Non amo (più) i post personali, a meno che non portino con loro qualcosa di necessario.
Più si invecchia e più si cresce, più si cresce e più si sente che l'invecchiare non è mai abbastanza: c'è bisogno di più tempo e di più ripartenze per rimettere tutto a posto.
Qualsiasi cosa facciamo da giovani, qualsiasi cosa diciamo quando siamo ancora con il fuoco della vita dentro, tornerà sempre indietro. E con gli interessi. Non importa se siano positivi o negativi: fanno male comunque.
È dal 1993 che lavoro in Rai, e ne ho incontrati di colleghi. Tanti.
Veramente tanti.
Al di là dei torti o dei meriti subìti dall'azienda, questa struttura è così enorme e popolata da non consentirci di percepire il Tempo: viviamo come in una sorta di eterno presente, mentre invece sotto di noi passa l'acqua degli anni, senza dissetarci e senza avvisarci.
Ecco, con questo post vorrei salutare cinque persone che non ci sono più. Morte prematuramente, con cadenze quasi precise, comunque ciniche, generando in me un'incomprensibile inquietudine difficile da chiarirmi e da raccontare; però mi hanno consentito di fermarmi, anche e solo per un attimo.
Conobbi Massimo Billi in quel di Esercizi di Memoria, una sofisticata trasmissione notturna di Radio3 che proponeva una serie di arbitrarie antologie guidate negli archivi di Radio Rai; e che archivi!
Nastri, "padelloni", vinili, supporti di ogni tipo, insomma, che venivano da noi ricercati in base a temi o argomenti personalissimi, quindi selezionati, quindi accuratamente digitalizzati, infine incastonati in una supermacchina-mangia-cd per una notturna radiofonica di quasi cinque ore.
Massimo era quel tipo di persone argute e acute che si lasciano scivolare tutto di dosso. Apparentemente distratto, aveva sempre la battuta pronta e sciorinava opinioni nitide e ben argomentate.
Stare con lui in ufficio era sempre molto divertente ed educativo. Ci si sentiva per telefono ogni volta che la sua Roma e la mia Juve si incrociavano.
Morì nel 2004, proprio pochi giorni prima di un canonico Roma-Juve, senza alcun indizio che lasciasse trapelare l'idea di un cuore così sfilacciato. Giovane. Insolente. Simpaticissimo. Mi manca ancora tanto.
Dall'esperienza di Esercizi di Memoria conservo anche la splendida esperienza con Arrigo Quattrocchi, di cui parlai anche qui.
Costretto da una cinica patologia a vivere pressoché immobilizzato dentro una sedia a rotelle, sapeva raccontare la musica colta in maniera dotta e nel contempo divulgativa, senza tradire la necessaria proprietà di linguaggio, ma senza neanche risultare difficile od oscuro.
Da quando lo conobbi, ho un'iniziale quanto rapida difficoltà ad ascoltare Bach: io lo adoro, lui gli preferiva Händel. Stargli accanto, anche al di fuori della registrazione dei suoi interventi, era un continuo insegnamento di vita, anche se lui rifiutava di attribuirsi tale merito.
Da quando è morto nel 2009, ormai sbriciolato dalla malattia, non ho avuto più la voglia di sfogliare il mio archivio di Musica e Dossier, antico quanto sontuoso mensile della Giunti che lo aveva avuto tra le firme di punta.
Durante i miei due anni con Piero Angela, invece, conobbi anche Virginia Splendore, di cui raccontai qualcosa qui. Nel tempo libero, suonava uno strumento musicale moderno e articolato, il cui nome nella sua Sicilia poteva assumere ben altro significato: lo stick, un non-basso da suonare soprattutto con doppio tapping, di cui Tony Levin è l'esecutore più noto.
Virginia era insieme tormento ed estasi: sembrava oscura e tormentata da atroci languori, ma quando sorrideva era un incanto; soprattutto sapeva essere amica ficcante, forse dolorosa, senza però fare male. Si è suicidata nel 2011: ogni giorno mi chiedo cosa avremmo potuto fare per non farla arrivare a quel punto.
Tra i miei primissimi ricordi in Rai, ecco Alessandra D'Asaro: conosce(va)te sicuramente la sua voce sempre misurata ed appropriata, ma anche gli appassionati sanremesi con i capelli bianchi l'hanno vista sul palco dell'edizione del 1995, insieme al Curzi del Tg3 e a molti altri coristi improvvisati del duo Guzzanti/Riondino. Appassionata di Gurdjieff e di Marocco e di mille altri argomenti, combatteva con una serie di patologie autoimmuni che le strapparono la vita alla fine del 2013.
Con lei fui uno stupido dogmatico: non sapendo accettare le nostre differenze di idee, ho smesso lentamente di frequentarla fino quasi ad ignorarla, finché non la incontrai fortuitamente a Campo de' Fiori, giusto tredici anni fa.
Ogni volta che penso ai nostri due anni in Radio, mi scappa un sorriso e un incontrollabile senso di colpa.
Antonella Rucci era una colonna portante di Blob, una trasmissione cult di Rai3 in cui militò per molto tempo anche mia sorella.
Era tra le poche persone che ti faceva sentire subito a tuo agio.
In lei c’era quella rara attitudine di non chiedere, di non pretendere, di non giudicare. Di lei ricordo una costante delicatezza, una genuina propensione all’ascolto, una vivacità intellettuale senza remore o confini, una voglia di andare oltre l’ovvio.
Ci perdemmo di vista per quei non-motivi che neanche sai quali siano. Però ricordo quando anni dopo ci incrociammo rapidamente durante una manifestazione aziendale in difesa della Rai.
Ci salutammo come due amici che si erano appena congedati due minuti prima. È "partita improvvisamente senza avvisarci" agli inizi del 2020.
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10 gennaio 2020
04 maggio 2017
sweet funny Valentino Parlato
Ventiquattro anni fa, la mia primissima esperienza Rai: Prima Pagina, Radio3. Sveglia presto, una diretta di un'ora abbondante, giornalisti diversi ogni settimana, un banco di prova emotivo e professionale probante.
Ma io mi divertivo un mondo. Spesso facevo il regista, ogni giorno rubavo con gli occhi le professionalità che mi circondavano: tecnici, registi, speaker, funzionari, ma soprattutto loro, i giornalisti ospiti; una turnazione di uno a settimana... abbastanza per poterci parlare, addirittura raccogliere confidenze, segreti, intuizioni.
Certo, diciamolo chiaramente: il giornalista medio italiano non è proprio simpatico e disponibile; ma ero abbastanza giovane da passare sopra certe cafonaggini sesquipedali, per concentrarmi invece sulla professione. E poi di gente bella ogni tanto ne passava: Valentino Parlato fu uno di questi.
Fumatore accanito, uomo dotto e disponibile, elargiva sapienza e cortesia con impagabile umiltà. Ascoltava tutti e con tutti apriva la sua casa mentale. Nel giro di pochissimi minuti ti faceva sentire a casa, sempre pronto a seguire le tue parole
con la testa leggermente inclinata da una parte, sempre in compagnia delle sue sigarette, sicuro che il suo comunismo dal volto umano fosse veramente l'unica via per ottenere diritti e benessere per tutti.
Valentino Parlato sapeva stare alla radio, sapeva gestire i momenti difficili e sapeva come obbedire alle nostre richieste dalla regia. Ogni ascoltatore era prezioso e unico: a lui dedicava tutto se stesso, prendendo appunti mentali e instaurando un dialogo che seppur fugace era la prova che ogni confronto è possibile, se solo ci fosse umanità da ambedue le parti.
Dei tre miei anni a Prima Pagina l'ho incontrato ogni volta, e ogni volta sembrava ricordarsi di me, dandomi un'importanza assoluta, come la dava a chiunque, facendolo sentire unico e irripetibile. C'era una sorta di cristianità di fondo nei suoi modi, quella che noi atei vorremmo fosse la vera cristianità, che mai ho incontrato invece nei cattolici veri o presunti.
Poi l'ho perso di vista. Giusto una volta l'ho salutato al volo mentre percorrevo il "suo" Rione Monti.
Un bel giorno, 17 anni fa ho avuto la possibilità di lavorare brevemente con Matteo, suo figlio. Certo, ci frequentammo poco - a causa di una sua frattura che lo tenne lontano dai comuni uffici. Una volta gli dissi che gli volevo bene a Matteo, d'istinto; perché essere figlio di quel padre lo raccomandava automaticamente. Il verbo era inappropriato, ovviamente; e infatti Matteo mi guardò strano.
Però era così, ed è così: comunista mangiabambini o no che fosse, Valentino Parlato era un uomo giusto, buono, attento e civile.
C'è un aggettivo che generalmente le donne usano per gli uomini (raramente accade il contrario): "dolce". Ecco, Valentino Parlato era un uomo dolce, dolcissimo. E mi dispiace che sia morto. Tanto.
Ma io mi divertivo un mondo. Spesso facevo il regista, ogni giorno rubavo con gli occhi le professionalità che mi circondavano: tecnici, registi, speaker, funzionari, ma soprattutto loro, i giornalisti ospiti; una turnazione di uno a settimana... abbastanza per poterci parlare, addirittura raccogliere confidenze, segreti, intuizioni.
Certo, diciamolo chiaramente: il giornalista medio italiano non è proprio simpatico e disponibile; ma ero abbastanza giovane da passare sopra certe cafonaggini sesquipedali, per concentrarmi invece sulla professione. E poi di gente bella ogni tanto ne passava: Valentino Parlato fu uno di questi.
Fumatore accanito, uomo dotto e disponibile, elargiva sapienza e cortesia con impagabile umiltà. Ascoltava tutti e con tutti apriva la sua casa mentale. Nel giro di pochissimi minuti ti faceva sentire a casa, sempre pronto a seguire le tue parole
con la testa leggermente inclinata da una parte, sempre in compagnia delle sue sigarette, sicuro che il suo comunismo dal volto umano fosse veramente l'unica via per ottenere diritti e benessere per tutti.
Valentino Parlato sapeva stare alla radio, sapeva gestire i momenti difficili e sapeva come obbedire alle nostre richieste dalla regia. Ogni ascoltatore era prezioso e unico: a lui dedicava tutto se stesso, prendendo appunti mentali e instaurando un dialogo che seppur fugace era la prova che ogni confronto è possibile, se solo ci fosse umanità da ambedue le parti.
Dei tre miei anni a Prima Pagina l'ho incontrato ogni volta, e ogni volta sembrava ricordarsi di me, dandomi un'importanza assoluta, come la dava a chiunque, facendolo sentire unico e irripetibile. C'era una sorta di cristianità di fondo nei suoi modi, quella che noi atei vorremmo fosse la vera cristianità, che mai ho incontrato invece nei cattolici veri o presunti.
Poi l'ho perso di vista. Giusto una volta l'ho salutato al volo mentre percorrevo il "suo" Rione Monti.
Un bel giorno, 17 anni fa ho avuto la possibilità di lavorare brevemente con Matteo, suo figlio. Certo, ci frequentammo poco - a causa di una sua frattura che lo tenne lontano dai comuni uffici. Una volta gli dissi che gli volevo bene a Matteo, d'istinto; perché essere figlio di quel padre lo raccomandava automaticamente. Il verbo era inappropriato, ovviamente; e infatti Matteo mi guardò strano.
Però era così, ed è così: comunista mangiabambini o no che fosse, Valentino Parlato era un uomo giusto, buono, attento e civile.
C'è un aggettivo che generalmente le donne usano per gli uomini (raramente accade il contrario): "dolce". Ecco, Valentino Parlato era un uomo dolce, dolcissimo. E mi dispiace che sia morto. Tanto.
18 aprile 2015
il mio Mario Pirani
Dopo un paio di lettere, venne fuori che avevamo un comune
amico appena scomparso, Tom Carini (il compagno di Elena
Croce), e la circostanza trasformò quella discussione scritta in una
chiacchierata telefonica, come fossimo vecchi amici (io, che potevo essere
tranquillamente suo figlio).
Era un periodo in cui in Rai me ne capitavano di cotte e di
crude: non “appartenendo” a nulla, ero obbligato a mendicare contratti e
meritocrazia con risultati decisamente offensivi. Quando venne a sapere quali mancanze
avevo subito da una comune conoscenza, Pirani prese le mie difese! Capito? Un
uomo di tale portata, difendeva un ragazzo qualsiasi!
Credo sia stato uno dei pochi ad aver letto la mia tesi di
laurea, oltretutto telefonandomi per ringraziarmi perché l’avevo citato tra le dediche.
Lo so, sono cose formali, facili da fare… ma, proprio perché
“facili” da fare, nessuno dalle posizioni come la sua le ha mai fatte.
Grazie a lui ho conosciuto Enzo Siciliano, il quale dopo avermi conosciuto mi chiese il
raro privilegio di scrivere nell’Enciclopedia del Cinema della Treccani!
Una medaglia nel mio curriculum.
Colpito dalla qualità della mia voce, Pirani spedì il mio curriculum a
Santalmassi (senza che gli avessi chiesto nulla), allora direttore delle tre reti radiofoniche della Rai. La cosa
andò male solo perché quella comune amica aveva da imporre figli di amici più
potenti.
Quando dovetti entrare forzatamente in causa con la Rai, fu
l’unico che cercò di farmi entrare a Repubblica, tanto da farmi avere
addirittura un colloquio con una dirigente della nascente area multimediale.
I primi tempi in cui ci frequentammo, una volta mi chiamò
per invitarmi a colazione. Io, nella mia imbarazzata ingenuità, presi alla
lettera l’invito e gli chiesi se preferiva i cornetti o le ciambelle… lui
sorrise e mi disse: “preferisco che venga a mezzogiorno”.
Ecco, non posso dire di aver perso un “amico” perché è un
termine sicuramente impegnativo, ricco di liturgie e significati profondi. Però
sono veramente addolorato per la sua morte.
Non ci siamo mai dati del "tu", neanche so perché. Però, adesso che non ho la soggezione di avere davanti il suo sapido sguardo, posso permettermi di dire: ciao Mario, Arukh atah Adonai Eloheinu melekh ha'olam, dayan ha-emet.
22 febbraio 2015
cronache di un abbraccio dell'@HuffPostItalia
Se siete arrivati qui per la prima volta, riassumo brevemente cosa è accaduto in questa settimana.
Poi,
da domani, torniamo a parlare di libri e dischi.
Durante
il live twitting del Festival di Sanremo tra l’11 e il 12 febbraio, posto un tweet infelice che poi cancello subito.
Il
12 febbraio, un quotidiano a tiratura nazionale attribuisce
quel mio errore addirittura al presentatore del Festival, Carlo Conti.
Immediatamente,
da
questo mio blog personale dichiaro di
essere io il responsabile dell'accaduto, sottolineando il
pressapochismo del giornalista in questione. Forse è la prima volta che un
dipendente pubblico ammette in prima persona le proprie responsabilità,
perlomeno in questo modo.
Nonostante
questo mio espormi, il 13 febbraio Claudia
Vago dallo scranno dell’Huffington Post
dichiara che non mi sono assunto queste responsabilità (nonostante lei
abbia saputo che sono stato io, proprio grazie al post dove me le sono assunte… a me sembra malafede).
C’è
di più. In poche righe, Claudia Vago mette in dubbio la mia onorabilità, la mia
professionalità, i miei metodi di lavoro; brandendo oltretutto la mia testa per
scagliarsi contro la Rai. Per finire,
dal
suo account Facebook aggiunge frasi diffamatorie.
Domenica
15 febbraio, dal mio blog smonto
pezzo per pezzo tutte le infondatezze di Claudia Vago. Il 17 febbraio posto il testo sia nel suo blog personale che sotto il suo
l’articolo nell’Huffington Post.
A
tutt’oggi, Claudia Vago non ha risposto ai miei corposi appunti, né tantomeno
ha sentito il dovere etico di ammettere di aver sbagliato impostazione del suo
intervento, ampiamente smontato sia dal sottoscritto che soprattutto dai fatti.
Il
problema serio, però, è che tra vent'anni, come tra pochi mesi, il post screditante di Claudia Vago
mostrerà un Alessandro Loppi che non c'è, che non esiste, ma che l'approccio 2.0 di molti lettori condannerà a vita e
relegherà nella gora dell'eterna incompetenza.
Del
resto, già in quest’ultima settimana, il post
in questione potrebbe essere stato letto dai 26.660 follower di Claudia Vago (e dai suoi amici su Facebook), ma anche dai 226.000 follower
e dai 305.000 fan di Huffington Post, come anche dai lettori online del periodico, come anche da chi
fa ricerche su di me, e via immaginando.
Il
bello è che quelle di Claudia Vago non sono critiche, opinioni o appunti. Sono
giudizi, e infondati.
Ora:
non credo che Claudia Vago sia una bugiarda, ma che non abbia compreso fino in
fondo il peso specifico che simili infondatezze possano avere dentro il web; web
che conserva tutto decontestualizzandolo, senza consentire al lettore 2.0 di sapere esattamente cosa sia accaduto (figuriamoci, poi, se
andrà a leggere la mia contraccusa).
Lo
stesso lettore 2.0 si chiederà legittimamente perché non faccio causa a Claudia
Vago. È presto detto: non posso. Attenzione: non ho detto che non voglio, ma
che non posso.
Aggiungo
che dobbiamo ricordarci chi è il direttore dell’Huffington Post… Un cortocircuito che mi vedrebbe debole in
partenza, nonostante il danno subito. Secondo la mia malizia, Claudia Vago può
e poteva immaginarlo.
E
comunque, dall’alto della sua negligenza, Claudia Vago non ha messo in dubbio
solo la mia onorabilità, ma paradossalmente anche quella dell’Huffington Post.
Già:
sono questi i metodi che Huffington Post consente di usare?
E
dove erano i fact checkers dell’Huffington
Post?
E se oggi sono stato io
a subire le dimostrate infondatezze di Claudia Vago, a quanti altri toccherà
domani, dopodomani, tra un mese o un anno?
Come
parlare degli errori altrui in maniera intelligente
A
proposito di abbracci ai morti:
15 febbraio 2015
radiazioni Vago, distruggete Loppi
Vorrei provare a condividere
con voi una potenziale conseguenza del
mio aver raccontato l’errore che mi è capitato durante l’ultimo Sanremo.
Con una serie di rapide premesse, fondamentali e necessarie per conoscerci
meglio (leggermente meglio).
Io adoro le parole, adoro il
loro suono, il come cambiano senso a una storia a seconda di dove le collochi e
quando le usi. Addirittura, odio ripetere le stesse parole, pure in circostanze
leggere. Soprattutto, ho un grande rispetto per il loro significato.
Se in circostanze ponderate,
io uso una parola piuttosto che un’altra, una virgola, un accostamento, una
sequenza, è perché ci ho ragionato sopra. Poi, è ovvio, c’è sempre il limite
del perfezionismo nevrotico; me ne rendo conto.
Alcune persone, per
grossolaneria o per ragionata malafede, tendono a stravolgere l’uso delle
parole. Tu dici blu, ma loro ti
costringono a giustificarti perché avresti detto rosso. Ergo, non riusciamo a chiarire il nostro pensiero, perché
costretti a ribadire cosa non si è
detto.
Tant’è che alcuni
opinionisti/giornalisti abusano di questa mentalità, “raccontando” il pensiero
altrui, riassumendolo in maniera comoda oppure indicandone solo una parte,
oppure decontestualizzandolo. Certo, si riparano spesso al rimandare
all’articolo originale tramite un link;
ma in pochi vanno a verificare, si sa.
Come corollario a questo
metodo, troviamo il framing. Lo
conoscete tutti, ma non con questa definizione apparentemente tecnica. Il framing è il presentare una persona
attraverso un solo dettaglio, approfittando del fatto che il nostro
interlocutore si fidi più di noi che di chi stiamo indicando. Dato che una
parte della gente tende a fare il tifo per l’una o per l’altra parte, se subite
il framing non ne uscite più; se,
invece, lo attuate, avete vinto in partenza. Comunque, è una tecnica
esecrabile.
Se a questi due nodi
fondamentali del comunicare, aggiungete la gggente
(vera o presunta), la frittata è fatta. Il web
ha tolto ogni filtro oggettivo alla lettura e alla scrittura; che sia un
bene o un male, non è materia di dibattito, perlomeno in questo post. Resta, però, oggettivo ed
inequivocabile che chiunque si sente in diritto (ma anche in dovere) di dire
per forza la sua, senza pensare che nel web
le parole restano, le sentenze pure, e che l’approssimazionismo di ormai
troppi lettori è sempre in agguato.
Veniamo a noi.
Prima,
per cortesia, leggete questo testo.
Altrimenti non siete miei lettori :-)
Ecco, l’avete letto? Ora,
leggete qui, per cortesia. Abbiate pazienza.
Lasciate perdere:
·
i toni
·
quel “caro
Alessandro” (poteva scrivere “carino”, come avrebbe detto la Duchessa Vago per
disprezzare la plebe)
·
il fatto che
Claudia Vago sia ben visibile - e quindi oggettivamente avvantaggiata nel caso
di una polemica - dalla “corazzata” dell’Huffington
Post (di contrappasso, che dovrei fare? Chiedere spazio al sito della Rai?)
·
il fatto che NON mi abbia scritto prima una mail in privato
per approfondire alcuni aspetti (per correttezza umana, direi)
·
il ridondare di
quei “dici”, che di fatto mettono in dubbio la mia parola
Lasciamo perdere tutto
questo. Claudia Vago commette qualche eRore e sembra NON conoscere l’argomento;
oppure, nella fretta, si è dimenticata di conoscerlo. Come? Semplice. Abbiate
pazienza, e vedrete.
Primo punto:
nel mio post
originario, rimandavo al
link di un articolo apparentemente
scorretto nei confronti di Carlo Conti e del Festival di Sanremo. La notizia per un opinionista (se notizia ci
fosse stata) sarebbe potuta essere un’altra:
“Notate come il quotidiano XY abbia
sparato nel mucchio, mentre invece il motivo è più banale”.
Io potevo stare zitto e far
sì che la melma restasse sulle spalle del Festival
di Sanremo. Ora: dato che conosco chi si fa il mazzo, e quanto me ne faccio
io, non riuscivo (e non riesco) a sopportare che un mio tweet sbagliato
potesse infangare l’immagine della professionalità di un’intera organizzazione.
La cosa divertente è che Claudia Vago non
cita mai l’articolo da me riportato, anzi sembra che non se ne sia accorta!
Cosa costava a Claudia Vago cliccare sul link
esplicitamente collocato nel mio post?
Avrebbe scoperto che il tono del mio post
era generato da quell’articolo.
Secondo Punto: da quel non citare la mia citazione, Claudia Vago arriva facilmente alla
retorica maternalistica. Leggete qui: Perché
in questo Paese c’è sempre il bisogno di trovare un colpevole altrove per non
doversi mai assumere la responsabilità di niente? Claudia Vago, non ho scaricato
la mia colpa su nessuno. Bastava leggere.
Terzo punto: con tecnica del framing a go-go,
Claudia Vago definisce “tentativo di giustificazione” il mio post che raccontava l’accaduto.
Attenzione: tentativo. Poi: giustificazione. Due definizioni false e
tendenziose in una sola riga.
Quarto punto: Claudia Vago implicitamente critica l’aver cancellato il tweet. L’ho cancellato perché se io calpesto una merda, mi pulisco
i piedi; se la merda fosse finita sotto le scarpe di tutti i miei colleghi, sarebbe stato
molto peggio. Inoltre, come ben si sa, se sbagli un tweet e lo cancelli anche subito, è comunque facilissimo stamparlo o ritrovarlo.
Quinto punto:
Claudia Vago attacca la Rai per
interposta persona, usando addirittura il mio nome e cognome dallo scranno di Huffington Post, chiedendosi come mai un
solo social manager possa seguire un festival di quella portata,
postando/twittando su 5 account contemporaneamente.
Il problema è la Rai o il mio errore?
Quante cose abbiamo sul piatto di Claudia Vago?
Sesto punto E
poi, esistono strumenti nel web che
consentono di gestire un numero pressoché illimitato di social. Una sola persona potrebbe
seguire più account. Lo sappiamo noi
addetti ai lavori, cui Claudia Vago è annoverata. Parlarne fuori dal nostro contesto, significa solo costruire una ragione che non ha una
base corretta. O spieghi accuratamente come si possa fare, o non usi impropriamente questa apparente follia di saper usare numerosi
social contemporaneamente.
Settimo punto,
gravissimo: un sindacalista magari non addentro alle meccaniche illustrate nel sesto punto,
legge il post di Claudia Vago; decide
allora di andare dall’Ufficio Personale della Rai e pretende spiegazioni sul perché una sola persona lavori ai social; l’Ufficio Personale della Rai
- che a sua volta può non conoscere l’intero contesto - si spaventa e riprende
il mio dirigente, che a sua volta mi toglie dal mio ruolo e al minimo mi
demansiona, al massimo mi sospende per quattro giorni. Claudia Vago, vedo che
sei di sinistra, o pretendi di esserlo: per colpire un gigante che neanche
scalfirai, colpisci un dipendente peraltro corretto perché ammette un errore?
Ottavo punto: Claudia
Vago lamenta
una certa asetticità del mio live
twitting (pensando addirittura che qualcuno me l’abbia ordinato).
Gioco scorretto in partenza, mi vien da pensare. Secondo Claudia Vago, durante
un Festival avrei dovuto commentare le performance dei cantanti in
gara? Ripeto: in gara? Io mi sono
lasciato andare con gli ospiti. Ma con i cantanti, no! E se Claudia Vago fosse
la persona che sembra essere, doveva saperlo e quindi evitare di aggiungere
legna al fuoco.
Nono punto: dal
suo account Facebook personale,
Claudia Vago scrive che il giorno dopo l’incidente mi sarei arrampicato sugli specchi
dal mio account Twitter privato
(persino retwittando numerosi tweet a mio favore; ma dài). Ora: non
solo non è vero; ma ha approfittato del fatto che pochi dei suoi lettori
andranno a controllare la mia timeline.
Andate a verificare la
mia timeline e non troverete
specchio alcuno, figuriamoci delle arrampicate.
Decimo punto:
nel suo articolo, Claudia Vago scrive che io cerco un colpevole senza assumermi
le mie responsabilità. Dico: ma i suoi lettori l’hanno letta? Ricapitolando: senza che nessuno gliel’abbia richiesto, Alessandro Loppi dice “ragazzi, quella cazzata di ieri è opera mia”...
e cosa fa Claudia Vago? Prende il mio post
- dove ammetto l’errore - e dice che non
mi sono assunto la responsabilità dell’errore!?! “Cara” Claudia, ma ce ffai o cce
sei? Almeno: hai controllato cos’hai scritto, sì o no? Ma chi ti legge e segue,
perché non se ne accorge? Perché non ti fa notare questa specifica
contraddizione? Possibile che tu debba usare simili mezzucci retorici?
Non mi sembri la tipa.
Insulto finale, a corollario di tutto questo ambaradam, dal suo account Facebook personale Claudia Vago scrive: “Io
volevo dirvi che però con soggetti così perdo le speranze che il mondo possa
migliorare”. E questi sono i metodi che usa Claudia Vago senza conoscere la storia personale di
chi aggredisce? Ma Claudia Vago è sicura di sapere la mia storia umana e
professionale?
Il tutto per un tweet sbagliato e ammesso.
La prossima volta, me ne
resto a casa a sentire Keith Jarrett.
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