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12 dicembre 2021

IL CREPUSCOLO DEL MONDO di Werner Herzog

Considero Werner Herzog l’ultimo dei grandi autori di ogni tempo. Ogni sua opera, filmica o letteraria che sia, porta con sé un senso della spiritualità e dell’assoluto che raramente ho incontrato così costantemente in altri artisti. 
Forse in Rilke, sicuramente in Mozart e Bach. 
Ma l’immanenza di Herzog è paradossalmente migliore di questi, perché sempre più messa alla prova da una modernità che ci sta trasformando tutti nei ritratti di Dorian Gray di noi stessi. 
L’ultimo suo romanzo/cronaca è bello, molto bello, dotato di quella consueta magia che solo possono averti i testi di questo immenso artista: è la storia di Hiroo Onoda, il proverbiale ultimo giapponese che continuò la sua battaglia personale contro gli Stati Uniti, nonostante la guerra fosse finita da tempo.
Herzog non interpreta il protagonista, né tantomeno restituisce un racconto epico o etico: semplicemente, racconta la storia di un soldato leale che svolge il suo compito perché deve essere svolto, senza la ricerca del consenso, senza la bramosia di un premio, senza volersi ergere a eroe di una morale a buon mercato.
Onoda fa quello che farebbe un buon soldato: combattere il nemico e farlo nel miglior modo possibile.
È un romanzo asciutto, che si legge d'un fiato, che si assapora all'ombra di una quercia, in un frizzante pomeriggio autunnale, sorseggiando un superacolico leggero e torbato, scrutando ogni tanto il cielo, nell'attesa che il tramonto esali la sua ultima luce.

16 aprile 2020

luis sepulveda

Nel 1995 la sarcoidosi si presentò nel mio organismo senza fiatare: dal 5 maggio in poi, fu un susseguirsi di problemi di salute sempre più gravi e dolorosi.
Soprattutto perché passai almeno cinque mesi circondato da un'inconsistenza medica dovuta al semplice fatto che nessuno aveva capito cosa avessi, né come mai i risultati delle analisi fornissero informazioni contraddittorie, a volte sconvolgenti.
Lì scoprii la mia capacità di resistere alle difficoltà. 
Leggevo.
Leggevo parecchio. Almeno un libro al giorno.
E fu in quei giorni che lo scoprii. 
Quella sua scrittura così asciutta ma evocativa, dove il lettore è al centro della narrazione e le storie lo circondano con affetto e empatia.
Era una lettura agile ma anche avvolgente, dove sentivi accanto a te l'odore delle sigarette fumate dallo scrittore, quell'alito che dalle 6 del pomeriggio sa anche di birra e amicizia, che ci sono tante cose da dirti e devi fermarti a ogni pagina per girarti intorno e cercare il volto di chi sta scrivendo.
Era un omone enorme. 
O almeno così mi sembrò quando lo incontrai una volta uscito da uno dei miei ciclici ricoveri. Era un incontro letterario, dove in genere si fanno domande ripetute e ripetitive. 
Appena finito l'incontro, gli andai incontro. Mi accolse con uno sguardo storto ma anche curioso. Quando la traduttrice gli chiarì perché gli dovevo tanto, sorrise: con la sua mano piena di dita afferrò una penna e mi autografò Il mondo alla fine del mondo.
Ne lessi un altro paio, ma poi l'ho perso di vista. Forse perché quando un amico ti è stato inconsapevolmente così accanto quando stavi proprio male, dopo quasi ti vergogni di quello che sei stato con lui, dei tuoi cedimenti, del tuo esserti affidato totalmente a lui.
Ovvio che lui tutto questo non poteva saperlo, ma il patto che lettore e scrittore stringono è un patto che non puoi spiegare in alcun modo.
Continuavo a comprare i suoi libri anche se sapevo che non li avrei più letti: era un modo come un altro per dirgli "grazie".
Oggi è morto, Luis Sepulveda è morto. 
E mi dispiace tantissimo.

20 novembre 2013

quando #Murakami racconta il #jazz

Come facciano gli artisti giapponesi ad essere sempre così naturalmente seducenti, resta un mistero.
Non ricordo un testo/brano giapponese che non porti con sé questa rara attitudine alla seduzione.
Ma non parlo di sesso né di senso: è che si respira sempre l'aria del piacere, dell'elegante piacere, del piacere senza enfasi e senza misteri, del piacere fine a se stesso, del piacere senza ansie o finzioni.
E se pensiamo che buona parte di noi miseri occidentali non conosce una virgola di giapponese, evidentemente - e nonostante - il lavoro dei traduttori riesce nella difficile impresa di mantenere almeno questa rara qualità, che in noi non giapponesi è pressoché inesistente.
Non sono un grande fan di Murakami: gli voglio bene perché rappresenta un collegamento profondissimo e intimo con mia moglie; ma per quel poco che ho letto, non mi sono sentito così in sintonia come invece mi càpita - quasi istericamente - con Mishima.
Eppure, e proprio per questo, trovo questi suoi Ritratti in jazz un piccolo gioiello che potrebbe piacere sia agli appassionati sia a chi non frequenta le innumerevoli stanze del jazz di ogni tempo.
Descrizioni brevi, precise e molto personali, ma anche semplici, ma anche ricche di riferimenti e di indicazioni. Disegni lineari, evocativi e ben fatti (di Makoto Wada) che confezionano al meglio questa piccola prova di seduzione musicale (appunto).
A conclusione di ogni ritratto, brevissime ma azzeccate biografie/discografie, utili a chi si è dimenticato qualcosa del personaggio trattato o a chi non ne sa nulla.
Per invogliarvi all'acquisto (o al regalarlo), ecco un brevissimo passaggio dalla voce dedicata alla sublime voce dell'eterna Billie Holiday: 
Può darsi che si tratti din una sorta di "perdono" - questa è la sensazione che provo di recente. Quando ascolto le canzoni di Billie Holiday degli anni '50, sento che lei prende su di sé in blocco tutti gli sbagli che ho commesso fino ad oggi, tutte le ferite che ho inferto finora a tante persone attraverso quello che creo, cioè attraverso la scrittura: e mi perdona. "Dimentica, ormai non importa più", sembra dirmi Billie. La sua non è una cura. Non voglio curarmi. Di qualsiasi cosa si tratti, non è qualcosa che possa essere curato. Perdonato però sì, semplicemente perdonato.
E che dire di quella su Bill Evans (il pianista; non l'omonimo sassofonista):
Quando l'ego umano (e quello di Evans doveva comportare parecchi problemi) passa attraverso quel sistema di filtraggio che è il talento, possiamo vedere con i nostri occhi gioielli di bellezza impareggiabile rotolare al suolo.
O su quella di Bix Beiderbecke (eccellentemente raccontato dal migliore Pupi Avati, ricordate?)
La gioia e la tristezza che la sua musica esprime sono prodigiosamente vivide, il fascino scaturisce come acqua da una fontana e penetra in noi che l'ascoltiamo senza ostentazione ma anche senza esitazioni.
Insomma, una gran bella esperienza.


25 settembre 2012

quando Hitchens alluse ad Huffington

Il compianto Christopher Hitchens è spesso citato a sproposito. Una volta tanto voglio divertirmi anche io in questo esercizio, riportando questo passaggio dal suo saggio La posizione della missionaria incentrato sulla terrificante figura di Madre Teresa. 
Alle pagine 30 e 31 incontriamo il passaggio segnalato. 
Buona lettura
Mentre scrivo ho sotto gli occhi anche una fotografia di Madre Teresa in piedi, gli occhi umilmente abbassati, in atteggiamento amichevole accanto a un signore noto come John-Roger. A prima vista, se la si guarda distrattamente, sembra che si trovino in un quartiere povero di Calcutta. Ma uno sguardo più attento rivela chiaramente che le figure di derelitti sullo sfondo sono state aggiunte a mo' di scenografia. La foto è un falso, così come, per inciso, è falso John-Roger. Capo del culto noto talvolta con il nome di "Insight", ma più precisamente come MSIA ("Movement of Spiritual Inner Awareness" [Movimento di Consapevolezza Spirituale Interiore], che si pronuncia "Messia"), è un impostore di calibro iperbolico. Probabilmente meglio conosciuto dal grande pubblico per il suo rapporto lucroso con Arianna Stassinopoulos-Huffington - il cui marito, Michael Huffington, spese quarantadue milioni di dollari del patrimonio ereditario personale nel tentativo fallito di aggiudicarsi un seggio al Senato in California - John-Roger ha ripetutamente sostenuto di essere, e di possedere, una "coscienza spirituale" superiore a quella di Gesù Cristo. È difficile giudicare una simile affermazione. Tuttavia, si potrebbe pensare che sia blasfema per la mentalità semplice di Madre Teresa. Eppure, eccola là, che gli tiene compagnia e gli presta il lustro del proprio nome e della propria immagine. Il MSIA, va precisato, è stato ripetutamente denunciato nero su bianco come un'organizzazione corrotta e fanatica, e - nell'elenco della Cult Awareness Network (Associazione per la difesa contro le sette. [n.d.t.]) - figura come "estremamente pericolosa". Si scopre che la fotografia contraffatta immortala un evento importantissimo: l'accettazione, da parte di Madre Teresa, di un assegno di diecimila dollari, sotto forma di Premio Integrità donato da John-Roger in persona, un uomo che era giunto a comprendere la propria divinità dopo una visionaria operazione ai reni. Senza dubbio gli apologeti di Madre Teresa avranno la difesa a portata di mano. La loro eroina è troppo innocente per scorgere la disonestà negli altri. D'altra parte diecimila dollari sono diecimila dollari e, come diceva spesso Lenin (citando Giovenale), pecunia non olet: il denaro non ha odore. Quindi, quale scelta più naturale per lei che lasciare ancora una volta Calcutta, arrivare fino a Tinseltown e condividere la sua aura con un guru che proclamava di eclissare nientemeno che il Redentore?

12 settembre 2012

bruciando i miei libri

Càpita. Spesso. E non ci posso fare niente. 
In alcuni casi mi sono pentito; in molti altri, no.
Voglio dire: considerati gli spazi a disposizione (ben superiori alla media italica, va detto), ogni tanto sono costretto a fare una revisione alle mie biblioteche, quella mia e quella minore che occupo abusivamente a casa di mia madre.
Sono e resto un mago degli spazi: ma ogni tanto è necessario fare una visita decisa alle proprie scelte del passato.
Un po' la polvere, un po' l'esperienza acquisita, un (bel) po' la noia di certi autori che in passato ho invece amato, la mia mattanza non conosce confini. E quindi comincio a buttare titoli che in passato mi avevano illuminato o guidato; altri che avevo subito con spirito infantile, e quindi acritico; altri imposti dagli studi; altri ancora, frutto di follia collettiva, condizionata spesso dalle urla dei media o dalla critica seducente (e poi menzoniera)...
Insomma, ormai ho ucciso: tutti i titoli allegati all'Unità veltroniana (traduzioni scadenti, corpo minuscolo, selezioni arbitrarie); saggi politici di monumenti del passato (quando mai leggerò le considerazioni del giovane Berlinguer o di Folena, suo adepto?); quelli del fenomeno Millelire (la demagogia mista a supponenza); tutto Cesare Pavese (du' palle che diventano facilmente quattro); le amarezze di Paolo Milano (ti viene voglia di suicidarti anche e solo guardando la copertina); tutti i titoli di Emil Cioran; tutta la serie DeAgostini (ecco, qui mi sono dispiaciuto) con i titoli di classici che mi hanno accompaganto per 30 anni; saggi istant book su quanti peli nel naso hanno i cattivi del momento; testi che sembravano grandi cose e che poi si sono rivelati una bufala senza mozzarella; ritagli impolveriti e sostituiti dagli archivi online; strenne senza senso; tutto Alessandro Baricco (tranne Oceano mare e Castelli di rabbia); Saviano che parla con Langewiesche (come se io parlassi di relatività con Einstein)...
Insomma, correggere il tiro dei propri gusti è quasi terapeutico, ma anche molto doloroso: strofinando per l'ultima volta certi titoli, mi rendo conto anche delle cazzate che ho fatto intorno al periodo in cui acquistai quel testo, dei limiti che ho avuto o che ho di fronte alla Storia e alla Letteratura, di quanto ancora mi resta da leggere, di quanto tempo ho perso dentro vicoli narrativi oscuri e ottusi.
Sarebbe bello prendere una macchina del tempo e ritrovare il me stesso di tanti anni fa: gli direi di posare quel titolo o quell'autore, di prendere un treno e di farmi un bel viaggio. La perdita del tempo è il torto più grande che si possa fare alla propria anima. E certi autori ne sarebbero più che lieti. 

11 giugno 2012

Saviano e la perdita dell'innocenza; la sua

La figura costruita intorno a Saviano mi ricorda un po' quella forzata delle mamme romane masticose-a-bocca-aperta-di-chewing-gum che attraversano la strada fuori dalle strisce pedonali, ponendo però prima la carrozzina col figlio innocente dentro. Il mesaggio è chiaro: faccio leva su un principio sacrosanto, per fare quello che voglio io.
Ho sempre pensato che Saviano fosse così innocente ed immaturo (molto immaturo) da non aver capito quanta gente se ne sia approfittata e se ne stia approfittando di lui, Fazio in testa. E se ne approfitta ponendo come ricatto antidibattito il fatto doloroso che Saviano vive sotto costante minaccia. Non gli puoi dire nulla contro, perché lui è un eroe di default. E contro siffatti eroi non c'è storia o polemica che tenga.
Devo ammettere, però, che non sopportando io gli ipocriti, ovviamente non ho mai sopportato la sua di ipocrisia (tipicamente sterotiponapoletana, va aggiunto), che lo vedeva con quella vocina studiato-tremante giustificare artificiosamente il fatto oggettivo ed inequivocabile che è un dipendente di Berlusconi (tramite Mondadori ed Endemol); il che cozza col suo petulante fare la morale al mondo tutto per ogni microscopica perdità di verginità altrui. Un'ipocrisia irritante che però in Italia non è mai esplosa come doveva, anche perché buona parte degli antiberlusconiani arrivati ragiona come lui.
Certo è che non si può parlare di Saviano se non come fanno tutti. È vietato uscire dal coro. Vietatissimo. Attenzione: io non sono Sciascia (che poi...), che condannò e isolò moralmente Borsellino e Falcone prima che la Mafia li facesse a pezzi (e prim'ancora che Sinistra e Destra li isolassero entrambi). Né tantomeno ho ascendenze mafiose o "dimenticanze" mafiose
Però ho trovato arrogante la sua causa contro Marta Herling (4 milioni e rotti di danni, si dice). Come forse ricorderete, Saviano gettò una fanghettina niente male contro Benedetto Croce (in maniera subdolicchia), senza dimostrare e mostrare le esatte e credibili fonti che certificavano un simile gesto (ribadito dalla recente edizione Feltrinelli). Giustamente la di lui nipote s'è risentita e gliene ha dette quattro, in maniera civile e risoluta, come farebbe chiunque. E allora, Saviano, per colpire quel Corriere del Mezzogiorno che lo bastona da anni - e che ha ospitato la prolusione della Herling, ha fatto un tutt'uno e li ha querelati entrambi.
Del resto non è la prima volta che Saviano sbaglia contesto (guardate qui cos'ha scritto su di lui Giornalettismo militante): solo che questa volta ha colpito la libertà di critica; niente male, eh?
Se Saviano fosse quello che abbiamo ammirato agli inizi, magari avrebbe prima verificato le sue fonti, poi forse avrebbe raccontato la cosa in maniera meno subdola, poi forse avrebbe accettato le rimostranze documentate della Herling, poi forse avrebbe ritirato le sue battute su Croce, poi forse non avrebbe mai fatto causa a chicchessia. 
Se Saviano, cioè, fosse quell'ideale di scrittore che si autocelebra continuamente (imbarazzante quest'intervista su l'espresso, che ovviamente non cita il fattaccio), nulla di quant'è accaduto sarebbe accaduto.
E, invece, Saviano, da bimbo della carrozzina è diventato la mamma che spinge la culla del suo mito intoccabile. 
E allora, scusate, la sua innocenza è ben che andata a farsi benedire. Magari, alla fine, farà causa anche a me... ma se nessuno dei fighetti si è levato in difesa della Herling (o meglio della libertà di critica), figuriamoci se lo farebbe per me. Preparate le arance, insomma.

01 agosto 2011

Hemingway, che non mi lascia mai

Che la percezione tattile di un libro, che il segno dei suoi sapori ed odori, siano solo frutto della nostra anima, è fuori da ogni dubbio: con buona pace dei modernisti ad ogni costo, l'"oggetto" libro è un totem privatissimo e riservato che ci dà così tante sensazioni, spesso struggenti, comunque incontrollabili e indefinibili. 
Non credo che l'aridità di un iPad potrà mai sostituire questo languore: e quando i Montag della situazione, saranno riusciti a far scomparire totalmente i libri di carta, le generazioni che vivranno solo di quelli elettronici saranno più aride, povere, prive del senso fisico della lettura e della scrittura. Non esisterà, cioè, un "altro modo" di assaporare la scrittura: quando strumento e sostanza si confondono,  l'uomo perde l'anima.
In questi ultimi mesi è uscita un'edizione integrale della Festa mobile di Hemingway. 
Già: Hemingway. 
È stato forse il primissimo autore con cui abbia avuto a che fare integralmente: il primo, cioè, di cui ho assaporato e letto tutto, in maniera continuativa e avida. Il primo di cui sento ancora oggi il dolce peso della scrittura perfetta, impossibile da imitare; quella strabiliante capacità di raccontare l'inutilità con nitidezza e precisione, con la voluta intenzione di fare cronaca, ma che indelebilmente diventa calore umano.
Sabato scorso ero sulla spiaggia, circondato da galline sconosciute che si confrontavano sui figli e sul fritto serale, maschi scemi che si scambiavano dati tecnici dell'ultimo iPhone del cavolo, bambini incivili che scambiavano lo stabilimento per un'esclusiva arena dove poter rompere i coglioni a chiunque. Gente che, insomma, aveva parcheggiato fuori la smart, ma che si ostinava a comportarsi come fosse ancora al volante.
Ma io avevo questo libro in mano, di carta, col suo odore di colla fresca, di stampa fresca, di rilegatura fresca. Lo accarezzavo perdutamente, senza alcuna voglia di fare qualcosa di attivo, di sensato, di nobile, di esemplare. Solo accarezzare questo libro, sperando che uscisse magicamente fuori la mia adolescenza, da correggere, da reintepretare, da rivivere in maniera più intelligente... e invece no: non usciva fuori nulla, se non qualche soffusa nostalgia, qualche dolce pensiero, qualche sensazione di cervicale accumulata dal troppo leggere in posture astratte. 
La magia di quel libro era sospesa, ferma, ignobilmente egoista. Perché? Perché diamine non riuscivo a rivivere qualcosa di così lontano, di intimamente mio?
Perché indietro non si torna. Mai. 
E Hemingway me l'aveva detto dagli occhi dell'ingles in Per chi suona la campana, dalle mani striate di sangue del Vecchio e il mare, dalle cavallette nere esposte al sole dei Racconti di Nick Adams, dal Posto tranquillo, illuminato bene dei 49 racconti... per quanto io volessi provare a tornare indietro, dispettosamente quel libro mi manteneva nel presente, caparbiamente nel presente.
Indietro non si torna. Mai!

08 settembre 2010

come va a fine "l'ombra dietro al muro"?

Onestamente non sopporto l'idea di trama. Voglio dire che ho sempre pensato che ormai sia più importante come vengono dette le cose, e che poi la "fine" di un romanzo sia solo una scusa per chiudere baracca e burattini e non perderci più tempo sopra.
Eppure, la sfida di trovare qualcosa che concludesse questo romanzo senza chiuderlo, era una sfida straordinaria; la possibilità, cioè, di terminarlo fisicamente senza però che il lettore non sentisse il vincolo di una fine o - all'opposto - di una continuazione immaginata.
Spero di esserci riuscito... e se poi ci state un po' attenti, vedrete pure che la fine lascia e lancia un dettaglio perlomeno sospettoso. O almeno credo.

07 settembre 2010

"l'ombra dietro al muro",
il perché del titolo

Per un breve periodo ho indugiato nei giochi sparatutto, perdendomi nei meandri delle prime due versioni di Doom, e, non avendo ancora un computer mio, mi affidavo a quello stracraccato di un mio amico. Così craccato di tutto e di più che di certi giochi non c'era l'audio; il che significava doversi immaginare i versi mostruosi dei mostri mostruosi, ma soprattutto rischiare di prendere sberle inattese, perché l'audio invece serviva anche a segnalarti una mefitica presenza nelle vicinanze.
Quello che mi divertiva un mondo era fare capoccella, dare cioè un'occhiata fugace e veloce agli angoli bui degli ambienti per cercare di evitare chissà quale minacce. Spesso le prendevo comunque, ma ogni tanto mi consentiva di cavarmela, e allora fissavo fugacemente i mostri, così fugacemente che spesso era più quell'immagine a regalarmi sogni terribili ma divertenti che tutto il gioco in sé.
L'idea cioè di un'ombra dietro al muro, di una minaccia vicina ma non visibile, contro cui non sai ancora come reagire e comportarti ma che ti tiene in altissima tensione, questo tipo di situazione in sospeso, insomma, mi ha sempre affascinato.
Anche i film più seri - tipo Gruppo di famiglia in un interno - sono ricchi di suggestioni simili. Il non palese, il dissimulato, l'accennato, l'ignoto che c'è ma che non sai quando si paleserà... tutti elementi che ritornano in numerose esperienze letterarie, cinematografiche, pittoriche, addirittura musicali.
E quindi il titolo del mio nuovo romanzo nasce proprio dall'esigenza di costringere il lettore a sentirsi sempre suscettibile, avvolto da un qualcosa di cui ancora non sa dare forma, valore e significato.
Come tutte le cose che mi piacciono (intendiamoci, quel poco che riesce a difendersi dal mio essere eterno insoddisfatto), questo titolo mi ha accompagnato per quasi tutta la stesura del romanzo. Non ricordo se sia nato insieme allo scritto, ma diciamo che appena ho iniziato a scrivere, era l'unico titolo possibile.


23 agosto 2010

l'ipocrisia di Vito Mancuso, solita salsa all'italiana

Caro Direttore,
Caro Augias,
Spettabile Redazione,


ho trovato perlomeno specioso, se non addirittura offensivo nei confronti dei lettori, l'intervento odierno di Vito Mancuso: anziché prendere una posizione netta, nitida e precisa riguardo il lavorare o no per la Mondadori berlusconiana, ha chiamato in una sorta di correità di massa altri prestigiosi intellettuali "non berlusconidi" che - appunto - con il loro intelletto sono il fiore all'occhiello di un'industaria culturale che di culturale non ha più niente, né tantomeno un vestito così sofisticato da meritare cotanti fiori.

Questo continuare a gigionare intorno a una decisione che andava presa da tempo è un modo furbo per cercare di risultare ai posteri perlomeno neutri nella scrivenda Storia dell'Italia prossima post berlusconiana (ma non post berlusconizzata) che si sta presentando all'orizzonte.

Non approfondisco più di tanto due fatti estremi che in parte mi riguardano, ma tengo però almeno a precisarli sommariamente: tutti si lavora per un principe - è pacifico e ovvio; e il dipendente mondadoriano certo non ha il privilegio del potersi sottrarre al padrone con la stessa facilità con cui può e dovrebbe un intellettuale che gli presta nome e doti; io nel mio piccolo ho detto il mio bel "no" chiaro e forte alla Mediolanum, perdendo di fatto l'opportunità di percepire il triplo di quanto guadagno adesso, ma guadagnandone in limpidezza e credibilità perlomeno ai miei occhi molto esigenti (che non è poco) o "intransingenti" (come ebbe a scrivermi una volta proprio lo stimato Ezio Mauro).

È facile, cioè, rigirare intorno all'argomento e trovare sempre una fuga comoda per non dirsi e sentirsi dire che da tempo gli intellettuali DOVEVANO abbandonare il Berlusconi editore, perché la situazione era facilmente compatibile (quasi comparabile) a quella sorta di giuramento obbligatorio cui furono sottoposti i professori universitari ai tempi del Fascismo. Lì era cosa palese, ma anche più difficile da combattere; qui era ed è impalpabile, ma le possibilità di sottrarsi a un simile equivoco c'erano, ed esprimersi attraverso un gesto così eclatante e eticamente doveroso avrebbe significato anticipare di molto tempo la crisi del modello berlusconiano che invece sta vacillando solo grazie a opportunistiche fronde interne.

Ma se volessimo restare nelle argomentazioni più spicciole, il romanesco che è in me esce con foga dallo stomaco e si chiede: ma questa Repubblica sempre così attenta e specifica nel cogliere in fallo la moralità altrui, che cosa sa dire ai suoi lettori quando metà dei suoi intellettuali lavora anche per la controparte? Non è forse un po' troppo facile fare le pulci agli altri e ignorare le proprie?

È un discorso che ho affrontato in parte anche con Michele Serra a proposito della Rai (dove peraltro lavoro), che prima ha accettato la tenzone e poi si è dileguato: siamo così pronti e forti nel denunciare la distruzione di una cultura assoluta per mano dei "berlusconidi", quando sotto sotto in realtà stiamo difendendo solo la nostra di cultura, e i componenti la nostra "cricca" di intellettuali - e di potenti che li proteggono - che, per restare nella mia esperienza diretta, di vittime ne hanno fatte in Rai tante quante il berlusconismo imperante.

Insomma, e concludo, la decisione di dire "no" al berlusconismo anche abbandonando la Mondadori (e i suoi simpatici corridoi così ben descritti dal Mancuso nostalgico) era cosa da prendere da tempo, quando ancora il mare era in tempesta. Adesso sa tanto di una solo verbale proclamazione di una fuga (sempre che anche gli altri facciano la stessa "scenetta") da una barca che non solo non affonderà ma che nonostante tutto sopravviverà proprio grazie alle leggi furbe del padrone.

Tutto questo dalle mie parti si chiama "ipocrisia".

Un caro saluto,
Alessandro Loppi

04 aprile 2010

lo straniero

Niente a che vedere con l'omonimo capolavoro letterario di Camus, Lo Straniero racconta la caccia ad un ex criminale nazista (Orson Welles che ne è anche regista, dopo l'obbligato diniego di John Huston, che comunque ne scrisse anonimamente buona parte della sceneggiatura) che vive nel comodo anonimato di una banale cittadina americana. Aggiusta orologi antichi a tempo perso, ed è sposato con un'ottima Loretta Young, qui sempre sul punto di svenire.
Chi lo scopre è il sempre bravissimo Edward G. Robinson (anche se Welles dirà poi che avrebbe preferito una più convincente "zitella", magari interpretata da Agnes "Endora" Moorehead) che per incastrarlo sottopone alla donna la visione di un documentario sui campi di sterminio. Convinta da tanto scempio, aiuterà i buoni a catturare il marito.
Gran finale con la famosissima sequenza degli orologi, il cui perno fobico tornerà nella scena degli specchi della Signora di Shangai (quella citata anche da Woody Allen, per intenderci), per un'opera che va ricordata soprattutto perché è la prima volta che in un film "commerciale" si vedono le immagini della Shoah (nel 1966, poi, partecipando alle riprese di Parigi brucia?, Welles conoscerà di persona alcuni deportati superstiti).

25 marzo 2010

Alice nel paese di Tim Burton

Lo confesso: Tim Burton è uno di quei registi che mi commuovono sempre. Non so perché, ma è così, e con tutti i suoi film. Non solo: il tipo fa e dice sempre cose che vorrei dire io, come le vorrei dire io.
Non sopporto chi si aspetta qualcosa da qualcuno; per cui quando vado al cinema non mi aspetto un bel niente, specie da amici intimi come Burton. E ho fatto bene.
A fare gli intellettuali ad ogni costo mi vien da dire che Tim Burton è apparso a Lewis Carroll: tanto che alla fine il testo era già così burtoniano che era inutile lo girasse lui. Chiunque avesse provato ad avvicinarsi a questo metasimbolico e sessuato capolavoro, per renderlo al giusto avrebbe dovuto girarlo esattamente come ha fatto Burton. E paradossalmente alla fine di Tim Burton non resta nulla. Il testo più burtoniano possibile ed immaginabile è il film meno burtoniano che abbia mai visto.
Non so come spiegarmi: è come se Beethoven provasse a rileggere Bastiano e Bastiana di Mozart... in fondo l'ha già fatto, e ha tirato fuori la sua Terza Sinfonia... che alla fine non sembra di Beethoven.
Boh, alla fine sto diventando come il cappellaio matto (un perfetto Johnny Depp). Grande il gattone, stupendi i due gemelloni scemi, perfetta la Carter, molto bella la protagonista... che speriamo crescendo non si rifaccia nulla: è piena di difettucci burtoniani; vanno bene così.




11 marzo 2010

Elsa Morante e il Capo del Governo

Circola da qualche settimana questo scritto di Elsa Morante:

"Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo.
Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini?
Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto.
Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie sempre il tornaconto.
Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei.
Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.
Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile,
e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole rappresentare"


Qualunque cosa abbiate pensato, il testo è del 1945 e si riferisce a Mussolini...

Più precisamente è del 1° maggio 1945, da Pagine autobiografiche postume, pubblicate in “Paragone Letteratura”, n. 456, febbraio 1988

25 gennaio 2010

il reato di scrivere di Juan Rodolfo Wilcock

Juan Rodolfo Wilcock appartiene alla rara categoria di persone dotte, colte e... leggere.
Lo conobbi tramite Adelphi, quando cioè fece uscire pressoché contemporaneamente Lo stereoscopio dei solitari e La sinagoga degli iconoclasti, due fondamentali testi che non dovrebbero mancare nei vostri scaffali.
Grande amico di Borges e di Calvino, si trasferì in Italia alla fine degli anni '50, continuando a regalare delle perle letterarie di rara bellezza. I più avvertiti lo ricordano anche nella parte di Caifa nel Vangelo di Pasolini.
Ironia, intelligenza, arguzia... e un'ottima scrittura, sia nella lingua madre sia in quella nostra.
Wilcock era tra i pochi a rispettare le più banali regole d'italiano e a usarle per una letteratura comunque moderna, coraggiosa, ironica e anche sperimentale.
Non faceva come fanno tutti oggi, che non hanno voglia di approfondire e impongono lasche "regole" tanto per fare casino, ma perseguiva con affetto e devozione la bellezza delle due lingue cui sapeva di dovere rispetto e considerazione.
In questi giorni sempre Adelphi per la microcollana Biblioteca minima ha fatto uscire una sua collazione di brevi interventi per il Mondo pannunziano: Il reato di scrivere. Sono testi brevi, tosti, critici e divertenti, che si scagliano sapientemente e con competenza contro il mondo letterario. Sono cose scritte qualche lustro fa, ma che vi torneranno attuali e addirittura troppo generose.
Per capire meglio il tenore di buona parte dei suoi scritti, vi "regalo" questo breve racconto su due Amanti:
Harux y Harix han decidido no levantarse más de la cama: se aman locamente, y no pueden alejarse el uno del otro más de sesenta, setenta centímetros. Así que lo mejor es quedarse en la cama, lejos de los llamados del mundo. Está todavía el teléfono, en la mesa de luz, que a veces suena interrumpiendo sus abrazos: son los parientes que llaman para saber si todo anda bien. Pero también estas llamadas telefónicas familiares se hacen cada vez más raras y lacónicas. Los amantes se levantan solamente para ir al baño, y no siempre; la cama está toda desarreglada, las sábanas gastadas, pero ellos no se dan cuenta, cada uno inmerso en la ola azul de los ojos del otro, sus miembros místicamente entrelazados.

La primera semana se alimentaron de galletitas, de las que se habían provisto abundantemente. Como se terminaron las galletitas, ahora se comen entre ellos. Anestesiados por el deseo, se arrancan grandes pedazos de carne con los dientes, entre dos besos se devoran la nariz o el dedo meñique, se beben el uno al otro la sangre; después, saciados, hacen de nuevo el amor, como pueden, y se duermen para volver a comenzar cuando se despiertan. Han perdido la cuenta de los días y de las horas. No son lindos de ver, eso es cierto, ensangrentados, descuartizados, pegajosos; pero su amor está más allá de las convenciones.

16 dicembre 2009

ateismo è libertà

Mi sfugge come sia sfuggito il 10 dicembre scorso il lungo intervento di Vito Mancuso su Repubblica. Scritto a ridosso di un convegno internazionale promosso dal Progetto Culturale della Cei con il patrocinio del Comune di Roma, ripassa la lezione del difficile rapporto che la Chiesa ha con il progresso.
Tra le premesse della lunga prolusione, il compagno di libri di Augias scrive:
La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l'ateismo materialista. Tale era l'impresa della modernità, caratterizzata dal porre l'assoluto nello stato-partito o nel positivismo scientista, ma questi ideali sono crollati e oggi gli uomini sono sempre più lontani dall'ateismo teoreticamente impegnato. Gli odierni alfieri dell'ateismo vogliono distruggere la religione proprio mentre si connota il presente come "rivincita di Dio", anzi la vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono il ritorno, ma i loro stessi libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di Dio.
Non immaginavo si potessero scrivere tante sciocchezze in così poche righe, credetemi.
Andiamo per brevi punti:
  • confondere l'ateismo materialista tipico del sovietismo con le ragioni di chi non crede in dio, è un'operazione furba e maliziosa, che relega le antiche motivazioni degli atei solo dentro al ristretto fulcro della dittatura stalinista
  • confondere la modernità con l'afflato negativo del sovietismo materialista è un'altra scorrettezza dialettica e storica. Ateismo e stalinismo e modernità si saranno pure incontrati, ma ridurre tutti e tre nella stessa stanza, in spazi storici limitati e limitanti, è addirittura ipocrita
  • a latere: modernità e modernismo (brechtianamente parlando) sono due cose diverse. La confusione di Mancuso è sinonimo o di povertà di argomenti o di scorrettezza in nuce, voluta e ricercata (e quindi dialetticamente o giornalisticamente immorale, fate voi)
  • l'"ateismo teoricamente impegnato" NON è l'ateismo vero e proprio che il signor Mancuso butta in caciara alla grande. L'ateismo se è "impegnato" non può essere ateismo, perché l'ateo non si impegna ad imporre niente a nessuno, e vuole/pretende/ha-diritto che anche le religioni facciano lo stesso (cioè che non entrino nelle nostre case a giudicarci di continuo)
  • "Impegnarsi" significherebbe, insomma, il voler stabilire dei parametri di idoneità e priorità morale che l'ateo non può praticare: sconfesserebbe il suo non voler vivere sotto credenze (o non credenze) e di conseguenza il suo non volerle imporre
  • "Gli odierni alfieri dell'ateismo" NON vogliono "distruggere la religione", caro il nostro Mancuso. La religione è cosa nobile e rispettabile: il cattolicesimo, invece, è un'ipocrisia che di religioso ha ben poco, anzi (e di popoli ne ha distrutti, haivoglia)
  • e comunque l'ateo non vuole neanche "distruggere" il cattolicesimo. Riportiamo l'Italia ai tempi sociali di Federico II, e Mancuso vedrà come sia possibile una civile convivenza tra le varie religioni, e anche con atei, sufisti e agnostici. L'ateismo è una scelta privata come privata dovrebbe essere la scelta religiosa. Solo che i religiosi s'impongono al mondo; gli atei non fanno nient'altro che difendere i propri spazi (peraltro in ordine sparso e senza fare i furbetti con l'otto per mille dei cittadini)
  • questa religione cattolica non è certo la "rivincita di dio", anzi: la chiesa è in crisi, il Vaticano è in crisi. Non solo per questioni pedofile (che sarebbe facile tirare in ballo), ma per un'incongruenza visibilissima tra ciò che esiste e ciò che dovrebbe esistere: in mezzo c'è un papa troppo dotto per capire la quotidianità, troppo chiuso per saperla interpretare, troppo arrogante per capire che sarebbe ora di dare spazio alle diversità (non solo quelle omosessuali, s'intende)
  • e se Mancuso vuole vedere invece tra i soli credenti la presunta "rivincita di dio", sbaglia della grossa: politicamente, eticamente e geopoliticamente i paesi con il più alto tasso di credenti dichiarati, sono anche i più retrogadi scientificamente, socialmente e legislativamente... e poco attenti alla moralità (vere e necessarie, s'intende) dei propri governanti
  • gli atei vorrebbero "distruggere la rivincita di dio" proprio perché ne percepiscono il ritorno? E quando mai! L'ateo spera anche nella spiritualità e nella religione, perché l'ateismo è una forma di sperimentazione continua, di viaggiare infinito, di porsi continuamente dubbi, di approfondire ogni singolo atomo delle cose esistenti e di quelle che potranno esistere. Più religiosità c'è nel mondo, e più sarà possibile frequentare i cuori e le menti di chi non conosciamo; più invece i granitici monoteismi continueranno la loro strada verso l'arroganza e la protervia, e con più facilità la povertà spirituale spargerà il proprio sale tra le menti delle persone
  • i "libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di dio"?!? Vorrei scomodare Bombolo, se premettete (tanto è la profondità dell'argomentare di Mancuso): se mi documento me meni, se non mi documento mi meni; allora menami e la facciamo finita. La prima sciocchezza che mi dicono le persone quando scoprono che sono ateo è "prima devi leggere la Bibbia; poi dopo puoi dire di essere ateo". Al che ci si chiede se loro l'abbiano già fatto... In realtà a me sembra che i libri usciti in questi anni non abbiamo mai attaccato la religione ma gli abusi e l'arroganza del Vaticano (c'è un libretto sui rapporti tra Mafia e chiesa, tra Nazismo e chiesa, tra speculazioni finanziarie (e non solo) e chiesa, tra Berlusconi e chiesa). La domanda è: dov'è l'"attacco" alla religione? Dov'è la "rivincita di dio"? Eppoi: quantunque e qualora fossero veri i deliri di Mancuso, se dio è forte, se una religione è forte, se i suoi credenti sono forti, perché scomodarsi a denunciare un attacco che non potrebbe sortire effetto alcuno? 
  • al di là di queste considerazioni, Mancuso crede che parlare di qualcosa significhi attribuirle una "rivincita"? E allora gli ebrei che parlano della Shoah fanno "rivincere" Hitler? Ma che razza di argomentazioni di partenza usa, signor Mancuso?
Il resto del testo lo trovate qui. Vivaddio (è il caso di dirlo) ci sono meno fesserie di queste di partenza. Ma se questa è la profondità delle persone che devono parlare di fede e ateismo, siamo veramente messi male. Certo, c'è il citato equivoco che per farlo bisogna esserne competenti. Due allora sono le considerazioni: Mancuso non conosce l'"altra sponda"; l'"altra sponda" sa perfettamente che la stretta competenza, il teologismo bibliotecario, la polverosità della dottrina, non hanno lo stesso sapore delle strade e delle genti.
A volte le istruzioni pr l'uso della spiritualità sono così strumentalmente complesse e complicate, che viene voglia di ridere in chiesa durante la funzione.
Ancora una volta Repubblica ha dato fiato a chi poteva dire la sua: avessi scritto io certe cose, o voi, Ezio Mauro ci avrebbe sbattuto la porta in faccia.
E se dio esistesse, in questo preciso istante farebbe saltare la corrente per qualche minuto a casa di Vito Mancuso. Così s'impara.

20 novembre 2009

la parola artista

Nell'ormai lontano aprile di quest'anno avevo raccontato come mi fossi irritato al sentire un mio amico definirsi "artista". Implicitamente questo sacro termine l'aveva riferito anche a me. Per carità, scrivo, compongo musica, fotografo, lui dipinge; ma da qui a definirsi artisti ce ne vuole.
Personalmente non credo ci siano più artisti in giro da molto molto tempo. Ma non sono mai riuscito a concretizzarmi il perché di questa mia intuizione, sia mentalmente che in maniera comprensibile per gli altri.
Poi dal testo di Herzog che ho segnalato poco meno di un mese fa, ho letto una sua risposta (pagine 167-8) e ho capito tutto.

Detesto profondamente perfino il concetto di artista in quest'epoca. L'ultimo re dell'Egitto, Farouk, ormai in esilio e tremendamente obeso, mentre divorava una coscia d'agnello dopo l'altra, ha detto una cosa bellissima: «Ormai non ci sono più re al mondo, solo il re di cuori, il re di quadri, il re di picche e il re di fiori».
Il concetto stesso di artista è per certi versi anacronistico al giorno d'oggi. È rimasto un solo posto in cui si possono trovare artisti: il circo. Lì ci sono il trapezista, i giocolorie, persino l'artista del digiuno.
Il film non è analisi, è agitazione della mente; il cinema proviene dalla fiera del villaggio e dal circo, non dall'arte e dall'accedimismo. Penso davvero che nel mondo dei pittori, dei romanzieri e dei registi cinematografici non ci siano artisti. Si tratta di un concetto che appartiene a secoli passati, in cui c'erano cose come la virtù, i duelli con le pistole all'alba tra uomini innamorati e le fanciulle che svenivano sui divani.

Michelangelo, Caspar David Friedrich e Hercules Segers: questi sono artisti. L'«arte» è un concetto pienamente legittimo nelle loro epoche. Sono come gli imperatori e i re, che rimangono le figure decisive nella storia dell'umanità e la cui influenza è avvertita anche ai nostri giorni. Con le attuali monarchie non accade niente del genere.
Non sto parlando della morte dell'artista; credo soltanto che la creatività sia concepita in una prospettiva piuttosto datata e antiquata. Per questo detesto la parola «genio». Anch'essa è una parola che appariene a epoche passate e non alla nostra. Al giorno d'oggi è diventata un concetto malato.

[...]
L'espressione in sé e il concetto di cui essa è portatrice provengono dal tardo XVIII secolo e non sono adatti al nostro tempo.
[...]
Ho sempre pensato che un creatore non ha nessun rilievo intrinseco e questo vale anche per quanto concerne il mio lavoro.

20 ottobre 2009

Werner Herzog: Incontri alla fine del mondo

Raramente ho letto un libro così intenso: è come un vino raffinato, un piatto prelibato, un dolce ricercato.
Incontri alla fine del mondo non è solo l'intervista a Werner Herzog, vero e proprio monumento del cinema tedesco, ma è una lezione di vita, in tutti i sensi possibili.
Si parla di giovinezza, di curiosità, di viaggi, di avventure, di estetica, di arte, di umiltà, di fierezza, di passione, di pazienza, di cinema, di film, di regia...
Herzog mi aveva già abbagliato con una sua cronaca di lavorazione veramente succosa. Ma qui siamo di fronte a ben altro: perché un'intervista se è fatta bene, scava fino in fondo ma senza violentare l'intervistato; soprattutto rimette in linea le errate interpretazioni di critici distratti, quando cioè vedevano cose che magari un regista neanche apprezza; ridà anche una sorta di speranza a chi sta nel nulla e vorrebbe esprimere la propria arte in un contesto così affollato qual è quello del cinema odierno.
Insomma, è un testo che va oltre il prevedibile, e che consiglio caldamente a chiunque abbia un minimo di curiosità in corpo, di apertura mentale e spirituale.
Di gente come Herzog ce n'è poca in giro: perlomeno frequentiamola con questo bellissimo libro.

26 marzo 2008

la conquista dell'inutile, il libro di Werner Herzog

Werner Herzog è una rara perla nel panorama del cinema mondiale. Ha diretto straordinari capolavori sempre intrisi di forma, di estetica e di significati profondissimi, eppure sempre immediati, privi cioè di quelle banali sovrastrutture che spesso la contorta mente borghese elabora per dissimulare la propria ipocrisia.
Si sa, Herzog ha anche collaborato con uno straordinario monumento alla geniale psicosi qual era Klaus Kinski, con cui - tra i tanti film - ha girato Fitzcarraldo.
Di questa lavorazione parla in un suo libro che ha veramente del'incredibile: a differenza dei noiosi diari di registi saccenti che siamo abituati a sorbirci, è un testo bellissimo, pieno di evocazioni, di forza, di strutture nascoste. C'è anche una tenera e teutonica capacità di arrendersi spiritualmente alla bellezza limpida della natura più selvaggia, ma non per questo senza regole.
Chi è stato in Brasile, crede sempre di aver visto qualcosa di unico, di intimo e di privato che nessun altro è capace di capire e di poter vivere allo stesso modo. Ma poi, leggendo questo libro, si dovrà ricredere, perché Herzog ha saputo raccontare quei sentimenti meglio di chiunque altro, rendendoli veri e vivi e patrimonio di chiunque voglia riviverli.
Viene quasi il sospetto che l'Amazzonia sia un bluff che si manifesta per quello che sembra solo quando qualcuno voglia osservarla affettuosamente, per poi riprendere le sue sembianze reali, fatte di immaginazione e non di realtà.
Non credevo che un libro potesse prendermi a tal punto. Adesso è quasi un febbrile appuntamento serale, prima di crollare inesorabilmente dal sonno per poter dolcemente sognare formiche verdi che cantano opere liriche in compagnia di Nosferatu...