stata una personalità così multiforme e multicolore, che è complicato riassumerla in poche righe.

Innanzitutto, fu tra i pochi suoi contemporanei a credere nella contaminazione tra generi, tanto che le sue stesse composizioni spaziano in maniera dolce e credibile dal Mozart più austero al jazz be-bop, passando per Beethoven o per la dodecafonia.

È stato tra i primi a restituire la giusta visibilità alla musica di Gustav Mahler, dando risalto alla sua insospettabile leggerezza, ma anche enfatizzandone i riferimenti alla cultura ebraica, sparsi nelle sue nove sinfonie. Personalmente, preferisco le direzioni del compianto Sinopoli, asburgiche e spirituali al tempo stesso; ma il Mahler di Bernstein è veramente oltre.

Bernstein sapeva divulgare con grazia, competenza e misura, coinvolgendo anche le menti poco avvertite e i giovanissimi. Inoltre, ha stravolto la composizione dei musical, con partiture di rara modernità e freschezza, aggiornando l’intero genere e donandogli nuova linfa vitale.

Le sue direzioni erano muscolari, esagerate, esagitate, piene di sudore e fatica, ma anche di sorrisi e rinascite; sicuramente, uniche e indimenticabili.

Non ha mai sofferto la sua bisessualità né tantomeno obbligato i suoi cari a comprenderla.

Ebbene, tutto questo (e molto altro che ho dimenticato) s’intravede appena in Maestro, un film fatto di molti (troppi) accenni. Molti critici hanno insistito nel dire che il perno della trama sia l’omosessualità di Bernstein - e la sua sofferenza nel viverla. In realtà, tutta questa sofferenza nel film non si vede. Oltretutto, era cosa nota a tutti! Perché inventarsi un drammone così inesistente?

Il vero problema è che il film non funziona del tutto, risultando piacevole ma lungo e rarefatto. Non ha un vero e proprio riferimento, non centra l’importanza di una figura così fondamentale per la cultura occidentale. Certo, la direzione della fotografia è impeccabile, Bradley Cooper è esatto, Carey Mulligan è magnifica; ma non bastano

29 agosto 2022

la RECHERCHE di PROUST

Provate ad ascoltare i primi minuti del Titano di Gustav Mahler. Lo so, non c'entra nulla con la Recherche, ma i due incipit si somigliano in maniera prodigiosa, quasi fossero uno la traduzione dell'altro. 
Perché questo è l'inizio voluto da Proust: una sottile, elegantissima, soffusa tensione, che prima si tende, poi si ferma, poi riprende a tirare, poi torna indietro, senza soluzione di continuità. E dura quanto deve durare, forse anche qualcosa in più, perché quando sorseggi un buon tè non ti chiedi quando finirà, ma quali altri sapori riuscirai a gustare prima che l'aridità del freddo spegnerà gli ennetanti languori di quella bevanda.
Poi, ad un certo punto, la Recherche esplode, esattamente come ad un certo punto il Titano di Mahler deflagra.
E il vortice proustiano ti prende alla gola, ti percuote lo sterno, entra nello stomaco, nell'anima, e non ti molla più per almeno mille pagine. Un boato, un flutto, un lampo di luce, un buco nero nell'universo, un sorriso, una penombra, e di nuovo tensione e pause e cadute e ritorni.
Sento dire spesso che non è un libro facile né tantomeno agile. Personalmente, l'ho trovato adattissimo a un pubblico giovane, più di quanto si creda. C'è trama, c'è intreccio, ci sono dubbi, tensioni e una gioventù che cerca se stessa in ogni piccola minuzia.
Purtroppo la pochezza dei nostri insegnanti - e di una certa sinistra boriosa, lo colloca tra le cose "impegnative", "da capire". Invece, il bellissimo testo di Proust è una lunga, lunghissima storia che racchiude tutte le storie, ognuna ricca di tante cose, solari e profonde, oscure e superficiali.
Letta la Recherche potete anche smettere di leggere qualsiasi altro romanzo, perché li ha preceduti tutti, li prevede tutti, li contiene tutti.
E già, la magia di Proust si percepisce anche nel suo saper incastonare altre storie nella trama principale: storie avvincenti, leggere, spesso divertenti, a volte inutilmente pettegole.
E dirò un'eresia: che con le sontuose analisi psicologiche, i meravigliosi aforismi, le dettagliate descrizioni del genere umano, quelli dei Baci Perugina ci camperebbero cent'anni.
Personalmente, ho amato il primo volume (Dalla parte di Swann con il corollario sulla sua storia d'amore con Odette), il secondo (All'ombra delle fanciulle in fiore), poi il quinto (La prigioniera, quasi tutto), il sesto (La fuggitiva, le cui prime due parti sono meravigliose), il settimo e ultimo (Il tempo ritrovato, da brividi).
Confesso che I Guermantes e Sodoma e Gomorra mi hanno colpito pochissimo. Non lo dirò in giro.
Ho bevuto la Recherche nella traduzione di Giovanni Raboni, eccellente poeta di cui si parla sempre poco. Esiste anche una celebre versione Einaudi in cui ogni libro è tradotto da un nome di spicco diverso.
Ripeto ai giovani: leggetelo adesso!

31 dicembre 2013

Il barocco di Fresu e Caine a #UJW21 (recensione da #Orvieto, #jazz)

Che serata!
Fresu e Caine hanno raccontato il barocco e la classica con rara perfezione, divertendo, commuovendo e incuriosendo un pubblico abbastanza attento, in un contesto sempre molto evocativo come solo sa essere il Teatro Mancinelli.
Si inizia con il Bach più intimo per poi passare al noto canone di Mahler dalla sua Prima Sinfonia. E qui mi sono commosso, sia perché amo il compositore, sia perché mi sono ricordato di quando il compianto Quattrocchi commentò per me il progetto che Caine propose proprio sulle musiche di Mahler.
Poi, un salto dentro Monteverdi. La notizia è che anche Fresu sbaglia: ha preso una stecca niente male che però ha dissimulato con mestiere.
Grande lettura delle Variazioni Goldberg, superbo rispetto per la Mimì pucciniana, grandissima Lascia Ch'io Pianga di Händel che mi ha ricordato alcune cose privatissime che mi legano a mia moglie.
Dopodiché i due ci hanno accompagnati dentro le composizioni di Barbara Strozzi, semisconosciuta perché donna e perché soffocata comunque dall'invadenza di Monteverdi.
Gran finale con l'inno di Händel e una Butterfly nostalgica, con un bis baroccheggiante di estrema bravura.
Disco in arrivo? Speriamo, perché il concerto è stato bellissimo.

19 gennaio 2012

Paolo Fresu ad #UmbriaJazzWinter

Parliamo di trombe; le migliori.
Più volte vi ho raccontato quella di Fabrizio Bosso: è coinvolgente, assoluta, e ti mitraglia sulla poltrona senza darti il tempo di respirare (i bossoli di Bosso; la battuta vien da sé). È la follia fatta suono: perfetta quanto irrimediabilmente legata all’istante dell'ascolto.
Quella di Paolo Fresu, invece, avvolge, e te lo porti dentro per giorni. Non ne puoi fare a meno, e nello stesso tempo hai quasi il terrore di sperimentarla in nuovi brani, perché è così unica e assoluta che diventa fisicamente impegnativo avventurarsi dentro altri suoni.
L’abbiamo ascoltata nella Sala dei 400 di Orvieto, durante Umbria Jazz Winter, e mi sento di dire che - dopo gli scrosci delle Cascate di Iguaçu - è stata una delle più sorprendenti esperienze spirituali che abbia mai provato; io che non sono credente, e non sopporto le mode esoteriche di certe proverbiali zecche.
Avevamo due posti eccezionali, per posizione e visibilità. La sala era un continuo architetturare di elementi antichi e di soluzioni moderne, per cercare di mantenerla in un buon alveo musicale. Acustica peregrina a parte, tutto molto suggestivo. Di fronte a noi, un semplice pianoforte respira in attesa di un prossimo concerto. Poi, cinque sedie, quattro per l’Alborada String Quartet; una per Fresu.
Solo il quartetto si siede, le luci calano poco (gravissima pecca per come si sono evolute poi le note), e gli archi cominciano a suonare. Ma Fresu dov’è? Fresu dov’è? Il quartetto continua col suo canone, anche abbastanza “facile” se vogliamo. E Fresu non si materializza da nessuna parte.
Poi, come se fosse ovvio, spontaneo e naturale, una sontuosa ed elegantissima nota di flicorno comincia a viaggiare dall’entrata della sala, lì in fondo, dove i commessi fanno a gara a chi si annoia di più. Le nota gira per la sala, percorre il corridoio, per poi avvolgere sapientemente l’intero quartetto, Fresu ancora non c’è, ma la sua musica sì.
Il resto è stata una costante e inebriante successione di momenti musicali veramente indimenticabili, precisi quanto eterei, tecnici quanto spontanei. 
Un concerto strabiliante, insomma, dove il piccolo sardo ha commistiato sapientemente tradizione antica e attitudini moderne (quanto dell'amico Jon Hassell pervade la sua tecnologia, eh?), a conferma della citazione mahleriana che troviamo come prefazione alla sua biografia: "La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere".
Qualche pezzo da novanta del jazz lo ha definito "Napoleone": eppure, Fresu sembra di un'umiltà e di una disponibilità complete. Lo si percepisce sia nella sua musica, sia nel suo suono, che nel suo modo di parlare col pubblico e di porsi con gli strumenti e con i compagni di esibizione.
Un concerto, insomma, che mi ha dato molto da pensare, anche sul piano profondamente intimo e personale, e che mi ha aperto delle porte nuove, forse difficili da varcare, ma sicuramente stimolanti e avvincenti.

27 aprile 2009

è morto Arrigo Quattrocchi

Oggi questo blog si ferma. Perché un grande dolore mi ha colpito come una mazzata: è morto Arrigo Quattrocchi, un grande del panorama critico musicale non solo italiano.
Due lustri fa fui al servizio di Arrigo per sei meravigliosi mesi, in quel di Esercizi di Memoria, una bellissima trasmissione radiofonica. Eravamo una grande squadra. Ci coordinava Flavia Pesetti, una vera Signora di altri tempi: delicata, educata e ferma nel bisogno. Di quella squadra già era scomparso Massimo Billi, noto romanista dei tempi che furono.
Adesso Arrigo.
E dire che l'avevo letto già da giovanissimo, senza mai immaginare che l'avrei conosciuto, quando approfondivo senza guida alcuna il mondo della cosiddetta musica colta, proprio e anche attraverso i suoi testi su Musica & Dossier (straordinario periodico della Giunti migliore).
Di Arrigo potrei dire tantissime cose, tutte belle e tutte profonde. Anche perché ero il suo assistente, il suo regista, il suo annunciatore, il suo umile servitore (nel senso più romantico del termine).
Un aneddoto. Dovevamo trasporre in digitale un'opera monumentale di Wagner. Ere fa la Rai l'aveva solo registrata nei cosiddetti padelloni. Poco più grande dei 33 giri, potevi registrarci solo 15 minuti di audio. Per cui i gloriosi tecnici Rai appena si avvicinava la fine del supporto, cominciavano a registrare su un altro padellone gli ultimi due minuti. Così non si perdeva nulla. Col tecnico mettevano poi il materiale grezzo su supporti ipertecnologici. Poi dovevamo scovare i due minuti che i due supporti avevano in comune, trovare al millesimo di secondo l'esatto punto del taglio e tagliare.
Arrigo ci guardava divertito, perché proprio lì sarebbe stato l'unico e fondamentale vigile e arbitro di quel lavoro. Noi non contavamo più un tubo. Ebbene, gli bastava sentire di sfuggita una singola nota e immediatamente la scovava nell'enorme tomo della partitura. Ce la indicava distrattamente e poi ci diceva come, dove e quando tagliare. Non ne sbagliava mai una.
E se poco poco gli chiedevi una notazione storica in merito, ti ammaliava con la sua disarmante semplicità di uomo dotto sopra ogni cosa. E senza vaniloquenza, senza termini complessi, senza fare il fighetto.
Quando inventai il primo sito di Cinema Ebraico in Europa, gli chiesi conto dell'importanza della tradizione musicale ebraica nella musica che Visconti aveva rubato dalla Quinta Sinfonia di Mahler. Fu la pagina più letta tra tutte quelle che avevo compilato con scientifica cura.
Qui di seguito vi propongo il nostro ultimo scambio epistolare... dimenticavo: una rara malattia aveva costretto Arrigo a vivere su una sedia a rotelle elettrica. Poteva muovere la testa e parte delle dita. Lui che sapeva suonare con grazia quelle note che ancora risuonano nel mio cuore.



----- Original Message -----

From: Alessandro
To: Arrigo
Sent: Tuesday, February 03, 2009 11:04 AM
Subject: un caro saluto


Caro Arrigo,
sei sempre nel mio cuore, e lo sai.
Poi magari non ci sente, legge e cose simili. Ma resti sempre un punto fermo della mia vita.
Appena tornato a Roma, il 7 gennaio mi sono frantumato la mia gamba sana.
Il che ha comportato un’operazione di ricostruzione delicatissima di oltre sei ore in anestesia generale, i cui giusti esiti si potranno conoscere solo tra qualche mese.
Insomma: sono obbligato a non posare l’arto e cose simili.
Vivo dentro una sedia a rotelle.
Ho la fortuna di sapere che prima o poi ne uscirò.
Se prima ti stimavo in senso idealistico e solidale, adesso sei il mio faro di riferimento.
Ad ogni difficoltà che incontro, ad ogni minima cretinata che mi impedisce di “vivere” come vorrei, penso a te.
Lascia perdere il tuo cinismo e tutto il resto.
Sei il mio eroe. Punto e basta.
Ti abbraccio con tanto affetto
Alessandro

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Da: Arrigo
Inviato: martedì 10 febbraio 2009 2.16
A: Alessandro
Oggetto: Re: un caro saluto



Carissimo Alessandro,
scusa per il ritardo con cui ti rispondo.
Credimi, non ho la stoffa dell'eroe, e non ho mai pensato di essere un eroe. Gli eroi si sacrificano per qualcosa, io non mi sacrifico, e cerco solo di vivere la mia giornata quanto più agevolmente possibile. L'ammirazione di cui mi fai oggetto da una parte mi lusinga, da un'altra mi trova un po' distaccato. In fondo, quando uno si trova in una certa situazione, o affonda o galleggia, e allora cerchiamo di galleggiare al meglio, valutando e calibrando ogni opportunità per una migliore qualità della vita. E questo vale per tutti.
Spero piuttosto che tu possa presto ritrovare una condizione fisica migliore, che ti faccia tornare in piena forma.
Un forte abbraccio,
Arrigo

19 marzo 2008

le mie lacrime per Minghella

Appena ho saputo della morte di Anthony Minghella (6/1/1954-18/3/2008) mi sono commosso. Pesantemente commosso.
Lo so, non è un grande regista, non ha uno stile formale ben codificabile, ma ha diretto uno dei più bei polpettoni degli ultimi anni, prendendo spunto solo da pochissime righe contenute nel romanzo originale.
E le gesta, il romanticismo, la grazia del Paziente inglese me le porto dentro da sempre, ben prima che venisse girato il film. Fanno parte del mio carattere.
Ancora oggi, quando guardo il fosso della giugulare di mia moglie, mi vien da chiamarlo il bosforo di Almacy. E quando penso al nostro viaggio in Egitto, non posso che rivedere quelle foto e quei momenti attraverso la musica mahlerian bachiana di Gabriel Yared. E quando penso agli esploratori del '900, a Erodoto, alla Caverna dei Tuffatori, all'Anabasi di Senofonte, ai venti... mi vedo circondato dai volti di Ralph Fiennes, Kristin Scott Thomas, Willem Dafoe e Juliette Binoche.
Ma soprattutto ripenso a questa scena.
So long, Minghella, so long...



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