Che la percezione tattile di un libro, che il segno dei suoi sapori ed odori, siano solo frutto della nostra anima, è fuori da ogni dubbio: con buona pace dei modernisti ad ogni costo, l'"oggetto" libro è un totem privatissimo e riservato che ci dà così tante sensazioni, spesso struggenti, comunque incontrollabili e indefinibili.
Non credo che l'aridità di un iPad potrà mai sostituire questo languore: e quando i Montag della situazione, saranno riusciti a far scomparire totalmente i libri di carta, le generazioni che vivranno solo di quelli elettronici saranno più aride, povere, prive del senso fisico della lettura e della scrittura. Non esisterà, cioè, un "altro modo" di assaporare la scrittura: quando strumento e sostanza si confondono, l'uomo perde l'anima.
In questi ultimi mesi è uscita un'edizione integrale della Festa mobile di Hemingway.
Già: Hemingway.
È stato forse il primissimo autore con cui abbia avuto a che fare integralmente: il primo, cioè, di cui ho assaporato e letto tutto, in maniera continuativa e avida. Il primo di cui sento ancora oggi il dolce peso della scrittura perfetta, impossibile da imitare; quella strabiliante capacità di raccontare l'inutilità con nitidezza e precisione, con la voluta intenzione di fare cronaca, ma che indelebilmente diventa calore umano.
Sabato scorso ero sulla spiaggia, circondato da galline sconosciute che si confrontavano sui figli e sul fritto serale, maschi scemi che si scambiavano dati tecnici dell'ultimo iPhone del cavolo, bambini incivili che scambiavano lo stabilimento per un'esclusiva arena dove poter rompere i coglioni a chiunque. Gente che, insomma, aveva parcheggiato fuori la smart, ma che si ostinava a comportarsi come fosse ancora al volante.
Ma io avevo questo libro in mano, di carta, col suo odore di colla fresca, di stampa fresca, di rilegatura fresca. Lo accarezzavo perdutamente, senza alcuna voglia di fare qualcosa di attivo, di sensato, di nobile, di esemplare. Solo accarezzare questo libro, sperando che uscisse magicamente fuori la mia adolescenza, da correggere, da reintepretare, da rivivere in maniera più intelligente... e invece no: non usciva fuori nulla, se non qualche soffusa nostalgia, qualche dolce pensiero, qualche sensazione di cervicale accumulata dal troppo leggere in posture astratte.
La magia di quel libro era sospesa, ferma, ignobilmente egoista. Perché? Perché diamine non riuscivo a rivivere qualcosa di così lontano, di intimamente mio?
Perché indietro non si torna. Mai.
E Hemingway me l'aveva detto dagli occhi dell'ingles in Per chi suona la campana, dalle mani striate di sangue del Vecchio e il mare, dalle cavallette nere esposte al sole dei Racconti di Nick Adams, dal Posto tranquillo, illuminato bene dei 49 racconti... per quanto io volessi provare a tornare indietro, dispettosamente quel libro mi manteneva nel presente, caparbiamente nel presente.
Indietro non si torna. Mai!