quello che delle donne non dicono

L'altro giorno, appena si è saputa la notizia dell'assoluzione di tutti gli imputati dell'omicidio di Cucchi, i giornalisti de ilPost si sono affrettati a fare un parallelo tra la sua morte e quella di Pinelli.
Al di là della totale mancanza di stile - il direttore del periodico online è pur sempre il figlio del mandante dell'omicidio di chi fu ritenuto a torto il responsabile della morte dell'anarchico (scusate il lungo inciso) - ci sono almeno due elementi nodali di cui nessuno ha tenuto conto.
Il primo è storico: il caso Pinelli coinvolge un modo di essere delle Forze dell'Ordine che sicuramente è cambiato nel tempo, nella forma e nella sostanza. 
È vero che ci sono stati recenti casi terribili - e altrettanti poco noti - che hanno coinvolto una parte consistente delle Forze dell'Ordine (Genova in primis), ma è anche vero che proprio la Storia ha sempre più negato alle stesse Forze dell'Ordine l'alibi del dover agire come vorrebbero perché necessario. Non c'è più il terrorismo interno, insomma; ergo, l'opinione pubblica non è più disposta a chiudere gli occhi.
Ma fino ad un certo punto. C'è ancora una sottile linea invisibile che mantiene molto alta la potenzialità di una deflagrazione incontrollabile.
Infatti, quando le Forze dell'Ordine si lasciano sfuggire di mano la situazione, contano sul fatto che le cause sono in qualche modo ascrivibili alla necessità di risolverle solo con la violenza, perlomeno per come appaiono e per come vengono fatte apparire.
Vedi, appunto, Genova. Vedi, appunto, Cucchi: pensate che dopo la sentenza assolutoria, un sindacalista della Polizia ha solennemente precisato che "Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze".
È vero però che le Forze dell'Ordine subiscono anche uno specioso canone di sospensione etica: quella di chi non sopporta la Legge, di cui gli uomini in divisa dovrebbero essere i tutori estremi. 
Ebbene, l'italiano medio non crede nella Legge - nella sua forma più kantiana possibile - e mal sopporta chi la dovrebbe far applicare. In più, gli eredi del '68 - e i loro figlietti - fanno di tutto per sconfessare la Legge - e quindi i suoi tutori in toto - parandosi dietro la furba autorevolezza di un garantismo che invece è di maniera.
Messe insieme le due cose, quindi, abbiamo uno scenario apparentemente nebuloso, sicuramente friabile e comunque estremamente dannoso, che nessun Ministro degli Interni ha (avuto) la capacità - e anche il coraggio, diciamolo - di risolvere. Anche perché, a volte si ha l'impressione che questo doppio pesismo faccia comodo a molti; sicuramente non al cittadino che non viene tutelato, non al milite onesto che fa bene il proprio dovere, non al politico integgerrimo che vuole credere in un'Italia giusta e nel contempo sicura (sempre che esista questo tipo di politico, eh!).
Ebbene, qui mi sento di tirare in ballo il secondo elemento nodale di cui nessuno sta tenendo conto. Le persone che stanno perorando la giusta Giustizia, una buona Italia e una giusta Polizia... sono donne, tutte donne.
Attenzione, non come la Boldrini, che ha avuto la rara capacità di diventare antipatica e insopportabile due-minuti-due dopo l'insediamento; ma donne vere, di quelle che masticano le difficoltà della vita ogni santo giorno. 
Donne che conoscono le pene della quotidianità e le affrontano con un altissimo senso dell'onore, della dignità, dell'etica.
La moglie di Pinelli, la moglie di Calabresi, la mamma di Giuliani, la moglie di Raciti, la mamma di Aldrovrandi, la sorella di Cucchi... incredibile, tutte donne. Tutte dignitose. Tutte umili e risolute.
Un esempio.
Per tutti noi.

se è vero, fa pensare

Ma in quali radici affondano le intese tra reduci del PCI e Berlusconi? Temporalmente parlando si risale a prima della caduta del muro di Berlino. A quando, secondo la storia alla Orwell di oggi, il PCI prendeva montagne di rubli da Mosca e Berlusconi sosteneva il mondo libero. Ma rubli e “mondo libero” sono questioni degli anni ‘50 mentre negli anni ‘80 l’integerrimo anticomunista Berlusconi il PCI lo finanziava eccome. E finanziava proprio la corrente del PCI di Giorgio Napolitano, per capire come i protagonisti del decreto di oggi non solo si conoscano da tempo ma abbiano storiche intese suggellate da finanziamenti e da convergenze di interessi di potere.
Del resto, proprio nel 1987 a Roma il PCI organizzò un convegno sul futuro della televisione italiana. I tre principali relatori furono Massimo D’Alema, Walter Veltroni e..Silvio Berlusconi. Il quale, lungi dallo scatenarsi contro i comunisti, fece una relazione densa di elogi verso il PCI per il ruolo che questo aveva assunto per lo sviluppo della comunicazione e del pluralismo in Italia.

[...]

Napolitano viene da lontano. Era migliorista e berlusconiano. Gli articoli del suo settimanale “Il Moderno” (con pubblicità Finivest anni ‘80) superano persino le poesie di Bondi al “caro leader”.
“Ad aprile del 1985 esce a Milano il primo numero de Il Moderno, mensile (poi settimanale) della corrente “migliorista” del Pci (la destra tecnocratica e filo-craxiana del partito, guidata da Giorgio Napolitano). Animato da Gianni Cervetti… all’insegna dello slogan “l’innovazione nella società, nell’economia, nella cultura” (p. 104).”
“Intanto a Milano il numero di febbraio 1986 de Il Moderno… scrive che “la rivoluzione Berlusconi [è] di gran lunga la più importante, cui ancora qualcuno si ostina a non portare il rispetto che merita per essere stato il principale agente di modernizzazione, nelle aziende, nelle agenzie, nei media concorrenti. Una rivoluzione che ha trasformato Milano in capitale televisiva e che ha fatto nascere, oltre a una cultura pubblicitaria nuova, mille strutture e capacità pro duttive” (p. 115)”.
«Il numero di aprile 1987 … esce con un’intera pagina pubblicitaria della Fininvest. È la prima di una lunga serie di inserzioni pubblicitarie dalla misteriosa utilità per l’inserzionista, dato che il giornale è semi-clandestino e vende meno di 500 copie… Intanto uno dei fondatori del Moderno, l’onorevole Gianni Cervetti, alla metà di aprile è di nuovo a Mosca… E il 18 aprile l’a genzia Ansa da Mosca informa che in Urss, insieme al compagno Cervetti, c’è anche Canale 5… (pp 126 — 127)”.
“A giugno 1989 … pubblica un megaservizio su Giocare al calcio a Milano. Con un panegirico sul Berlusconi miracoloso presidente milanista che “ha cambiato tutto: adesso la sua squadra è una vera e propria azienda,” e così via. Il giornale della corrente di destra del Pci è ormai un bollettino della Fininvest, e le pagine di pubblicità comprate dal gruppo berlusconiano ormai non si contano (p. 148)”.(*)

Se non è vero, Napolitano deve querelare: le fonti sono questa e soprattutto questa; vediamo che succede.

Cronkite, ovvero:il giornalista eterno

Quasi due anni fa parlai brevemente della mia tesi di laurea perché era intrisa di mito americano. Ma non quel mitologismo stereotipato e veltroniano in cui JFK era fico, bello e bravo; semmai una mitologia assoluta, in cui l'America è un mito che va oltre se stesso.
Durante la discussione della tesi osai affermare che la Guerra del VietNam era stata persa prima grazie a Cronkite, poi grazie alle manifestazioni, solo alla fine grazie ai buoni uffici di Kissinger. "Orribile auditu", sentenziò una commissaria, "la televisione non può essere arbitra dei destini di una nazione!".
E già, nonostante fossimo già dentro al berlusconismo, la tipa era così fuori dal mondo da non aver capito nulla dell'importanza dei mass media.
Fatto sta che per me Cronkite è l'America. Non riesco ad immaginare un film senza il suo faccione uscire fuori dalla televisione del tinello della tipica famiglia wasp.
La morte di Cronkite è inconcepibile e inimmaginabile. Secondo me è ancora vivo: siamo noi che ci siamo trasferiti sul digitale terrestre.
So long, Walter, so long.

private rules

In un paese come il nostro, dove nel privato le cose funzionano (magari a prezzo di torti sui singoli di cui mai si parla) e nel pubblico le cose vanno a rilento, condite da maleducazione e sciatteria, quello che mi è accaduto l'altro giorno ha dell'incredibile.
Tra le poche cose buone ereditate dalla gestione Veltroni c'è un nuovo contratto di gestione per conto terzi per la riscossione dei pagamenti per il posteggio. Le famose strisce blu, insomma.
Queste piccole torri celesti sono meno ingombranti e funzionano a energia solare. In più hanno un design minimalista quasi accattivante: rendono decenti persino questi marciapiedi perennemente zozzi e maleodoranti. Ne hanno installata una sotto le mie finestre. Ma nel giro di una notte è successo qualcosa per cui ha iniziato a fischiare come una pazza. Un sibilo tollerabile di giorno, ma che di notte stava diventando un incubo.
Dato che sono un rompicoglioni, e vedendo le solite vecchiette lamentarsene senza muovere il culo, mi son segnato la matricola e il modello, ho trovato il sito web del produttore e quindi ho compilato in ogni sua parte un form predisposto.
Il tempo di cliccare su ok, controllare la posta, mettere in stand by il pc... insomma, passa un'ora e per pura curiosità mi affaccio alla finestra: i tecnici erano già presenti sul posto! Il giorno dopo la società si scusava per l'inconveniente e mi ringraziava per la civile segnalazione.

la mia lettera su Repubblica (la sporcizia di Roma)

Oggi nella rubrica dei commenti di Repubblica appare un'altra mia contumelia sulla sporcizia di Roma, cui Augias dà una risposta comunque interessante.

Intanto vi propongo la mia lettera (nella sua versione integrale); appena il sito rende disponibile la risposta di Augias, aggiornerò questo post (citando la fonte, come uso fare sempre):

Caro Augias,

a me piacerebbe - mi creda: con affetto - che Repubblica ammettesse di essere stata un po’ di parte nei confronti della sporcizia romana. Ho girato TUTTE le principali capitali europee (anche quelle dell’est) e mai ho riscontrato lo schifo che viviamo noi romani da almeno vent’anni. I romani sono zozzoni, senza tanti giochi di parole. Però le responsabilità morali e istituzionali sono anche di Rutelli e Veltroni, ammettiamolo una buona volta!

È inutile tirar fuori la complicata gestione di un’area urbana enorme o un indotto quotidiano di 600.000 pendolari perché Berlino e Parigi vivono problemi analoghi e certe schifezze lì non accadono. Non parliamo di indebitamento che limiterebbe certi rimedi, perché sempre Berlino come anche l’”anarchica” Barcellona lo sono, ma hanno un rigore e una freschezza imbarazzanti.

Non c’è scusa che tenga, ecchediamine.

Il discorso semmai va rivolto alle costanti reazioni ufficiali che si registrano ogni volta che qualcuno propone(va) un rimedio. Scritte sui muri e sui monumenti? Veltroni propose aree di sfogo (qui sì, lì no… come se un ragazzino sappia fare distinzioni); un giornalista dell’Unità scrisse “ma che sporchino, che poi ripuliamo”! Non si è credibili così!

Moto sui marciapiedi? De Carlo propose di toglierle seduta stante, ma poi qualcuno gli disse che avremmo perso voti! Come sarebbe a dire: se un politico propone cose simili, poi non viene votato?!

Deiezioni canine? Qui siamo al paradosso: Veltroni aprì aree per cani… tra cui tutto il Circo Massimo! Un monumento adibito a canile?! Poi sparò l’idea delle kamoto. Poi multe rigorose. Tutte favole mai concretizzate.

Schiamazzi notturni. Anziché scoraggiarli RutelVeltroni perpetuarono un festival cinematografico estivo a ridosso delle mura di un ospedale! Che razza di esempio è questo?

Gli invalidi vengono derubati dei posti e della dignità. E come risposero i due RutelVeltroni? Con quattro-scivoli-quattro così in pendenza che neanche Armstrong riuscirebbe a risalirli!

Queste cose io le ho scoperte vivendole, e non perché Repubblica le abbia documentate. Solo ora si fanno corpose inchieste sulle buche. Solo ora si parla concitatamente di queste cose. Perché c’è Alemanno il fantasmone? Quale ipocrisia.

Vogliamo Roma all’altezza di TUTTE le capitali europee? Bene, iniziamo con l’essere credibili politicamente e giornalisticamente.

Sempre con affetto e stima,

Alessandro L.

update

ROMA PULITA RESTERÀ UN MIRAGGIO

Repubblica — 28 maggio 2009 pagina 30 sezione: COMMENTI

Caro Augias, ho girato molte capitali europee (anche all' est) e mai ho riscontrato lo schifo che viviamo noi romani da anni. I romani sono zozzoni (gergalismo), è vero. Però le responsabilità morali e istituzionali sono anche di Rutelli e Veltroni, ammettiamolo! E inutile tirar fuori la complicata gestione di un' area urbana enorme o i 600 mila pendolari al giorno perché Berlino e Parigi vivono problemi analoghi e certe schifezze lì non accadono. Non parliamo di debiti che limiterebbero i mezzi, perché sempre Berlino come anche "l' anarchica" Barcellona li hanno, ma hanno un rigore e una freschezza imbarazzanti. Il discorso semmai va rivolto alle reazioni ufficiali che si registrano ogni volta che qualcuno propone un rimedio. Scritte sui muri e sui monumenti? Veltroni propose aree di sfogo (qui sì, lì no. Come se un ragazzino potesse distinguere); un giornalista dell' Unità scrisse «ma che sporchino, che poi ripuliamo»! Non si è credibili così! Deiezioni canine? Qui siamo al paradosso: Veltroni aprì aree per cani. tra cui tutto il Circo Massimo! Un monumento adibito a canile?! Poi l' idea delle kamoto. Poi multe rigorose. Tutte favole. Alessandro Loppi

Faccio con il lettore Loppi e con i lettori una scommessa: Alemanno amministra questa città da un anno e Roma, come assicura il presidente del Consiglio, sembra una città africana. Ammettiamo per comodità che le città africane siano sporche e sciatte come Roma. La scommessa è questa: avendo concesso ad Alemanno che un anno è poco per valutare un' amministrazione, diamoci appuntamento tra altri due anni. Scommettiamo che nel maggio 2011 Roma sarà sporca e sciatta proprio come ora? Chi conosce il centro della città sa che ci sono lastre di marmo murate qua e là che minacciano multe salate di ' scudi dieci' e perfino punizioni corporali a chi «farà monnezzaro in questa via». Risalgono al XVII al XVIII secolo ma potrebbero essere state messe ieri, la loro attualità è perenne. Il presidente del Consiglio dopo aver scagliato la sua giusta invettiva ha subito aggiunto una stupidaggine: Roma è sporca per colpa della sinistra. Non è questione di destra o sinistra, è proprio questione di Roma, anzi dei romani. A Roma, e comunque dal Lazio, comincia il Mezzogiorno d' Italia dove gli spazi pubblici sono spazi non di tutti ma di nessuno, dove si possono lasciare dove capita la cacche dei cani e i vecchi frigoriferi rotti, si possono imbrattare monumenti vecchi di trenta o quaranta secoli e nessuno dice niente. Per esempio il venerando obelisco egiziano di piazza del Popolo, deturpato anche giorni fa con scritte fesse per festeggiare la vittoria della Lazio.

Perry Anderson: An Invertebrate Left

An Invertebrate Left

Perry Anderson on Italy’s Squandered Heritage

The Italian left was once the largest and most impressive popular movement for social change in Western Europe. Comprising two mass parties, each with its own history and culture, and each committed not to ameliorating but to overcoming capitalism, the postwar alliance between Socialists and Communists, the PSI and PCI, did not survive the boom of the 1950s. In 1963, Pietro Nenni took the Socialists into government for the first time as junior partners of the Christian Democrats, on a path that would ultimately lead to Bettino Craxi, leaving Italian Communism in unchallenged command of opposition to the Christian Democrat regime. From the beginning, the PCI had been organisationally and ideologically the stronger of the two, with a wider mass base – more than two million members by the mid-1950s, extending from peasants in the South through artisans and teachers in the middle of the country to industrial workers in the North. It also had a richer intellectual heritage, in Gramsci’s newly published Prison Notebooks, whose significance was immediately recognised well beyond the party. At its height, the PCI could draw on an extraordinary range of social and moral energies, combining both deeper popular roots and broader intellectual influence than any other force in the country.

Confined by the Cold War to forty years of national opposition, the party entrenched itself in local and later regional administrations, and in the parliamentary commissions through which Italian legislation must pass, becoming entwined with the ruling order at many secondary levels. But its underlying strategy remained more or less stable throughout. After 1948, the spoils of the Liberation were divided. Power fell to the DC; culture to the PCI. Christian Democracy controlled the levers of the state, Communism attracted the talents of civil society. The PCI’s ability to polarise Italian intellectual life around itself, not only in a broad arc of scholars, writers, thinkers and artists but a general climate of progressive opinion, was without parallel elsewhere in Europe. Thanks in part to the sociology of its leadership, which unlike that of the French, German, British or Spanish Communist Parties, was for the most part highly educated, and in part to a relatively tolerant and flexible handling of the ‘battle of ideas’, its dominion in this sphere was the really distinctive asset of Italian Communism. But it came at a twofold price to which the party remained persistently blind.

For the extent of the PCI’s influence across the world of thought and art was also a function of the degree to which it assimilated and reproduced the dominant strain in a pre-existent Italian culture of long standing. This was the idealism which had found its most powerful, though by no means unique modern expression in the philosophy of Benedetto Croce, a figure who over the years had acquired an almost Goethe-like position in the intellectual life of the country. It was Croce’s historicist system, its prestige underwritten by the attention given it in prison by Gramsci, that became naturalised as the circumambient ether of a great deal of the postwar Italian culture over which the PCI, directly or indirectly, presided. But behind it lay much older traditions that accorded pre-eminence to the realm of ideas, conceived as will or understanding, in politics. Between the fall of the Roman Empire and the completion of the Risorgimento, Italy never knew a peninsular state or aristocracy, and most of the time was subject to an array of conflicting foreign powers. The result, for long stretches, was to create an overwhelming sense of the gap between past glory and present misery among its educated elites. From Dante onwards, there developed a tradition of intellectuals with a strong sense of their calling to recover and transmit the high culture of classical antiquity, and imbued with the conviction that the country could be put to rights only by the impress of revivifying ideas, of which only they could be the artificers, on fallen realities. Culture was not a sphere distinct from power: it was to be the passport to it.

In good measure, Italian Communism inherited this habit of mind. The novel form it gave to a national predisposition was drawn from, if not faithful to, Gramsci. In this version, ‘hegemony’ was a cultural and moral ascendancy to be won consensually within civil society, as the real foundation of social existence, which could eventually assure peaceful possession of the state, a more external and superficial expression of collective life. On this view, the commanding position the party had won in the intellectual arena showed it was on track to ultimate political victory. This was not what Gramsci had believed. A revolutionary of the Third International, he had never thought capital could be broken without force of arms, however important the need to win the widest popular consent for the overthrow of the ruling order. But it fitted the idealist cast of the culture at large. Within the intellectual sphere itself, moreover, the PCI reproduced the humanist bias of the traditional elites, for whom philosophy, history and literature had always been the fields of choice. Missing from the party’s portfolio were the more modern disciplines of economics and sociology, and the methods they had attempted to borrow, for better or worse, from the natural sciences. Formidable though its positions looked at the heights of a hallowed cultural hierarchy, it was weaker lower down, with serious consequences in due course.

For when the two great changes that would alter the ecology of the PCI in postwar Italy hit the party, it was quite unprepared. The first was the arrival of a fully commercialised mass culture, of a kind still unimaginable in the world of Togliatti, let alone of Gramsci. Even in its heyday, there had been certain obvious limits to the influence of the PCI, and more generally of the Italian left, in the cultural scene, since the Church occupied such a large space in popular belief and imagination. Below the level of the universities, publishers, studios or journals in which the mouvance of the party was so widespread, and distinct from the strongholds of the liberal bourgeois establishment in the press, an undergrowth of conformist magazines or shows tailored to the middle or lowbrow tastes of DC voters had always flourished. From its vantage-points in the elite culture, the PCI could view this universe with tolerant condescension, as expressions of the legacy of a clerical past whose importance Gramsci had long stressed. It was not threatened by it.

The inrush of a completely secular, fully Americanised mass culture was another matter. Caught unprepared, the party’s apparatus and the intelligentsia that had formed around it were knocked sideways. Although critical engagement with pulp was not lacking in Italy – Umberto Eco was a pioneer – the PCI failed to connect. No creative dialectic, capable of resisting the blows of the new by transforming relations between the high and low, materialised. The case of the cinema, where Italy had above all excelled after the war, can be taken as emblematic. There was no relay of the generation of great directors – Rossellini, Visconti, Antonioni – who had made their debut in the 1940s or early 1950s, and whose last important works cluster in the early 1960s. Missing thereafter was any combustible crossing of avant-garde with popular forms to compare with Godard in France or Fassbinder in Germany; later on, only the weak brew of Nanni Moretti. The result was a gap so large between educated and popular sensibilities that the country was left more or less defenceless against the cultural counter-revolution of Berlusconi’s television empire, saturating the popular imaginary with a tidal wave of the crassest idiocies and fantasies – schlock so wretched the very term would be too kind for them. Unable to confront or turn the change, for a decade the PCI sought to resist it. The party’s last real leader, Enrico Berlinguer, personified austere contempt for the self-indulgence and infantilism of the new universe of cultural and material consumption. After he had gone, the step from unbending refusal to gushing capitulation was a short one – Walter Veltroni coming to resemble a beaming picture-card out of the schoolboys’ albums he made his name distributing with copies of Unità, when he became editor of the paper.

If the PCI’s idealism disabled it from grasping the material drives of the market and media that transformed leisure in Italy, the same lack of economic or sociological antennae prevented it from detecting no less decisive changes in the workplace. Already by the turn of the 1960s, it was paying less attention to these than the levy of young radicals who would go on to produce the peculiarly Italian phenomenon of operaismo, one of the strangest intellectual adventures of the European left of the period.[*] Unlike the PCI, the postwar PSI had possessed at least one major figure, Rodolfo Morandi, whose Marxism was of a less idealist cast, focused on the structures of Italian industry, of which he was the author of a famous study. In the next generation, he found a gifted successor in Raniero Panzieri, a PSI militant who, having shifted to Turin, started to investigate the condition of factory workers in the Fiat plants, gathering round his enterprise a group of younger intellectuals, many (Antonio Negri among them) but not all originally from Socialist youth organisations. Over the next decade, operaismo developed into a protean force, throwing up a succession of seminal, if short-lived journals – Quaderni rossi, Classe operaia, Gatto selvaggio, Contropiano – exploring the transformations of labour and industrial capital in contemporary Italy. The PCI had nothing comparable to show, and paid scant attention to this ebullition, even though at this stage the most influential of the new theorists was a youngster from its own ranks in Rome, Mario Tronti. This was a milieu whose culture was essentially foreign to the party, indeed declaratively hostile to Gramsci, taxed with spiritualism and populism.

The impact of operaismo came not just from the inquiries or ideas of its thinkers, but their connection with the upsurge of new contingents of the working class: young immigrants from the South, rebelling against low wages and oppressive conditions in Northern factories – not to speak of Communist-led unions disconcerted by spontaneous outbreaks of militancy or unexpected forms of struggle. To have anticipated this turbulence gave operaismo a powerful intellectual headwind. But it also fixated it on the moment of its original insight, leading to a romanticisation of proletarian revolt as a more or less continuous flow of lava from the factory floor. By the mid-1970s, aware that Italian industry was changing once again, and workshop militancy was in decline, Negri and others would fall back on the figure of ‘social labour’ in general – virtually anyone employed, or unemployed, wherever, by capital – as the bearer of immanent revolution. The abstraction of this notion was a sign of desperation, and the apocalyptic politics that accompanied it took this wing of operaismo into a dead end by the late 1970s. The PCI, however, after missing the mutation of the 1960s, had not learned from it, and offered nothing better by way of an industrial sociology. So it was that when the Italian economy underwent further, critical changes in the 1980s, with the rise of small export firms and a black economy – the ‘second Italian miracle’, as it was hopefully referred to at the time – the party was unprepared again, and this time the blow to its standing as the political representative of the collective labourer proved fatal. Twenty years later, just as the triumph of Forza Italia would dramatise its failure to react in time to intervene in the massification of popular culture, so the victories of the Northern League would reveal its inability to respond in time to the fragmentation of postmodern labour.

These were deficits of a mentalité with deeper sources than the party’s Marxism, a classical sense of intellectual values that for all its limitations was in its own fashion rarely less than honourable, often admirable. There was another and more damaging side to the same idealism, however, that was specific to Italian Communism, and for which it bore conscious political responsibility. This was a strategic reflex that never really altered from the Liberation onwards, and whose after-twitches continue today. When Togliatti returned from Moscow to Salerno in spring 1944, he made it clear to his party that there could be no attempt at making a socialist revolution in Italy on the heels of the expulsion of the Wehrmacht, already foreseeable. The Resistance in the North, in which the PCI was playing a leading role, could supplement but not substit-ute the Anglo-American armies in the South as the main force to drive the Germans out of the country, and it was the Allied High Command that would call the shots once peace was restored. After twenty years of repression and exile, the task of the PCI was to build a mass party and play a central role in an elected assembly to put Italy on a new democratic basis.

This was a realistic reading of the balance of forces in the peninsula, and of the determination of Washington and London not to permit any assault on capital in the wake of German defeat. A postwar insurrection was not on the agenda. Togliatti, however, went much further than this. In Italy, the monarchy which helped install, and then comfortably cohabited with Fascism, had ousted Mussolini in the summer of 1943, fearful of going down with him after the Allies landed in Sicily. After a brief interval, the king fled with Badoglio, the conqueror of Ethiopia, to the South, where the Allies put them atop an unaltered regional administration, while in the North the Germans set up Mussolini at the head of a puppet regime in Salò. When the war came to an end, Italy was thus not treated like Germany, as a defeated power, but as a chastened ‘co-belligerent’. Once the Allied troops were gone, a coalition government, comprising the left-liberal Partito d’Azione, Socialists, Communists and Christian Democrats was faced with the legacy of Fascism, and the monarchy that had collaborated with it. The Christian Democrats, aware that their potential voters remained loyal to the monarchy, and recognising that their natural supports in the state apparatus had been the routine instruments of Fascism, were resolved to prevent anything comparable to German de-Nazification. But they were in a minority in the cabinet, where the secular left held more posts.

At this juncture the PCI, instead of putting the DC on the defensive by pressing for an uncompromising purge of the state – cleaning out all senior collaborationist officials in the bureaucracy, judiciary, army and police – invited it to head the government, and lifted scarcely a finger to dismantle the traditional apparatus of Mussolini’s rule. So far from isolating Christian Democracy, Togliatti manoeuvred to put its leader, De Gasperi, at the head of the government, and then joined with the DC – to the indignation of the Socialists – in confirming the Lateran Pacts that Mussolini had sealed with the Vatican. The prefects, judges and policemen who had served the Duce were left virtually untouched. As late as 1960, 62 out of 64 prefects had been minions of Fascism, and all 135 of the country’s police chiefs. As for judges and officers, the unreconstructed courts acquitted the torturers of the regime and convicted the partisans who had fought against them, retrospectively declaring combatants of the Fascist Republic of Salò legitimate belligerents, and those of the Resistance illegitimate – the latter hence liable to summary execution after 1943, without penal sanctions for the former after 1945. These enormities were a direct consequence of the actions of the PCI. It was Togliatti himself who, as minister of justice, promulgated in June 1946 the amnesty that enabled them. A year later, the party was rewarded with an unceremonious ejection from the government by De Gasperi, who no longer had need of it.

The postwar history of Italy was thus to be entirely unlike that of Germany, where there had been no popular Resistance. Nazism was destroyed by both the extremity of military defeat, and the uprooting of the subsequent Allied occupations. In the Federal Republic, Fascism could never raise its head again. In Italy, by contrast, the Resistance bequeathed an ideology of – patriotic – anti-Fascism, whose ubiquitous official rhetoric, in which the PCI took the lead, covered the actual continuities of Fascism, both as an inherited apparatus of laws and officials, and as an openly proclaimed creed and movement. Reconstituted as the MSI, the Fascist party was soon sitting in Parliament again, and eventually received into the establishment under its leader, Giorgio Almirante. Exalting Mussolini’s anti-semitic laws, this figure had told his compatriots in 1938 that ‘racism is the vastest and bravest re-cognition of itself that Italy has ever attempted,’ and in 1944, after Mussolini had been airlifted north by the Germans, that if they did not enlist as fighters for the Republic of Salò, they would be shot in the back. When Almirante died in the 1980s, Togliatti’s widow was among the mourners at the funeral. Today Gianfranco Fini, his appointed heir, is speaker of the Chamber of Deputies, and probable successor to Berlusconi as prime minister.

Beyond the obvious reproaches to this trajectory, what is most damning in the PCI’s part in it is its self-destructive futility. When it had a chance to weaken Christian Democracy by sinking the sword of an intransigent anti-Fascism into its flanks, to cut it away from the reactionary constituencies that had sustained Mussolini’s regime, it did just the opposite, helping the DC to establish itself as the dominant force in the country, by passing a lenifying sponge across collaboration with the regime. In so doing, it simply consolidated the conservative bloc under clerical command that would shut it out of power till its dying day. In this debacle, the party’s conduct was without international excuse. Revolution may have been ruled out in postwar Italy, but by 1946 the Allies had essentially left the country, and were in no position to halt a lustration of Fascism. Togliatti’s naivety in being so completely outmanoeuvred by De Gasperi had little to do with external influences. It was rooted in a strategic conception he had derived from Gramsci, interpreted through the gauze of Croce and his forebears. The pursuit of political power, Gramsci had written, required two kinds of strategy, whose terms he took from military theory, a war of position and a war of manoeuvre: trench or siege warfare, as against mobile assault. The Russian Revolution had exemplified the second; a revolution in the West would, for a considerable period, require the former, before eventually passing over to the latter. Just as it had diluted Gramsci’s notion of hegemony simply to its consensual moment, fixing it essentially in civil society, so under Togliatti the PCI reduced his conception of political strategy to a war of position only, the slow acquisition of influence in civil society, as if no war of manoeuvre – the ambush, sudden charge, rapidly wheeling attack, catching class enemies or the state by surprise – were any longer needed in the West. In 1946-47, De Gasperi and his colleagues did not make the same mistake.

By 1948 the popular élan of Liberation was broken. The onset of the Cold War brought electoral defeat and it was twenty years before another wave of political insurgency crested in Italy. When it came, the generational rebellion of the late 1960s, embracing both students and young workers, went deeper and lasted longer than anywhere else in Europe. Under Togliatti’s successor, Luigi Longo, somewhat more of a fighter and less of a diplomat, the PCI did not react as negatively to the youth revolt as the PCF in France. But nor did it respond creatively, failing either to connect with a culture of the streets in which high and low – the classics of the Marxist and Bolshevik past, the graffiti of the spray-can present – for a time interacted dynamically, or to renew its increasingly stationary stock of strategic concepts. When critical opposition to its inertia emerged within the party in the shape of the Manifesto group – more genuinely Gramscian in outlook, and of much greater political intelligence than the operaisti outside it – the PCI leadership lost no time in expelling it.

The excommunication came over the Soviet invasion of Czechoslovakia, which the Manifesto condemned without reservation. Here, alongside the native idealism of its formation, lay the second reason for the continuing strategic paralysis of Italian Communism. However flexible in other respects, the PCI remained Stalinist in both its internal structures and its external ties to the Soviet state. Despairing of one-party rule by a torpid Christian Democracy, liberal well-wishers of the party – of which there were to be many over the years – would time and again express admiration for the PCI’s sensible domestic moderation, yet exasperation that it should compromise this otherwise excellent record by its links to the USSR and the organisational norms that followed from it. In reality, the two were structurally interrelated. From Salerno onwards, the party’s moderation was a compensation for its relations with Moscow, not a contradiction of them. Just because it could always be taxed with a suspect kinship to the land of the October Revolution, it had to over-prove its innocence of any wish to emulate that all too famous model of change. The burden of an imputed guilt and the quest for an exonerating respectability went hand in hand. The party’s most outspoken right-winger, the formidable Giorgio Amendola, warning it against any toleration of the student revolt, while regularly repairing to Bulgaria for his family holidays, personified the mechanisms of this dualism.

Incapable of assuming or developing the revolts of the late 1960s and early 1970s, the PCI turned instead once again towards Christian Democracy, in the wistful hope that the DC had changed its ways and would now be prepared to collaborate with it in governing the country – Catholicism and Communism uniting in a ‘historic compromise’ to defend Italian democracy against the dangers of subversion and the temptations of consumerism. Proposing this pact in 1973 soon after he became the new leader of the party, Berlinguer invoked the example of Chile, where Allende had just been overthrown, as a warning of the civil war that risked breaking out, were the left – Communists and Socialists combined – ever to try to rule the country on the basis of a mere arithmetical majority of the electorate. Few arguments could have been more obviously specious. There was not the faintest prospect of civil war in Italy, where even such outbreaks of violence as had occurred – the bomb planted by right-wing terrorists in the Piazza Fontana in Milan in 1969 was the worst case – had little incidence on the political life of the country as a whole. But once the PCI had moved to embrace the DC, the revolutionary groups to the left of it that had sprung out of the youth rebellion foresaw the emergence of a monolithic parliamentary establishment, government without opposition, and shifted towards direct action against it. The first lethal attacks by the Red Brigades began the following year.

But the political system was in no danger. The elections of 1976, in which the PCI did well, were perfectly tranquil. In their wake, the DC graciously accepted Communist support for governments of so-called ‘national solidarity’ under Giulio Andreotti, without altering its policies or conceding any ministries to the PCI. Repressive legislation, gratuitously curbing civil liberties, was stepped up. Two years later, the Red Brigades seized the DC’s most influential leader, Aldo Moro, in Rome, demanding the release of its prisoners in exchange for freeing him. During his 55 days of captivity, fearing he would be abandoned by his own party, Moro wrote increasingly bitter letters to his colleagues, posing a clear threat to Andreotti were he to be at large. In this crisis, once again the PCI showed neither humanity nor common sense, denouncing any negotiations to secure Moro’s release more vehemently than the DC leadership itself, which was understandably torn.

Moro was duly left to his fate. Had he been allowed to live, his return would certainly have split Christian Democracy and probably ended Andreotti’s career. The price of saving him was negligible. The Red Brigades, a tiny group that in any objective sense was never a significant threat to Italian democracy, could hardly have been strengthened by the release of a few of its members, who would have been under continuous police surveillance the moment they walked out of jail. The notion that the prestige of the state could not survive such a surrender, or that thousands of new terrorists would have sprung up in its wake, was little more than interested hysteria. The Socialists realised this, and argued for negotiations. Plus royalistes que le roi, the Communists, in their anxiety to prove that they were the firmest of all bulwarks of the state, sacrificed a life and saved their nemesis in vain. The DC showed no gratitude. Once he had used them, Andreotti – a greater master of timing than De Gasperi himself – reduced them. When elections came in 1979, the PCI lost a million and half votes, and was out in the cold again. The ‘historic compromise’ had yielded it nothing, other than the disillusionment of its voters and a weakening of its base. When in the following year Berlinguer called on Fiat workers, threatened with mass dismissals, to occupy their plants, his appeal fell on deaf ears. The last big industrial action in which the party would ever engage was rapidly crushed.

Five years ago, reflecting bitterly on his country’s politics, Giovanni Sartori remarked that Gramsci had been right to distinguish between a war of position and a war of manoeuvre. Great leaders – Churchill or De Gaulle – understood the need for wars of manoeuvre. In Italy, politicians knew only wars of position. He himself had always thought the title of Ortega y Gasset’s famous book España Invertebrada would be still more apt for Italy, where the Counter-Reformation had created deep habits of conformism, and continual foreign invasions and conquests had made the Italians specialists in survival by bending low. Lacking any elites of mettle, this was a nation without a bone in its body. Sartori was not talking at random. His addressees were the political class he described. By this time, the PCI was gone, Berlusconi was in power and his central objectives were clear: to protect himself and his empire from the law. The ad personam measures to secure both, pushed through Parliament, landed on the desk of the president. The Italian presidency is not a purely honorific post. The Quirinale not only nominates the premier, who must be ratified by Parliament, but can also withhold approval of ministers, and refuse to sign legislation. In 2003 the incumbent was the former central banker Carlo Azeglio Ciampi, an ornament of the centre-left who had headed the final government of the First Republic, served as finance minister under Prodi, and is today a senator for the Democratic Party.

Imperturbably, Ciampi signed exceptional legislation not only to consolidate Berlusconi’s grip on television, but to guarantee him immunity from prosecution – an immunity of which Ciampi himself, as president, was also a beneficiary, as he appended his signature to it. Outside the Quirinale, anguished candle-lit appeals in the street begged him not to. But the heirs of Communism raised no objection. Indeed it had been from the ranks of the centre-left itself that the first draft of the bill for immunity had come. If there was hand-wringing in the press over the law, the president – constitutionally supposed to be super partes, and treated with all due reverence – was not put in question. Only one significant national voice was raised, not plaintively, but scathingly, against Ciampi. It came from Sartori, a conservative liberal, who publicly asked Ciampi if he even existed, contemptuously dubbing him a rabbit for his cowardice.

These days, it is a former Communist – Giorgio Napolitano, leader of the most right-wing faction in the PCI after the death of Amendola – who sits in the Quirinale. By the time he was elected, the first immunity law had been struck down by the Constitutional Court. But when it was given a new wrapping – after the fashion of Lisbon, one might say – and the substance of the same bill was voted through again by Berlusconi’s majority in Parliament, the head of the post-Communist delegation in the Senate, far from opposing it, explained that the Democratic Party had no objection in principle, though perhaps it should come into force only in the next legislature. Napolitano had no time for such points d’honneur, signing it into law on the day he received it. Once again, the only voices to denounce this ignominy were liberal or apolitical, Sartori and a handful of free spirits – immediately reproved in the press not only of Democratic, but Rifondazione obedience, for wanting in respect for the head of state. Such is the sinistra invertebrata of Italy today.

Powerful historical forces – the end of the Soviet experience; the contraction, or disintegration, of the traditional working class; the weakening of the welfare state; the expansion of the videosphere; the decline of parties – have borne hard on the left everywhere in Europe, leaving none in particularly good shape. The fall of Italian Communism is in that sense part of a wider story, which lies beyond censure. Yet nowhere else has such an imposing heritage been so completely squandered. The party that was outwitted by De Gasperi and Andreotti, that failed to purge Fascism or split clericalism, was still an expanding force of remarkable vitality, whatever its strategic innocence. Its descendants have colluded with Berlusconi, with no shadow of an excuse, fully aware of who he was and what they were doing. There is now an abundant literature of exposure on Berlusconi, both inside and outside Italy, including at least three first-class studies in English. But it is striking how limp-wristed much of this becomes when it touches on the role of the centre-left in helping him clean his slate and entrench his power. The complicity of its presidents in successive bids to put him – and themselves – above the law is no anomaly, but part of a consistent pattern that has seen the heirs of Italian Communism allowing him to retain and expand his media empire, in defiance of what was once the law; not lifting a finger to deal with his conflicts of interest; springing his right-hand man, and not a few other millionaire criminals, from jail; and repeatedly seeking to cut electoral deals with him, at the expense of any democratic principle, to benefit themselves. At the end of all this, they have come away not only as empty-handed as their predecessors, but terminally emptier of mind and conscience.

What, for its part, has happened to the great cathedral of left-wing culture in Italy? It had started to crumble long before, its foundations undermined with the one-time citadel of the mass party itself. As in Germany, the shift to the right initially came in the field of history, with a revaluation of the country’s dictatorship between the wars. The first volume of Renzo De Felice’s biography of Mussolini, covering the years up to the end of the First World War, was published in 1965. But it was not until the fourth, covering the period from the Great Depression to the invasion of Ethiopia, appeared in 1974 – followed a year later by a book-length interview with the American neoconservative Michael Ledeen, subsequently prominent in the Iran-Contra affair – that this huge enterprise had a major impact in the public sphere, attracting a barrage of criticism on the left as a rehabilitation of Fascism. By the time his fifth volume came out, in the early 1980s, De Felice had become an accepted authority, enjoying ready access to the media – he would increasingly appear on television – and meeting decreasing domestic challenge. Soon he was calling for the end of anti-Fascism as an official ideology in Italy. By the mid-1990s he was explaining that the role of the Resistance in what was actually a civil war in the North, in which loyalties to the Republic of Salò had been underestimated, needed to be demystified. His eighth and last volume, incomplete at his death, came out in 1997. In total, De Felice devoted 6500 pages to the life of Mussolini, more than three times the length of Ian Kershaw’s biography of Hitler, and proportionately longer even than Martin Gilbert’s authorised life of Churchill: the largest single monument to any leader of the 20th century.

The scale of the work, poorly written and often arbitrarily constructed, was never matched by its quality. Its strengths lay in De Felice’s indefatigable archival research, and his insistence on a few unexceptionable truths, principally that the militants of Fascism as a movement had come in the main from the lower middle class, that Fascism as a system attracted support from businessmen, bureaucrats, and the higher social classes generally, and that at its height the regime commanded a wide popular consensus. These findings, none of them particularly original, sat in incoherent company with claims that Fascism was an offspring of the Enlightenment, that it had nothing to with Nazism, that its collapse saw the death of the Italian nation, and not least, with a hopelessly indulgent, oversized portrait of Mussolini himself as a great – if flawed – realistic statesman. Intellectually speaking, De Felice had little of the conceptual equipment or breadth of interest of Ernst Nolte, whose first book had preceded his. But his impact was much greater, not only by reason of the sheer weight of his scholarship, or even of the fact – fundamental though this obviously was – that in Germany Fascism had been discredited much more absolutely than in Italy, but also because by the end of his career there was so little life left in the official postwar culture he had set out to oppose. Significantly, the most radical demolitions of his edifice came from Denis Mack Smith in England, rather than any Italian historian.

But if there was no real counterpart to the Historikerstreit in Italy, where De Felice could feel he had achieved most of his goals, there was also a less clear-cut shift of intellectual energies at large to the right than in Germany. De Felice’s principal successor, Emilio Gentile, has devoted himself to amplifying the familiar theme that the mass politics of the 20th century were secularised versions of supernatural faith, dividing these into malign brands – Communism, Nazism, nationalism – comprising fanatical ‘political’ religions, and more acceptable forms, notably American patriotism, that constitute ‘civil’ religions: totalitarianism versus democracy in sacred dress. This is a construction that has won more of a following in the US or UK than in Italy itself. The same, paradoxically, might be said of the last fruits of operaismo on the left. There, the sober spirit of the enquête ouvrière had passed away with the premature death of Panzieri in the mid-1960s, and at the impulsion of Tronti and the young – then equally incendiary – literary critic Alberto Asor Rosa, its outlook underwent two drastic twists.

From Tronti came the conviction that the working class, far from having to endure successive economic transformations at the hands of capital, was their demiurge, imposing on employers and the state the structural changes of each phase of accumulation. The secret of development lay not in the impersonal economic requirements of profitability from above, but in the driving pressure of class struggles from below. From Asor Rosa came the argument that ‘committed literature’ was a populist delusion, for the working class could never hope to benefit from the arts or letters of a modern world in which culture as such was, by definition, irremediably bourgeois. No crude philistinism, or simple-minded Tolstoyanism, followed. Rather, it was only the High Modernism of Mann or Proust, Kafka or Svevo, and the radical avant-garde, up to but not beyond Brecht, that mattered as literature – but as so many testimonies, of incomparable formal invention, to the inner contradictions of bourgeois existence, not as a legacy of any use to the world of labour. The gulf between the two could not be bridged by even the best revolutionary intentions of a Mayakovsky: it was constitutive.

To make good literature, socialism has not been essential. To make the revolution, writers will not be essential. The class struggle takes a different path. It has other voices to express itself, make itself understood. And poetry cannot be behind it. For poetry, when it is great, speaks a language in which things – the hard things of struggle and daily existence – have already assumed the exclusive value of a symbol, of a gigantic metaphor of the world: and the price, often tragic, of its greatness is that what it says escapes from practice, never to return to it.

When this was written, its target was the official line of the PCI, and behind it Gramsci, who had believed that the Communist movement was the legitimate heir of the highest European culture, from the Renaissance, Reformation and Enlightenment onwards, and that among the problems it needed to solve in Italy was the absence of a national popular literature. But as the upheavals of the late 1960s unfolded, first Tronti and then Asor Rosa decided it made more sense to work within the PCI, where the organised working class was after all to be found, than outside it. In taking this step, Tronti transposed his vision of the primacy of struggles in the factory to the activities of the party in society, radicalising it into a theory of the autonomy of politics from production. Younger than Asor Rosa or Tronti, and the most intellectually ambitious of the trio, Massimo Cacciari then completed what they had started, not merely separating culture and economy from revolutionary politics, but proposing a systematic dissociation of all the spheres of modern life and thought from each other as so many technical domains, each untranslatable into any other. In common was only their crisis, equally visible in turn-of-the-century physics, neoclassical economics, canonical epistemology, liberal politics, not to speak of the division of labour, the operations of the market and the organisation of the state. ‘Negative thought’ alone had been capable of grasping the depth of this crisis – Schopenhauer, Nietzsche, Wittgenstein, Heidegger. What Hegel had joined, they refused: dialectical synthesis of any kind.

Operaismo had always been anti-historicist, it was also anti-humanist. In Cacciari’s Krisis (1976), it now found inspiration in a line of nihilist thinkers, of whom Nietzsche was initially the most important for his account of the will to power, whose contemporary incarnation could only be the PCI. But there was to be no irrationalism. What the ‘culture of crisis’ called for was new orders and forms of rationality, specific to each practice. So in guiding the party towards its objectives, Weber and Schmitt – not Gramsci – were the indicated counsellors, each a specialist of politics as cold, lucid technique. Intellectually speaking, a more thorough-going rejection of the Marxism enshrined in the PCI, steeped in a Hegelian spirit of synthesis, would be difficult to imagine. But politically, the Nietzschean turn of operaismo proved perfectly compatible with the official line of the party in the early 1970s. For what could the will to power in Italy at the time mean? The answer, Tronti argued, was clear: it was the PCI’s vocation to rule the country as the architect of an alliance between organised labour and big capital to modernise economy and society, not unlike the New Deal in America, which he had always admired – a pact of wages and profits against the parasitism of rents.

The PCI, which had always been tolerant of theoretical differences so long as they did not threaten political disturbance, accommodated the advocates of negative thought without difficulty – by this time it was no longer capable of engaging critically with such exotic outcrops anyway. Sensible of the prestige these were coming to enjoy, in due course it assured them honours in the political sphere whose autonomy they had upheld. Cacciari became a deputy for the PCI, before going on to make a career as mayor of Venice, where he now sits; Tronti and Asor Rosa were eventually made senators. Inevitably, the price of such integration into a party that so conspicuously failed on the terrain of power they had appointed for it, was the fade-out of operaismo as a coherent paradigm. Twenty years later, the PCI now only a memory, Asor Rosa would compose a melancholy balance sheet of the Italian left, to which he and Tronti have remained in their own fashion faithful, while Cacciari today is an ornament of the right of the Democratic Party, combining – not unfittingly for an admirer of Wittgenstein – mysticism and technicism in a politics otherwise much like that of New Labour. The intellectual legacy of negative thought was little more than an arid cult of specialisation, and concomitant depoliticisation, in those who came after.

At the crossroads of the late 1960s, Negri went in the opposite direction, advocating not a compact for modernity between capital and organised labour under the aegis of the PCI, but an escalation of conflict between unorganised – or unemployed – labour and the state, towards armed struggle and civil war. After the crushing of the Autonomia of which he had been the theorist, and his arrest by a Communist magistrate on trumped-up charges of masterminding the death of Moro, exile in France produced a steady stream of publications, the most notable on Spinoza. Here was prepared the metamorphosis of the non-factory worker of the late 20th-century Autonomia Operaia into the 17th-century figure of the ‘multitude’ in Empire, written with Michael Hardt, and appearing in the United States well before it saw print in Italy. Since its fame, Negri’s international impact has been larger than his national influence, though a younger following exists. The same holds true of Giorgio Agamben, a latecomer to the constellation, sharing many reference points – Heidegger, Benjamin, Schmitt – with Cacciari, but with a political inflection poles apart.

Viewed comparatively, the similarities of operaismo to strands in the gauchisme that flowered in France in the decade from the mid-1960s to the mid-1970s are striking – all the more so for the lack of any direct contact between them. It seems to have been an objective concordance that took thinkers around Socialisme ou barbarie along much the same path as those around Contropiano, from a radical workerism to an anti-foundational subjectivism – although in the later Negri or Agamben, with their debts to Deleuze or Foucault, French and Italian currents flowed directly into each other. The contrasting outcome of the two experiences is largely to be explained by differences of national situation. In France, the PCF offered no temptations, and the revolt of May-June 1968 was as brief as it was spectacular. In Italy, where the popular rebellion lasted much longer, Communism was less closed, and the thinkers were significantly younger, the after-life of operaismo remains greater, if confined to the margins.

Retrieval of Fascism on the right, eclipse of workerism on the left, have relocated the space of the centre, in which secular and clerical versions of the juste milieu have traditionally coexisted. There, paradoxically, the break-up of Christian Democracy, ending the rule of an overtly Catholic political party, rather than diminishing the role of religion in public life, has redistributed it more widely than ever before across the political spectrum. For DC voters have not only often divided evenly between centre-right and centre-left, but have also proved the most volatile single sector of the electorate, making them a ‘swing factor’ all the more eagerly prized by the contending blocs. In pursuit of them, former leaders of the PCI, not to speak of ex-Radicals, have fallen over each other to explain their private religious sensibility, attendance at mass from an early age, hidden spiritual vocation, and other requisites for a post-secular politics. In effect, what the Church has lost with the passing of a mass party of strict obedience, it has gained with the diffusion of a more pervasive, if lower temperature influence in society as a whole. With this has gone a descent into levels of superstition not seen in many years: the fruit of Wojtyla’s occupancy of the papal throne, when more beatifications were pronounced (798) and saints made (280) than in the previous five centuries put together, the number of miracles necessary for sanctification was halved, and the grotesque cult of Padre Pio – a Capuchin divinely visited by stigmata in 1918, author of any number of supernatural feats – took off, to a point where the mainstream press can in all seriousness debate the veracity of his triumphs over mere laws of science.

A secular culture capable of this degree of complaisance to belief is unlikely to be more combative towards power. Under the Second Republic, opinion in the central organs of Italian print culture has rarely deviated from the neoliberal doxa of the period. Most of its output in this period was indistinguishable from what could be found in the neo-tabloid papers of Spain, France, Germany, England or elsewhere. No self-respecting commentator failed to call for reforms to cure society’s ills, for which the remedy was always the need for more competition in services and education, more freedom for the market in production and consumption, and a more disciplined and streamlined state, variations turning only on the sweeteners to be offered to those on the receiving end of the necessary adjustments. Conformity of this kind has been so universal that it would have been unreasonable to have expected Italian columnists and journalists to show more independence of mind. The attitude of the press towards to the law is another matter. At the forefront – after the magistrates had launched their attack on its corruption – of the hue and cry against the political class of the First Republic, the press has proved remarkably submissive since Berlusconi established himself as a centrepiece of the new order, limiting itself for the most part to pro forma criticisms, without a hint of the guerre à l’outrance that could really have damaged him or driven him from the scene.

For that, its fire would have had to be directed not just against Berlusconi himself, but also against the judges who regularly acquitted him, the statute of limitations that voided charges against him, the presidencies that assured him immunity, and the centre-left parties that made him into an accepted, indeed valued interlocutor. Nothing could have been further from the general tenor of the press in these years, where complaints of malpractice are regularly tinged with fear and servility. The feebleness of this record is highlighted by the rare exceptions to it. Of these, one above all stands out, the reporter Marco Travaglio, whose implacable indictments not just of the criminalities of Berlusconi or Previti, but of the entire system of connivances that has protected them, not least those of the press itself, have few parallels in the tame world of European journalism in these years. Not unexpectedly, Travaglio, whose books have sold in the hundreds of thousands, is a figure of the liberal right, expressing himself with a ferocity and freedom of tone all but unknown on the left.[†]

In Europe – this is not true, at least in the same way, of America – the world of the media as a rule reflects more than it creates the condition of a culture, whose quality ultimately depends much more on the state of its universities. In Italy, notoriously, these have remained archaic and underfunded, many departments sumps of bureaucratic intrigue and baronial patronage. The result has been a steady loss of the country’s best minds to positions abroad. Virtually every discipline has been affected, as the roster of leading scholars either based or working for long stretches in the United States shows: Luca Cavalli-Sforza in genetics, Giovanni Sartori in political science, Franco Modigliani in economics, Carlo Ginzburg in history, Giovanni Arrighi in sociology, Franco Moretti in literature, to whom younger names might be added. Not a diaspora in a strong sense, since nearly all have maintained their links to Italy, most still participating in one way or another in its intellectual life, their absence has nevertheless obviously weakened the culture that produced them.

Whether any comparable levies are likely to arise out of the circumstances of recent years remains to be seen. On the face of it, the chances would seem slim. But it would be a mistake to underestimate the depth of the reserves on which the country can draw. A glance at Spain, whose modernisation is now often held up by self-critical Italians as a model of what they have missed, is a reminder of them. Although its economic growth has been higher, transport systems faster, political institutions more functional, organised crime less widespread, and regional development more even – all real gains over Italy – Spain remains by comparison a provincial culture, with a much thinner and more derivative intellectual life, whose relative backwardness is underlined by the modernities surrounding it. For all the disrepair of the country, the Italian contribution to contemporary letters is of a different order. No country in Europe, indeed, has recently produced a monument of global scholarship to equal the five volumes on the international history and morphology of the novel edited by Moretti, and published by Einaudi – an enterprise of peculiarly Italian magnificence, of whose scale the Anglophone reader gets only a glimpse in the hand-me-down version, parsimonious in sympathy and spirit, issued by Princeton. Nor is it difficult to find examples of a continuing Italian capacity to shake received paradigms abroad. Ginzburg’s ‘Clues’, not to speak of his essay reconstructing Dumézil, attempted by no French historian, would be one case; the distinguished classicist Luciano Canfora’s recent book on democracy, censored by its outraged publisher in Germany, would be another; the political scientist Danilo Zolo’s demolition of ‘international justice’ a third. Such traditions do not die easily.

What, beyond the existing cross-party establishment, of political opposition? From the mid-1960s onwards, Italian Communism had another strand, neither official nor operaista, that remained more authentically Gramscian than anything its leadership could offer, or ultimately tolerate. Expelled in 1969, the Manifesto group around Lucio Magri, Rossana Rossanda and Luciana Castellina went on to create the newspaper of that name that continues to this day, the one genuinely radical daily in Europe. Over the years, it was this current that produced by far the most coherent and incisive strategic analysis of the problems facing the left, and the country as a whole – descent from Hegel, not surprisingly, supplying better equipment for the task than fascination with Heidegger. Today its legacy is in the balance, its three leading figures composing memorials of their experience, each of which will be significant. The first to appear, Rossanda’s crisply elegant Ragazza del secolo scorso, has been a national bestseller. But in 2005 their journal was closed, and the daily is now, amid the credit crunch, at risk of disappearing. MicroMega, the thick bimonthly edited by the philosopher Paolo Flores d’Arcais, is in no such danger, as part of the publishing empire whose showpieces are the Roman daily La repubblica and the weekly news magazine L’espresso. Under the Second Republic, Flores has made his journal the organiser of the most uncompromising and effective front of hostility to Berlusconi in Italy, playing a political role unique in the EU for an intellectual publication of this kind. A year after the victory of the centre-right in 2001, it was from here that a wave of impressive mass protests against Berlusconi was launched, outside and against the passivity of the centre-left.

In these, two other figures played a central part. One was Nanni Moretti, the country’s most popular actor/film director, whose cinema had for over a decade tracked in critical, if often winsome fashion the dissolution of the PCI and its fall-out. The other was the historian Paul Ginsborg, author of the two most commanding histories of postwar Italy, an Englishman teaching at Florence distinguished not only as a scholar but now as a citizen in his adoptive country. In the second of his histories, covering the period from 1980 to 1996, published in English as Italy and Its Discontents (and in this edition reaching as late as 2001), Ginsborg put forward the hypothesis that, for all the egoism and greed of its yuppy stratum – the ceti rampanti that flourished under Craxi – there existed alongside it in the Italian middle class a sector of more thoughtful, civic-minded professionals and public employees (ceti medi riflessivi) who were capable of altruistic actions, and formed a potential source of renewal for Italian democracy. The proposal met with some scepticism when he developed it. But in 2002 it came true. For it was the layer he had identified that essentially provided the troops for the demonstrations against Berlusconi of that year.

Therein, however, also lay their limitation. The distinctive form they took – demonstrators holding hands round public buildings – was quickly dubbed girotondi in the press, or ‘ring-a-ring-o’-roses’. Intended to symbolise the peaceful, defensive spirit of the movement, the result was to give it too easily the air of a children’s game. The centre-left parties, not only disliking the reproach to themselves, but fearing political competition, did little to conceal their hostility. The girotondini did not respond in kind. Resolved to avoid any tempestuous actions of the kind that had met the G7 in Genoa, and vainly hoping for an alliance with trade-union leaders in hock to the centre-left, the movement was inhibited from mounting any tougher offensive against the government, let alone its accomplices in the opposition, and eventually undone by its bon enfant self-image, could not sustain itself.

When, to the fury of Veltroni, MicroMega courageously called for another mass demonstration against Berlusconi’s return to power in the Piazza Navona last summer, the underlying contradictions of the girotondini burst into the open, Moretti and half the platform dissociating themselves from the more radical speakers, who this time did not spare Napolitano, the PD or the Rifondazione Comunista. Just as the impenetrable circumlocutions of the latter-day First Republic produced in reaction the calculated crudities of the Northern League, so on this occasion the prissiness of much of the rhetoric of the girotondi, more given to pleading than savaging, detonated its opposite, a flamboyant coarseness of image and idiom – Berlusconi’s bedroom boasts virtually inviting this – from comedians famous for detesting the political class, to the acute embarrassment of the better-behaved in the square but apparently not, judging by the opinion polls, to most of the centre-left electorate itself. Politically speaking, the episode could be read as a micro-version of the polarisation of the 1970s, anxious propitiations from above once again provoking angry explosions from below.

In the autumn, such tensions dissolved in the torrent of student protests against the cuts in educational funding, and compression of schooling, voted through by the centre-right, and – a more limited – union mobilisation against the government’s economic response to global recession. The concessions gained are of less significance than the scale of the movements themselves. But a pattern of tactical retreats by Berlusconi and temporary surges of popular anger against him is not new. How this might alter as economic conditions worsen remains to be seen. Putting behind it the dangerous tools of the carpenter and the farmer, the Italian left has adopted one symbol after another from the vegetable kingdom, or thin air – the rose, the oak, the olive, the daisy, the rainbow. Without some glint of metallurgy, it seems unlikely to make much headway.

Notes
* The Italian term is without the anti-intellectual connotation of workerism in English, or ouvriérisme in French.
† L’odore dei soldi, by Marco Travaglio and Elio Veltri (Editori Riuniti, 2001); La scomparsa dei fatti (Il Saggiatore, 2006); Mani sporche, by Marco Travaglio, Gianni Barbacetto and Peter Gomez (Chiarelettere, 914 pp., €19.60, 2007, 978 88 6190 002 8); Il bavaglio, by Marco Travaglio, Peter Gomez and Marco Lillo (Chiarelettere, 240 pp., €12, 2008, 978 88 6190 062 2).

From the LRB letters page: [ 9 April 2009 ] T.J. Clark, Tom Behan, James Heartfield, Richard Bucci [ 30 April 2009 ] Aldo Agosti, Alfio Bernabei.

Perry Anderson teaches history at UCLA.

l'eleganza di Luca Sofri

Accade che qui in Italia si tende a prendere posizione senza conoscere i fatti, quasi ci si voglia confortare in anticipo ed evitare quindi di mettere in dubbio i propri provincialissimi preconcetti.
Accade pure che se si ha una posizione pubblica, si preferisce dire tutto e il contrario di tutto, per poter poi impugnare l'una o l'altra affermazione come prova di premonizione o di adeguamento ai desideri della massa.
Questa mattina Roma è piena di poliziotti; troppo piena per i miei gusti. Sono l'ultimo degli antiguardie, intendiamoci, ma mentre guidavo, alla parte "pigra" del mio occhio non è sfuggita la massiccia presenza di camion e gazzelle in posti tutt'altro che istituzionali.
All'indomani della rissona in Piazza Navona avevo buttato giù alcune idee, ammettendo in partenza di non aver vissuto quei concitati momenti.
Certo, Curzio Maltese aveva scritto giù duro contro l'inazione dei poliziotti: la sua era forse una ricostruzione concitata, enfatizzata e personalistica, ma tra il cuore e la pancia sembrava esserci anche un minimo di volontà di analisi.
Il giorno dopo, Carlo Bonini sembra rimettere le cose a posto, tranne per un dettaglio: la sua è un analisi sin troppo compatibile con quella del Viminale e - addirittura - con le assurdità proferite dal Governo durante una blanda interrogazione parlamentare.
Certo è che il giornalista si è appoggiato a un muro, anziché mettersi in mezzo al vuoto e provare a vedere tutte le cose che lo circondavano.
Da un estremo all'altro, insomma. Maltese urla perché spaventato; Bonini sussurra perché poco curioso. È meglio allora affidarsi ai non giornalisti per avere qualche idea chiara?
Certo è che c'è chi fa delle vere e proprie piroette: una, due, tre, quattro, cinque e sei... manco fosse Bolle. Addirittura in questa l'amico si risente perché gli si fa notare che è sempre ondivago, poco chiaro (non nel suo pessimo itaGliano, ma in quello che dice). Non è la prima volta che il tipo insulta e si erge a dio sceso in terra, però questo breve scambio di mail dovrebbe far riflettere: tanta volgarità non è consentita a chi fa parte delle "personalità" del Partito Democratico.

Io:
Guarda che l'infiltrato era un altro, eventualmente... io non c'ero, ma mi è bastato vedere su SKY la banalissima ripresa di un collega. Un altro ragazzo, non lo scemo che segnali tu, al poliziotto che gli diceva di sedersi, ha riposto "eddài, ci conosciamo noi, no?"; e infatti il poliziotto non gli ha più detto nulla. Se hai contatti con SKY è una cosa che è andata in onda durante un loro tg. Al di là di questo, evidentemente non conosci bene Roma. Per entrare sulla Piazza con quel tipo di camion, puoi fare solo una strada ben precisa che viene bloccata durante tutte le manifestazioni possibili, proprio per evitare che qualcuno faccia quel tipo di sortite. Capisco che i complotti ti irrtino, ma i fatti, le riprese anche più edulcorate, dimostrano che la polizia non è intervenuta se non dopo che i piccoli manifestanti erano stati ben che corcati di botte. Mi meraviglio che ancora una volta tu prenda posizione senza documentarti adeguatamente... oppure no: non dovrei mervigliarmi

Lui:
ma allora sei più scemo del solito: io che ho scritto, se non questo? Quanto a Piazza Navona, ci scorrazzavo che tu ancora molestavi Zavoli, a quei tempi, o va' a sapere chi.

Adriano Sofri, una vergogna

Sofri "confessa": Calabresi fu ucciso solo per pietàdi Michele Brambilla
Ieri Adriano Sofri è tornato a parlare del delitto Calabresi. Non sarebbe una notizia se i toni e gli argomenti che ha usato per giustificare - sì: per giustificare - l’omicidio del commissario non ricordassero, anzi non superassero quelli che lo stesso Sofri utilizzò il 18 maggio 1972, cioè il giorno dopo il delitto, nell’articolo che scrisse su Lotta Continua: «Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell’assassinio di Pinelli». Allora Sofri parlava di «un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». Un delirio, o se preferite una cialtronata propagandistica: ma non tanto differente dai deliri e le cialtronate a quei tempi cantate in coro dalla stragrande maggioranza dei giornali, compresi quelli cosiddetti borghesi, e dalla ancor più stragrande maggioranza della nostra intellighenzia. Insomma il Sofri di allora aveva quanto meno l’attenuante di vivere in un’Italia in cui spararle grosse era cosa talmente ordinaria che le parole a volte perdevano perfino il loro significato.
Il Sofri di oggi parla invece in un Paese per fortuna rinsavito da tempo; eppure quel che scrive non è tanto diverso, nei contenuti, dai lugubri comunicati delle Br. Nella sua rubrica «Piccola Posta» di ieri sul Foglio, Sofri ha scritto che «l’omicidio di Calabresi fu l’azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca». E più avanti: «Fu dunque un atto terribile: questo non significa, non certo ai miei occhi e ancora oggi, che i suoi autori fossero persone malvagie». E ancora: «I suoi autori (del delitto, ovviamente, ndr) erano mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime».
Insomma una vendetta contro un’ingiustizia, un atto di pietà verso «le vittime», e dicendo «vittime» si dà per scontato che Calabresi fosse un carnefice. Non è nuovo, il ragionamento di Sofri: se la strage di piazza Fontana e la morte dell’anarchico Pinelli erano da attribuire al «terrorismo di Stato», come scrive nella sua «Piccola Posta», una reazione era più che comprensibile e perfino giustificabile. Non è nuova, dicevo, questa argomentazione. Mai però il Sofri di questi ultimi anni aveva così freddamente rivendicato il diritto alla vendetta e all’omicidio; e affermato il principio che, se lo Stato non fa giustizia, la giustizia bisogna farsela da sé.
Sorprendente è anche il ritorno al linciaggio nei confronti di Calabresi: da tempo Sofri aveva preso le distanze dalla campagna di odio che il suo movimento e il giornale avevano orchestrato contro il commissario. Ora torna a infangarlo, lo definisce «un attore di primo piano di quella ostinata premeditazione», e stiamo parlando della strage di piazza Fontana, dell’incriminazione di anarchici innocenti e della morte (assassinio, per Sofri) di Pinelli. Tutte follie, specie se si considera che Calabresi non era a quei tempi che un giovane commissario lontanissimo dalle stanze del potere. Tutte accuse riportate senza lo straccio di una prova, accuse da cui Calabresi non può difendersi perché da quasi quarant’anni è sotto terra, e c’è - non dimentichiamolo - perché ce lo hanno mandato coloro che hanno creduto alle menzogne di Lotta Continua. Non lo diciamo noi e non lo dicono neanche i giudici: lo dice Sofri stesso, sul Foglio di ieri, che chi ha ucciso Calabresi era un angelo vendicatore della sinistra. Anche questo è un fatto inedito e molto importante: per anni Sofri ha cercato - prima al processo, poi con campagne di stampa condotte da giornalisti amici - di avvalorare la panzana di un Calabresi ucciso dai servizi segreti: adesso finalmente dice che quell’omicidio porta la firma dell’estrema sinistra.
Nell’articolo di ieri sul Foglio qualcuno ha visto, o ha creduto di vedere, una sorta di confessione. Dipende da che cosa si intende per confessione. Se si intende l’ammissione di ciò che i giudici gli hanno contestato, e cioè di aver conferito il mandato ad uccidere Calabresi, no, non c’è stata alcuna confessione, visto che anche ieri Sofri ha tenuto a ribadire: «Non ho mai ordito né ordinato alcun omicidio». Se si intende invece un altro tipo di confessione, più implicita, più contorta e tortuosa, forse perfino involontaria, allora sì, forse l’articolo di ieri segna una svolta non solo nel ritorno ai toni guerriglieri del Sofri d’antan, ma anche nell’apertura di uno squarcio nel velo di un mistero tragico.
Provo a spiegarmi. C’è una frase che nel contesto pare secondaria e che invece è forse risolutiva: «Io personalmente ebbi in Lc - scrive Sofri - un ruolo che mi costringeva e mi costringe a una responsabilità verso la sua storia intera, anche quando la mia responsabilità personale fu nulla, e così quella penale».Credo che questa frase riveli tutto lo psicodramma del caso Sofri. Non ho alcuna prova, ma seguendo questa vicenda dal giorno degli arresti fino all’ultima sentenza della Cassazione, mi sono fatto questa convinzione: è possibile, possibilissimo che Sofri sia innocente. Però sa che a uccidere Calabresi sono stati alcuni figli suoi, o meglio figli della sua creatura, Lotta Continua, e li ha voluti coprire fino all’ultimo.
Ancora ieri sul Foglio Sofri ha scritto che in Lc non c’erano frange armate. Sa perfettamente che non è vero. Sa perfettamente che al congresso di Rimini del marzo 1972 - due mesi prima dell’omicidio Calabresi - il movimento si spaccò: c’era la fazione guidata da Giorgio Pietrostefani che voleva passare alla lotta armata, e quella di Sofri che si opponeva. Finì che Lc si spaccò in due: Pietrostefani andò a guidare il movimento al Nord, Sofri si trasferì a Napoli dove fondò un giornale che si chiamava Mo’ che il tempo si avvicina. Leonardo Marino, il pentito che ha dato origine al processo, non ha mai detto che fu Sofri a ordinargli di uccidere Calabresi. Ha detto che fu Pietrostefani, e che tutto fu organizzato a Milano. Solo due giorni prima del delitto Marino, secondo il suo racconto, volle una conferma da Sofri, e andò a cercarla in un improbabile colloquio a Pisa, nella ressa di un comizio. Quel colloquio resta il vero punto debole della confessione di Marino.
Non ho prove, ma credo che Sofri abbia preferito il martirio personale al racconto della verità. Meglio sprofondare con gli amici che far la figura del delatore; meglio stare in carcere da innocente che distruggere la creatura che fu ed è tuttora il senso della sua vita. Anche qui non ho prove: ma ho l’impressione che l’articolo sul Foglio sia, per chi sa e capisce, rivelatore, con quella inedita ammissione sulla paternità dell’omicidio da parte di estremisti di sinistra (tratteggiati da Sofri con indulgenza e affetto) e con quella rivendicazione di responsabilità totale per ciò che uscì da Lotta Continua («anche quando la mia responsabilità personale fu nulla e così quella penale»).
In questo immolarsi di Sofri non c’è nulla di eroico, né di nobile. C’è un ego smisurato, una concezione totalmente autoreferenziale della morale. C’è un malinteso senso di onestà verso gli amici, c’è la convinzione che le colpe non vadano espiate consegnandosi a uno Stato che si ritiene almeno egualmente colpevole. Se Sofri, come sospetto, è innocente ma non racconta ciò che sa, il suo è un grave peccato di orgoglio. È anche un peccato contro la verità - di cui la famiglia Calabresi innanzitutto avrebbe diritto -: non meno grave, a questo punto, di un omicidio di tanti anni fa.

Sofri, legga Gemma Calabresi. E stia zitto
di Massimo PandolfiIl signor Adriano Sofri solo perchè è ritenuto intellettuale (e soprattutto perché è amico di tanti presunti intellettuali che comandano l'Italia) può permettersi di scrivere tutte le corbellerie di questo mondo. Si parla molto, in queste ore, dell'articolo che il mandante dell'omicidio del commissario Calabresi (così Sofri è stato condannato con sentenza definitiva dalla giustizia italiana) ha scritto l'altro giorno sul Foglio. "L'omicidio Calabresi - ha scritto Sofri - fu l'azione di qualcuno che disperando della giustizia pubblica, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca". E poi: "Fu un atto terribile: questo non significa, non certo ai miei occhi e ancora oggi, che i suoi autori fossero persone malvage". Ok, perchè stanno simpatici a Sofri, gli assassini non sono persone malvage. Capito? Al signor Sofri vorrei far rileggere questa lettera scritta da Gemma Calabresi, vedova del commissario Calabresi, e pubblicata come postazione del libro di Leonardo Marino (il pentito che ha inchiodato Sofri) intitolato "Così uccidemmo il commissario Calabresi". Parla del perdono questa lettera, caro signor Sofri.
di Gemma Calabresi*
Quando Luigi Calabresi venne ucciso, scrissi come necrologio sui giornali questa frase: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno», le parole dette da Gesù sulla croce. In realtà non fui io a scegliere questo necrologio, ma mia madre, una vera cattolica che vive quotidianamente secondo il Vangelo. In quel momento io ero molto giovane e forse non sentivo veramente mie quelle parole, tuttavia accettai il consiglio di mamma pensando che quella fosse l'unica possibilità per spezzare quel terribile odio che stava dilagando sempre di più. Poi, man mano che passavano gli anni, io ho sentito quella frase sempre più mia, mi si addiceva sempre più. Ho molto pensato e ho capito che Gesù, sulla croce, avrebbe potuto perdonare direttamente i suoi carnefici, ma in quel momento Egli era un uomo e sapeva quanto per noi uomini sarebbe stato difficile perdonare, quindi ci indica questa strada... chiedere al Padre di farlo lui in vece nostra, dando a noi il tempo di un cammino in questo senso. Io sto camminando... Il perdono è un cammino lungo e difficile, molto lento, con momenti di grandi passi avanti e altri in cui sembra di scivolare indietro, di alti e di bassi. Come cattolica sono sicura che sia l'unica strada da percorrere. Io ho perdonato Leonardo Marino, uno dei responsabili della morte di mio marito, che si è costituito spontaneamente alla giustizia autoaccusandosi di questo omicidio. Marino è un vero pentito. Infatti Marino non era in carcere e non ha deciso il pentimento per avere sconti di pena. Egli viveva a casa sua e non c'era su di lui nessuna indagine in corso. Marino, che da ragazzo aveva ricevuto una formazione religiosa, per un travaglio interiore che lo logorava, per un terribile peso che gravava sulla sua coscienza, ha deciso di confessare. Marino, che dopo essersi costituito ha subìto le peggiori angherie, è un uomo che ha molto sofferto e siccome la sofferenza, anche se ha origini diverse, accomuna, io mi sono sentita vicina a lui e ho sentito che dovevo perdonarlo. Naturalmente è stata più facile la riconciliazione con Marino che parla di Dio, che chiede umilmente perdono... Molto più difficile è che possa essere dato anche unilateralmente e quindi io questo cammino intendo continuarlo fino a raggiungere una vera pace interiore. Per il momento posso dire di essermi riconciliata con la vita... so apprezzare la natura, gioire della creazione, so ringraziare, credo nuovamente nella bontà degli uomini e questo mi dà molta serenità. Concludo inviando un messaggio a tutti coloro che, come me, soffrono per aver ricevuto ingiustizie e qui mi rivolgo soprattutto alle donne. Non dico perdonate, perché questo è un cammino soggettivo. Posso solo dire che l'odio logora, ci indurisce, non permette di metterci in sintonia con chi ci è stato tolto, non ci permette di vedere ciò che di bello ci sarà ancora, di gioire nel vedere i nostri figli che crescono, ci toglie la gioia di vivere. L'odio per noi sarebbe una sofferenza, una tragedia in più.
*Lettera/postfazione che la vedova del commissario Calabresi ha concesso per la nuova edizione del memoriale di Leonardo Marino «Così uccidemmo il commissario Calabresi» (edizioni Ares)
 
Ora Sofri è solo
di Luca Telese
Faceva una certa impressione, ieri, vedere l’uomo delle «piccole poste» invadere il Corriere della Sera con una grande posta, tanto smisurata quanto tortuosa e vagamente disperata. Una lettera in cui si celebra il paradosso di un condannato per omicidio che si eleva a maestro di morale sull’omicidio (lo stesso per cui è finito alla sbarra!), di un intellettuale che si dichiara innocente ma che giustifica i colpevoli, del sofista che si perde in un turbine di parole per spiegare che definire «terrorismo» l’omicidio Calabresi sarebbe un errore, o peggio ancora un’ingiustizia (ma verso chi?). Fa impressione, perché bisogna prendere atto che in questa sua ultima battaglia contro la realtà, Adriano Sofri è oggi un uomo solo, o quasi. Di certo abbandonato (o ignorato) da quella generosa compagnia di amici, compagni, simpatizzanti che - a partire dalla confessione di Leonardo Marino, nel luglio del 1988 -, sotto la sigla del comitato Liberi Liberi («offerto» da Vasco Rossi), cantò la sua libertà e chiese la sua scarcerazione su tutte le piazze d’Italia. All’epoca, per difendere Sofri, si produssero un adesivo giallo e una coccardina stile campagna sociale, il logo era una vignetta di Sergio Staino, c’erano i libri di Elvira Sellerio, i dibattiti nelle librerie Feltrinelli, gli incontri con Oscar Luigi Scalfaro per chiedere la sua scarcerazione, i bollettini medici, le firme del più grande partito trasversale mai allestito in Italia: intellettuali, attori, politici, cantanti. E poi le raccolte fondi e gli appelli e le manifestazioni, da Carlo Feltrinelli a Francesco Guccini, da Giuliano Ferrara a Paolo Hendel a Toni Capuozzo, a Ernesto Olivero, alle lettere della splendida attrice francese Emanuelle Béart agli appelli dello scrittore spagnolo Manuel Vasquez Montalbàn. Il 16 febbraio 1997 per una manifestazione davanti al carcere di Pisa arrivarono in 10mila da tutta Italia, e cori, e slogan, e palloncini gialli, persino la notizia di una apparizione di Adriano Celentano, che sentiva aria di santoneggiamento, e che alla fine telefonò in diretta per dire che «Adriano è con Adriano».
All’epoca Sofri divenne, in pochi mesi, l’ultimo innocente da infilare nell’archetipo antico della battaglia innocentista di sinistra: come Sacco e Vanzetti, come i coniugi Rosenberg, come Valpreda. Ma anche come alcuni brigatisti degli anni ’70, tratteggiati come vittime, difesi strenuamente, e poi rivelatisi colpevolissimi: nel 1972 fu considerato vittima l’anarchico Giovanni Marini (personaggio tragico, che pure era reo confesso di omicidio). Fu difeso da Dario Fo malgrado avesse accoltellato uno studente del Fuan. Nel 1974 si dipinse come martire persino Roberto Ognibene, che aveva accoppato il maresciallo Felice Maritano (e fra l’altro non si dichiarava innocente!). Nel 1975 si fecero le barricate per due ragazzi, Fabrizio Panzeri e Alvaro Lojacono: appena ottenuta la libertà provvisoria i due fuggirono per arruolarsi uno nelle Unioni comuniste combattenti e l’altro nelle Br (Lojacono coronò la sua carriera a via Fani, col rapimento Moro). Insomma, al pari di loro (e dei suoi coimputati, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani), Sofri divenne, per l’immaginario di molti, un agnello sacrificale coinvolto in un complotto: gli innocentisti e l’imputato favoleggiarono di una «spectre» che avrebbe coinvolto carabinieri e Pci per incastrarlo! (L’unico appiglio? La presenza al fianco di Marino dell’avvocato Melis, iscritto al partito). E fu un fiume in piena, quella campagna di solidarietà, un’onda che cresceva. Già dalle prime intercettazioni si ricostruì una incredibile ragnatela che teneva insieme gli ex di Lc, il Psi e Cl, ministri, deputati. Tutti in piazza (e nel Palazzo) per Adriano. Persino i dirigenti dei Ds avevano Sofri nel cuore: Massimo D’Alema anche in nome dei trascorsi normalisti (lo andava a trovare in carcere), Walter Veltroni (che lo volle come firma a l’Unità) celebrava i suoi compleanni in Campidoglio e Piero Fassino lo trasformò in un padre nobile nell’ultimo congresso dei Ds. A Montecchio fecero entrare D’Alema in una cella di cartone che riproduceva la «prigione di Adriano». A Roma Lorenzo Jovanotti aprì la raccolta per le firme a modo suo: «Non ho un cazzo da insegnare a nessuno, ma vi chiedo di impegnarvi per Adriano». Tutti convinti dell’innocenza, tutti ammirati per l’unica scelta indubitabilmente coraggiosa, quella per cui Sofri sceglieva di andare in carcere. Il primo governo Berlusconi attraversò persino una mini-crisi perché Ferrara voleva Sofri libero (e consigliava il premier in tal senso) e la Lega (con il ministro Castelli) nemmeno per sogno. Sempre nel 1997, al Palavobis si riunirono tutti gli artisti, Gianna Nannini cantava California e spiegava «Non dobbiamo dimenticarci mai di Adriano». Con lei c’erano i 99 Posse, Daniele Silvestri ed Eugenio Finardi.
In questa settimana, invece, dopo aver tentato di mettere Licia Pinelli contro Mario Calabresi, dopo essersi indignato perché il figlio del commissario era invitato «come vittima del terrorismo» all’Onu (!), Sofri è rimasto solo, nessuno di tutti questi ha parlato per lui. Oggi ha scritto persino a Il Riformista per dire che non sta scrivendo un libro con la Pinelli. Scrive dappertutto, ma non può pubblicare su La Repubblica che è in conflitto di interessi e dunque di questa polemica - per carità di patria - non parla. Non lo difende nemmeno Ferrara. Tacciono gli intellettuali e i leader. Adriano Sofri è solo: vede Mario Calabresi e lo scambia per il demonio, o per la reincarnazione del padre (che forse per lui è lo stesso). Sofri è solo, è la cosa non è triste per lui. Ma per tutti quelli che in questi anni gli hanno creduto. E ora non lo seguono più. 

Assassinio a fin di benedi Marco Travaglio
l'Unità, 16 settembre 2008L’unico aspetto che stupisce, della sortita di Adriano Sofri in difesa degli assassini del commissario Luigi Calabresi e contro il figlio di quest’ultimo, Mario, colpevole di essere rimasto vivo, è lo stupore che l’ha accompagnato. In base a una sentenza definitiva della Cassazione, che l’ha condannato a 22 anni per omicidio, Sofri è uno dei mandanti del delitto del commissario (l’altro, Giorgio Pietrostefani, è felicemente latitante all’estero). Lui, com’è suo diritto, l’ha sempre negato. Da qualche tempo, però, sembra volerci dire qualcosa di più e di diverso. Nel maggio 2007, sul Foglio, rivelò che, dopo il delitto Calabresi (1972), “uno dei più alti esponenti” dei servizi segreti “venne a propormi un assassinio da eseguire in combutta, noi e i suoi affari riservati”. Forse Federico Umberto D’Amato, capo degli Affari riservati del Viminale, morto nel ‘96. Strano che ambienti così bene informati (e disinformanti) si rivolgessero proprio a Sofri, se l’avessero creduto estraneo agli omicidi politici: forse sapevano di andare a colpo sicuro, senza temere di essere denunciati. Tant’è che Sofri attese trent’anni e parecchi funerali, prima di parlare della cosa.
Ora, sempre sul Foglio, il lottatore continuo si spinge più in là: “L’omicidio di Calabresi fu l’azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca”: cioè i caduti in piazza Fontana e l’anarchico Pino Pinelli. E’ un bel passo avanti rispetto ai bislacchi tentativi di Lc e dello stesso Sofri di affibbiare l’omicidio Calabresi ai servizi o alla destra. Ma, anche qui, nessuna meraviglia: in qualità di mandante, Sofri parla da esperto. Poi, certo, sostiene che le persone che assassinarono Calabresi “potevano essere delle migliori”, “non certo persone malvagie”, comunque “non terroristi”. E’ una tesi che confligge con la storia e col vocabolario. Cos’è, se non terrorismo, un delitto commesso da Lc, il cui giornale nei mesi precedenti scriveva: “il proletariato sa chi sono i responsabili del delitto Pinelli e saprà fare vendetta della sua morte” (14-5-1970); “questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito… Noi di questi nemici del popolo vogliamo la morte” (6-6-1970); “Siamo stati troppo teneri con il commissario Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente… Il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e dovrà pagarla cara… Calabresi ha paura ed esistono validi motivi perché ne abbia sempre di più… L’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino” (6-6-1970); “Calabresi, assassino, stia attento. Il suo nome è uno dei primi della lista” (6-5-1971). Ed è un fatto che il delitto inaugurò la lunga scia di sangue dell’eversione rossa.
Ma che dovrebbe dire il mandante, se non giustificarlo come meglio può? Sta parlando di se stesso e, in veste di imputato condannato, ha pure la facoltà di mentire. Per Sofri, Calabresi fu “un attore di primo piano di quella ostinata premeditazione”: cioè della pista anarchica su piazza Fontana. Falso anche questo: Calabresi era un giovane commissario, il depistaggio nacque in ben altre e più alte stanze (l’ufficio Affari Riservati). Come ricorda D’Ambrosio, “il fermo di Valpreda fu ordinato dalla polizia di Roma”, non di Milano. Ma è raro trovare un omicida che tessa l’elogio della sua vittima. Solo chi per tutti questi anni ha rimosso o ignorato la condanna di Sofri, facendo finta di niente o elevandolo addirittura a maitre à penser perché “da allora è molto cambiato”, può stupirsi delle sue parole. All’indomani del delitto, Sofri titolò sul giornale Lotta Continua: “Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell’assassinio di Pinelli” e parlò di “un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”. Oggi, 36 anni dopo, scrive che i killer erano “mossi da sdegno e commozione per le vittime”. Molto cambiato, si fa per dire. Cambiano le parole, ma il concetto, è lo stesso. Solo che oggi non compare su un foglio della sinistra extraparlamentare. Ma su un house organ del presidente del Consiglio, che ha continuato dall’interno delle istituzioni la guerra alla “giustizia borghese” avviata in piazza trent’anni fa da Sofri & C. Le rivoluzioni - diceva Leo Longanesi - cominciano in piazza e finiscono a tavola.